Nel corso delle attività estive per Odiare non è uno sport, in collaborazione con le ASD del territorio del Friuli Venezia Giulia, sono stati proposti incontri e laboratori ai giovani atleti, per coinvolgerli in modo attivo in momenti di riflessione sui valori positivi dello sport.
Uno dei risultati di queste attività, che hanno coinvolto anche i Centri estivi comunali del paese di San Pier d’Isonzo (Gorizia), sotto la guida della psicologa dello sport Clara Miani, è il Manifesto dello sport. Elaborato da ragazze e ragazzi che hanno scelto di mettere tra i primi posti: il divertimento, la lealtà, il rispetto delle regole e lo spirito di squadra.
Cinque i punti evidenziati ed elaborati assieme ai ragazzi, che riassumono lo spirito di un percorso costruito insieme e diventano applicabili in contesti differenziati.
Qualche settimana fa il parroco di Losson, frazione di Meolo in provincia di Venezia, ha negato l’utilizzo del campo parrocchiale alla squadra femminile under 15 della ASD calcio Meolo. In vista della prima stagione della categoria Under 15 la società, che da pochi anni ha avviato la squadra femminile, aveva chiesto ad inizio agosto la possibilità di utilizzare il campo di Losson, area attualmente inutilizzata ed abbandonata.
Dopo più di un mese di silenzio il parroco don Roberto Mistrorigo, su sollecitazione dell’allenatore Dario Dalla Francesca, ha convocato il presidente della società sportiva e l’allenatore stesso per comunicargli la decisione.
La motivazione addotta, come riportato dall’allenatore su un post su facebook, sta nella impreparazione della comunità. La decisione però sembra essere riferita solamente alla decisione del consiglio pastorale e della diocesi di Treviso (nulla di cui meravigliarsi vista la lunga storia di intercessioni nello sport femminile da parte della chiesa): non è dunque chiaro a cosa si sia riferito il parroco parlando di “comunità”, che ha scelto di non aggiungere altre spiegazioni.
La notizia è stata ripresa da molte testate giornalistiche nazionali e locali in modo critico: la squadra femminile giocherà nello stadio di Meolo, dovendo però utilizzare gli spogliatoi del palazzetto dello sport.
A fronte della possibilità di ridare vita ad un impianto sportivo attualmente abbandonato come quello di Losson, la scelta obbligata è stata quella di costringere le giocatrici ad una soluzione precaria, aggiungendo un ulteriore ostacolo ad un movimento sportivo che già vive di molte difficoltà.
La crescita del movimento calcistico femminile degli ultimi anni è evidente: dal 2008 al 2020 l’aumento delle calciatrici tesserate è stato del 66,5%, ed il passaggio all’interno della FIGC della serie A femminile dal 2018 e al professionismo nel 2022 ha determinato un importante cambio di passo.
Anche la diffusione nei canali di comunicazione è in crescita: a fronte di una storica invisibilizzazione nel 2019 la RAI ha trasmesso i mondiali di calcio femminili registrando 24 milioni di spettatori totali, e dal 2021 la massima serie del campionato femminile viene trasmessa in TV prima da SKY e poi da LA7.
Questa esposizione mediatica ha fatto si che sempre più sponsor si interessassero al movimento, aumentando quindi la disponibilità economica delle squadre della massima serie.
Eppure la notizia di quanto accaduto a Meolo non può sorprendere: se da un lato l’enorme lavoro dei movimenti per i diritti delle donne e contro le discriminazioni di genere hanno contribuito ad abbattere alcune barriere ideologiche, motivo per cui oggi una bambina o ragazza che decide di iniziare a giocare a calcio non rappresenta più una scelta straordinaria, dall’altra permangono ragioni culturali profonde che contribuiscono a creare l’humus in cui dichiarazioni come quelle del parroco di Losson non rappresentano un’eccezione.
Di certo il ruolo la narrazione del calcio femminile come sport “minore” rispetto al corrispettivo maschile riveste un ruolo importante: paragonare due movimenti con storie, investimenti e diffusione così diverse, è una scelta ideologica che non fa il bene del movimento calcistico femminile, generando aspettative poco rappresentative dello stato delle cose.
