“Il rugby è il mio elemento. È quello sport che ti permette di esprimere la parte più autentica di te, la tua vera essenza. Una volta che sei in campo e stai giocando, non ti puoi nascondere, combatti su tutti i palloni, sei davanti alla realtà e stai letteralmente dentro la fatica”. Maria Magatti è stata per anni una delle colonne della Nazionale azzurra femminile di rugby, dove conta oltre 50 presenze, e di recente è diventata la seconda italiana convocata nella squadra internazionale delle Barbarians che riunisce giocatrici provenienti da tutto il mondo, una sorta di Hall of Fame del rugby mondiale.
Ma la sua storia con la palla ovale nasce quasi per caso, grazie a un illuminato insegnante delle scuole superiori che colse nella giovane ragazza lombarda il talento che avrebbe potuto sbocciare.
di Ilaria Leccardi
Maria, ci racconti come e quando sei arrivata a giocare a rugby?
Il mio percorso è iniziato in maniera quasi casuale, anche perché quando ho iniziato, a Como, la mia città, il rugby non era uno sport conosciuto o praticato a livello femminile. Da ragazzina giocavo a basket, ma poi non sono cresciuta tanto di statura come le altre ragazze e, quando iniziai il Liceo Classico, il mio professore di motoria mi propose di provare il rugby, per partecipare ai giochi sportivi studenteschi che si sarebbero tenuti a Jesolo, al mare, per un paio di giorni. Fui attirata da questa proposta, quasi più per la trasferta… Ma una volta provato il primo allenamento mi sono sentita subito a mio agio, mi sono appassionata. E dopo due anni di progetto scolastico abbiamo fondato la prima squadra femminile della città.
E da questo sport non ti sei più staccata. Come è proseguita la tua carriera?
Dopo due anni a Como, sono andata a giocare nella squadra di Monza, in Serie A. Inizialmente era complicato dal punto di vista logistico, non avevo ancora la patente, dovevo andare a Monza in treno e poi passavano a recuperarmi i miei genitori o mio fratello. Ma nulla era un peso per me. Nel 2014 abbiamo vinto lo scudetto, l’unico della storia della squadra. Dopo alcuni anni ho iniziato a sentire la necessità di nuovi stimoli e nel 2018 mi sono trasferita a giocare al CUS Milano. Ora vivo e gioco a Treviso.
La tua storia sportiva si è giocata nei club ma anche molto nella Nazionale. Quando sei arrivata a vestire la maglia azzurra?
In realtà la prima convocazione è arrivata quando ancora non avevo una squadra, nella Nazionale Under 16. All’epoca avevo svolto solo attività scolastiche, giocando le finali nazionali studentesche a Roma. Lì erano presenti dei rappresentanti della Federazione, mi hanno notata e mi hanno convocata. Ero entrata nel rugby che contava.
E in quel rugby hai scritto pagine di storia per l’Italia, tra la partecipazione a varie edizioni del Sei Nazioni con alcune indimenticabili mete e dei Mondiali, l’ultima delle quali nel 2022 in Nuova Zelanda.
Sì, con la maglia azzurra è stata una bellissima storia. Ora, dopo i Mondiali in Nuova Zelanda ho deciso di ritirarmi dalla Nazionale, dando priorità al lavoro. Sono insegnante di motoria ed è molto complesso conciliare gli impegni. Ho scelto di dedicarmi solo più al seven, il rugby a sette, fino a quando la scorsa estate sono incappata in un brutto infortunio, mi sono rotta la rotula. Tuttavia, ad agosto mi è arrivata una telefonata inaspettata e incredibile: mi invitavano a una tournee con la squadra delle Barbarians, per giocare due partite, in Sud Africa e in Irlanda. Arrivare nel team Barbarians è un sogno per tutte le giocatrici e i giocatori di livello internazionale. In Italia prima di me (e di Sara Barattin convocata insieme a Maria, ndr) era successo solo a una giocatrice. È una squadra che non ha luogo, ha solo uno staff dirigenziale, convoca allenatore e giocatrici da tutto il mondo e consacra il riconoscimento di una carriera importante nel nostro sport. Ricevere quella telefonata mi ha provocato un mix di panico ed emozione. Zoppicavo ancora dopo l’infortunio, avevo appena cambiato scuola e città, essendomi trasferita a Treviso quest’estate… Ma ho parlato con la dirigente, che ha capito benissimo la situazione, e ha accettato che prendessi qualche giorno di permesso per partecipare alla trasferta.
E che esperienza è stata?
Fantastica, difficile da descrivere. Dal punto di vista sportivo, ho giocato entrambe le partite in programma: la prima contro il Sud Africa allo stadio di Twickenham, la seconda contro il Munster in Irlanda. Le abbiamo vinte tutte e due e in entrambe ho segnato una meta, quindi non posso che essere felice. Ma soprattutto è stata una grande esperienza dal punto di vista umano. Con tutte le ragazze della squadra, alcune delle quali già le conoscevo altre no, si è creato immediatamente un legame speciale in pochissimo tempo. Inoltre posso dire che mi sono divertita tantissimo. Rispetto alle normali partite che ero abituata a giocare, con il club o in Nazionale, non ho sentito pressioni, ho potuto godermi il gioco, stare al cento per cento dentro lo spirito del rugby.
Come hai vissuto da ragazza la tua storia nel rugby? Hai mai subito forme di discriminazione o sguardi perplessi per la tua scelta sportiva?
Discriminazioni no, però ho avvertito spesso un’ignoranza diffusa, principalmente da parte di alcuni “anziani” del nostro sport che ancora denigrano il rugby femminile. Spesso, durante competizioni come il Sei Nazioni che mettono la nostra Nazionale un po’ più in vista, io e le mie compagne andavamo a leggere i commenti sui social e trovavamo chi scriveva che il rugby non è uno sport da femmine, che le femmine devono andare a chiudersi in cucina. C’è una parte del mondo del rugby che non ha mai visto di buon occhio il nostro sport al femminile. Ma penso sia più che altro una questione di ignoranza.
Oggi tu sei insegnante di scienze motorie. Guardando al passato, la tua storia nel rugby è nata proprio grazie a un insegnante che ti ha indirizzata sulla giusta strada sportiva. Come vivi oggi il tuo ruolo?
La mia esperienza è stata così importante e determinante per la mia vita che avevo voglia di restituire anche io qualcosa in quella direzione, a favore dei giovani.
Dell’insegnamento mi piace la parte relazionale, soprattutto con i ragazzi un po’ più grandi. Cerco di essere un sostegno, uno spunto di riflessione per loro, mi piace molto il dialogo, a partire dallo sport. Vorrei far capire loro che lavorare e dedicarsi anche con fatica a uno sport è importante, che quelle di motoria sono ore in cui si fa però anche qualcosa di bello e divertente.
E il tuo rapporto con i social?
Ho Facebook e Instagram, ma non sono una grande fruitrice di social. Ho ancora un’impostazione da boomer. Preferisco così, condivido alcune delle mie esperienze sportive, ma non amo mettere in scena la mia vita quotidianamente online. Penso che se ne possa fare a meno.