Gli investimenti sopra descritti riguardano unicamente le società di calcio professionistiche, mentre a livello locale e dilettantistico il calcio femminile vive una situazione a tutt’oggi precaria: le strutture di gioco e di allenamento sono poche e spesso vengono “cannibalizzate” dalle squadre maschili, costringendo le giocatrici ad una fatica ulteriore per incastrare gli orari o raggiungere campi da gioco distanti e poco confortevoli.
A riguardo di ciò è esemplare la vicenda del Centro Storico Lebowski, polisportiva popolare di Firenze, unica nel panorama italiano ad investire in misura superiore nella squadra femminile rispetto alla squadra maschile.
Nel 2022 la squadra raggiunge l’ambito risultato di qualificarsi per la serie C del campionato femminile, serie che nel movimento femminile è considerata della lega dilettantistica (nel calcio maschile la serie C è la prima serie ad essere considerata professionistica, ndr).
Al termine della stagione, conclusa con la salvezza, arriva la comunicazione della società: “Nella stagione 2023/2024 il C.S.Lebowski non iscriverà la propria squadra femminile alla Serie C, nonostante la straordinaria salvezza ottenuta sul campo ai Playout.È una decisione estremamente sofferta ma, nonostante gli sforzi e i tentativi, non possiamo che prendere atto del fatto che una nuova stagione di Serie C sarebbe stata per noi insostenibile dal punto di vista economico e non solo. Affrontare un campionato nazionale e farlo garantendo standard accettabili ad atlete e staff comporta un aumento dei costi clamoroso rispetto a un campionato regionale. L’attuale organizzazione dei campionati femminili costringe le società a un vero e proprio salto mortale, per poi trovarsi a macinare km e km e ad affrontare squadre che, nella maggior parte dei casi, rappresentano club professionistici.”
La differenza è evidente: per i tornei dilettantistici maschili si parla al massimo di tornei regionali, che quindi consentono con relativa facilità le trasferte alle squadre, mentre costruire un campionato nazionale per una lega non professionistica equivale a marcare una distanza incolmabile tra società già professionistiche e quelle che non lo sono.
Resta quindi il dubbio che gli investimenti e l’avanzamento del movimento “dall’alto” non siano dovute ad un tentativo di avanzamento nelle politiche contro le discriminazioni, ma piuttosto un raffazzonato tentativo di rendere prodotto di speculazione anche il movimento calcistico femminile.
Ad evitare altri casi come quelli di Losson non saranno di certo gli investimenti di Ebay nel torneo di serie A femminile, quanto un lavoro territoriale di diffusione di politiche attive di accessibilità allo sport a prescindere dal genere o dall’estrazione sociale, per garantire le stesse possibilità a tutte e a tutti.
A Parigi Valentina Petrillo ha scritto la storia. Correndo nella categoria T12 i 400 metri e i 200 metri, dove ha raggiunto le semifinali senza poi riuscire ad accedere all’atto conclusivo per le medaglie, l’azzurra è diventata la prima atleta transgender a gareggiare in una Paralimpiade. L’avevamo intervistata nella prima edizione di Odiare non è uno sport, approfondendo la sua storia umana e sportiva, quando ancora in pochi parlavano di lei.
di Ilaria Leccardi
Gli anni di allenamento per arrivare a Parigi sono stati duri e impegnativi, per l’atleta napoletana che oggi vive e si allena a Bologna e che gareggia in ambito paralimpico in quanto fin da adolescente ha la malattia di Stargardt che comporta una grave ipovisione. Lo scorso anno era stata bronzo mondiale sui 200 e 400 metri e la partecipazione ai Giochi Paralimpici di Parigi è un grande risultato. La sua, che è senza dubbio una storia di inclusione importante, di ispirazione per tante e tanti giovani che vivono nell’ombra, ha però scatenato critiche e commenti d’odio. Non si parla del merito della sua partecipazione: il regolamento internazionale lo permette, Valentina rispetta i parametri indicati dell’IPC, il Comitato Olimpico Internazionale, e da World Para Atheltics. Qui si parla di odio, hate speech, vera e propria discriminazione attraverso le parole che in queste settimane e giorni sono rimbalzate del web, contro la sua persona, contro l’intera comunità LGBTQIA+.
Questa è la notizia di cui nessuno parla. Come se fosse ormai un fenomeno normale, la libertà di deliberatamente insultare sul web. Tra chi argomenta in maniera civile che la partecipazione di Valentina Petrillo non è opportuna, perché avrebbe dei vantaggi fisici sulle altre donne (quando al momento nessuno studio scientifico lo conferma e, semmai, dice il contrario per le persone che seguono la terapia ormomale MtF – da maschio a femmina), e chi invece si lascia ad andare a insulti gratuiti e violenti, anche attraverso volgare ironia utilizzando meme. Ad ogni notizia pubblicata sui social da testate giornalistiche o dalle tantissime pagine di informazione e divulgazione attive in particolar modo su Facebook, ha fatto seguito una valanga di hate speech, per lo più denigratori e insultanti, nei termini e nei modi. Catena di parole inaccettabili, pochissime volte censurate dai moderatori delle pagine stesse.
Sul caso si è espressa anche J.K Rowling, autrice di Harry Potter, che già aveva parlatosul caso di Imane Khelife, la pugile algerina avversaria nel primo turno olimpico dell’azzurra Angela Carini. Su X, dove ha enorme visibilità mondiale, Rowling ha attaccato come già più volte in passato la comunità trans e ha utilizzato per Valentina il termine “cheat”, ossia imbrogliona, paragonandola a Lance Armstrong, ciclista vincitore di sette Tour de France, prima di essere squalificato a vita per uso di doping. Questo ha contribuito ad alimentare il dibattito. Solo questo tweet ha raccolto in pochi giorni 4 milioni di visualizzazioni, oltre 60mila like, 10mila retweet e 3.500 commenti.
All”ondata di odio Valentina ha risposto in pista, prima correndo, poi con forza e parole semplici ai microfoni Rai. “In un suo libro J.K. Rowling parla di uno sport senza genere… Mi sarei aspettata qualcosa di più da lei”.
Il sogno di Valentina, realizzato su quella pista lilla di Parigi, ha valore soprattutto per tutte le persone trans che sono state invisibilizzate e marginalizzate, per chi si sente escluso da un contesto sportivo che dovrebbe essere per sua natura inclusivo. “Lotto contro tutto l’odio che accompagna la vita delle persone come me. Nel mondo ancora si muore per il solo fatto di essere trans. Io incarno due diversità, la disabilità e l’essere trans, e spero che attraverso il mio messaggio si possa finalmente normalizzare questi fenomeni e non avere più paura”.
Riportiamo qui soltanto un piccolo esempio degli innumerevoli commenti racconti sui social, per evitare di riprodurre ulteriore violenza. Che siano abbastanza per capire di cosa stiamo parlando.
“Quello dei discorsi d’odio è sempre un argomento delicato da trattare con ragazzi e ragazze. A noi allenatori capita di sentire parole ed espressioni non adeguate, ma non sempre si sa come agire. Gli incontri sull’hate speech che abbiamo seguito ci hanno fornito una chiave di lettura su come intervenire. A partire da alcuni valori centrali dell’ambito sportivo, come fair play e cooperazione, abbiamo poi analizzato le forme di comunicazione utilizzate dai ragazzi. Penso che mi sarà molto utile anche nel mio percorso futuro”.
Francesco Bergantin è un giovane tecnico di tennis, ancora in attività come atleta, laureato in Scienze e tecniche psicologiche all’Università degli Studi di Trieste. Ed è tra gli allenatori che hanno tenuto le attività sportive ai centri estivi comunali di San Pier d’Isonzo, paesino in provincia di Gorizia che quest’anno è stato coinvolto nel percorso di formazione sul contrasto all’hate speech nell’ambito di Odiare non è uno sport, tenuto dalla psicologa dello sport Clara Miani.
di Ilaria Leccardi
“Sono uno sportivo da sempre, ho praticato calcio dai 6 ai 12 anni, poi sono passato al tennis. Con l’obiettivo di unire l’approccio sportivo all’attenzione alla dimensione psicologica, nel 2022 ho seguito il corso di istruttore e ora seguo i ragazzi in diverse realtà, tra cui la ASD Tennis Campagnuzza di Gorizia, una delle scuole tennis più celebri d’Italia, di quarto livello”, racconta Francesco, che ai centri estivi ha tenuto proprio le attività di avvicinamento al tennis, che i ragazzi hanno potuto sperimentare, a rotazione con calcio, baseball e basket, grazie al coinvolgimento delle società sportive del territorio.
“Insegnare un primo approccio al tennis a ragazzi che mai hanno toccato una racchetta, e farlo in un contesto di centro estivo, è molto diverso che insegnare in una scuola tennis. L’attenzione alla tecnica passa in secondo piano e si valorizzano maggiormente la partecipazione e la creazione di un gruppo positivo tra i ragazzi”.
L’attività dei centri estivi viene organizzata per settimane e non sempre prevede una continuità per tutto il periodo estivo: ci sarà chi parteciperà più a lungo, chi solo per brevi periodi, o in forma frammentata. “Tra l’approccio del lunedì, giorno in cui arrivano i ragazzi nuovi, e quello del giovedì e venerdì c’è differenza. Spesso ci siamo trovati a far giocare insieme ragazzi che non si erano mai visti prima e che abbiamo aiutato a costruire nel giro di poche ore una socialità nuova e positiva. Un aspetto non scontato. Si inizia la settimana puntando sulla conoscenza reciproca e si finisce a far giocare e collaborare il gruppo, senza alcuna pretesa di ottenere risultati sportivi”.
Anche in questa direzione ha lavorato il percorso tenuto da Clara Miani a San Pier d’Isonzo, organizzato in diversi appuntamenti. Il primo aperto alla cittadinanza per presentare i centri estivi e le attività che la stessa psicologa avrebbe tenuto con i ragazzi una volta a settimana; il secondo dedicato agli allenatori e tecnici del territorio, volto a comprendere il fenomeno hate speech e acquisire ottiche e strategie di comunicazione per contrastarlo; il terzo riservato a educatori e istruttori che avrebbero poi lavorato ai centri estivi comunali.
l’incontro di formazione sull’hate speech con gli allenatori del territorio di San Pier d’Isonzol’incontro riservato a educatori e istruttori dei centri estivi di San Pier d’Isonzoun momento delle attività tenute dalla psicologa Clara Miani con i bambini dei centri estivi
“Dalla mia esperienza – prosegue Francesco – ho potuto notare che soprattutto in adolescenza i ragazzi tendono a usare una comunicazione non positiva con i coetanei, con il rischio che a volte si cada in forme di bullismo, ma anche cyberbulismo sui social. Noi allenatori dobbiamo essere bravi a intervenire con gli strumenti giusti, senza passare oltre. Come è emerso dall’incontro con la psicologa, questo non vuol dire reprimere i ragazzi o semplicemente censurare un comportamento, ma cercare di avere un approccio positivo anche quando facciamo una critica. Dobbiamo essere capaci di creare un ambiente sicuro per tutti, soprattutto i più fragili, e stimolare nel gruppo una comunicazione positiva, sia nel contesto degli sport di squadra dove c’è una responsabilità condivisa, sia in quelli individuali, come il tennis, dove l’avversario lo trovi soprattutto in te stesso”.
Parole, quelle di Francesco a cui fanno eco le testimonianze di altre istruttrici e istruttori che, come lui, hanno potuto seguire l’incontro con Clara Miani.
“Nel corso della serata – dice, ad esempio Rosa Lazzari, istruttrice di ginnastica che al centro estivo si è occupata del gioco libero – sono emersi molti fattori importanti sul rapporto istruttore/ragazzi/famiglia: il saper porsi sia nei confronti dei ragazzi che degli adulti, il comprendere e il far comprendere. Motivare sempre chi fa un’attività sostenendolo. Fargli conoscere le sue capacità e come svilupparle, avere sempre atteggiamenti positivi anche se stiamo muovendo una critica. Nei giochi di squadra far capire che tutti sono importanti indipendentemente dell’apporto che riescono a dare e che si cresce tutti assieme. Lo sport dev’essere piacere e divertimento, ma nel rispetto delle sue regole. Soprattutto deve essere amato, da chi lo fa e da chi lo insegna. Solo così ci sarà uno scambio reciproco che fa crescere tutte e due le parti”.
E ancora, Erik Franceschini istruttore e dirigente di minibasket, allenatore e dirigente di baskin, in passato allenatore del settore giovanile di calcio, sottolinea come siano emerse “interessanti riflessioni sulle varie diramazioni che coinvolgono lo sport e un rinforzo nel credere ancora di più nel lavoro di coloro che condividono la volontà di cambiare il mondo dello sport per renderlo più sostenibile e aperto a un mondo e a una società che stanno mutando velocemente o in modo molto profondo. Lavorare e comprendere la comunicazione in tutte le sue declinazioni è uno dei veicoli con cui accompagnare e accompagnarsi a questo cambiamento”.
Un livello di hate speech senza eguali, per una vicenda nata attorno al ring, condita di fake news e arrivata a diventare un caso politico internazionale. Il match olimpico di pugilato tra l’azzurra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif– categoria 66 kg – tenutosi ieri e concluso con la vittoria di quest’ultima dopo il ritiro dell’italiana, sta riempiendo da giorni le pagine dei giornali, ma ancor più i flussi social con commenti d’odio su diversi fronti.
di Ilaria Leccardi
Partiamo dai fatti. Alcuni giorni fa, quando viene diffuso il nome dell’avversaria dell’azzurra a seguito del sorteggio, i giornali iniziano a sollevare il caso: si tratta di Imane Khelif, testa di serie numero 5, attorno a cui da qualche tempo è in corso uno scontro internazionale ai massimi livelli dello sport. L’atleta lo scorso anno era infatti stata squalificata dall’IBA (International Boxing Association) agli ultimi Campionati del Mondo, assieme alla taiwanese Lin Yu-tin, a seguito di test che avrebbero definito il “mancato rispetto dei criteri di idoneità per la partecipazione alla competizione femminile” (come si può leggere dal comunicato ufficiale dell’ente internazionale). Una decisione definita “arbitraria” dal Comitato Olimpico Internazionale, soprattutto per le modalità in cui è stata effettuata, “senza una procedura adeguata, considerando che le due atlete gareggiano in competizioni internazionali di alto livello da molti anni”. Tant’è che alle Olimpiadi di Parigi Imane Khelif e Lin Yu-tin, che avevano già partecipato ai Giochi di Tokyo, sono state ammesse e la validità della loro partecipazione è stata ribadita con un’altra nota emessa dal CIO nella serata di ieri.
Un comunicato pubblicato a seguito dell’inasprirsi dei toni. Perché nel frattempo il caso mediatico in vista del match tra Khelif e Carini era già montato. Dapprima le testate italiane hanno parlato di “pugile trans”. Alcune addirittura, contravvenendo a qualsiasi regola deontologica nei confronti delle stesse persone trans, arrivano a parlare di “uomo che gareggia con le donne”. Politici e ministri si scomodano per gridare allo scandalo. Poco per volta si ricompongono i pezzi del puzzle ed emerge che – sono sempre ricostruzioni – il problema di Khelif, donna che ha sempre gareggiato con donne, sarebbero i livelli alti di testosterone. La sua situazione potrebbe essere quella di una persona con “variazioni delle caratteristiche del sesso” (DSD) che possono comportare iperandroginismo, cioè una produzione di ormoni superiore alla media generale. In patria Khelif è una stella dello sport, una stimatissima atleta, ambasciatrice Unicef. Si è allenata anche in Italia, presso il Centro Nazionale di Pugilato di Assisi.
Ieri il giorno tanto atteso. Le pugili salgono sul ring, inizia il match. Khelif parte più aggressiva. Carini dopo alcuni secondi si ferma e va all’angolo, si fa aggiustare il caschetto. Si riprende, la pugile algerina manda a segno un destro. Dopo aver incassato, Carini si avvicina nuovamente al suo angolo e, dopo 46 secondi dall’inizio dell’incontro, decide di ritirarsi. “Mi ha fatto malissimo”. Il dolore al naso è troppo forte. La seconda Olimpiade di Angela Carini termina così.
Senza voler entrare negli aspetti tecnici e nei regolamenti, che in ogni caso consentivano all’atleta algerina di partecipare, la vicenda ha scatenato un’allarmante ondata di odio social, prima nel dibattito italiano poi anche a livello internazionale, con una fortissima polarizzazione. Fin da subito è stata presa di mira la pugile algerina, contro la quale si sono scatenati messaggi in forma di aggressività verbale, linguaggio volgare, ma anche vere e proprie forme di discriminazione, sottoforma di omofobia e transfobia, benché appunto lei non sia una persona trans. Molti dei commenti sono inquadrabili come attacchi alla comunità lgbtqia+ o al mondo del femminismo. La pugile viene definita nei peggiori modi, con epiteti scurrili, con totale disattenzione nei confronti della sua reale storia umana e sportiva.
Quindi, a seguito dell’andamento del match, dopo il ritiro dell’italiana, il dibatitto e il flusso social si sono ulteriormente polarizzati. Da una parte chi si è schierato con Carini e la decisione del ritiro, dall’altra chi ha invece parlato di “sceneggiata”, attacando la pugile italiana che alla fine del match non ha stretto la mano all’avversaria. In entrambi i casi, i commenti d’odio si sono moltiplicati in direzioni diverse, con rinnovati attacchi a Khelif, ancora definita “uomo”, “camionista” “trans”, con epiteti e linguaggio volgare, nonché espressioni razziste nei confronti del suo paese di appartenenza e addirittura ai migranti algerini. C’è chi parla di “violenza di genere sul ring”, chi in maniera volgare fa riferimento agli organi sessuali di Khelif, in un senso o nell’altro (“è donna, è nata con la f.”, o “Carini ha fatto bene, rischiava che la Khelif la prendesse a pisellate”, “si sistema il pacco, avete mai visto una donna sistemarsi il pacco?”). Dall’altra parte contro Angela Carini, pugile azzurra dall’importante storia alle spalle, accusata di aver abbandonato il match in maniera strumentale, irrisa per quello che è stato considerato uno scarso livello di combattività, tacciata di vittimismo e di andare alla ricerca di visibilità. I commenti in questo caso si sviluppano maggiormente in forma di linguaggio volgare o con una modalità irrisoria: “Pensava di fare danza classica?”, “Pensava di giocare con le barbie?”.
E anche quando, di fronte all’elevato livello di aggressività, i social media manager delle testate giornalistiche italiane sono intervenuti in maniera esplicita, il flusso non si è fermato, anzi. “Vi chiediamo di esprimere le vostre opinioni senza sfociare in discriminazioni di alcun genere”, scrive il profilo Instagram della Gazzetta dello Sport. Commento che a sua volta, nel giro di pochi minuti, ha scatenato un ulteriore marea di commenti di aggressività verbale da parte degli utenti. Così come sono stati presi di mira con hate speech e insulti i telecronisti Rai che in diretta hanno commentato la scelta di ritirarsi di Angela Carini, con le parole: “Non è una bella figura” .
Il caso è diventato presto anche internazionale, ma a far rumore è la dimensione di fake news globale che ha assunto la vicenda. Alcune ore dopo il match, Elon Musk, proprietario di X, tra le persone con maggiore visibilità web al mondo, ha rilanciato un post con la fotografia di Angela Carini e le parole: “Gli uomini non appartengono allo sport femminile #IStandWithAngelaCarini. Rendiamolo trend 🔥”. Viene lanciato il trend. X/Twitter si scatena. Interviene sul caso anche Jk Rowling, autrice della saga di Harry Potter che già in passato aveva espresso posizioni molto criticate, escludenti nei confronti della comunità trans. Si moltiplicano meme che accomunano Khelif e Mike Tyson con la parrucca.
Il dato di fatto è che, ancora una volta, temi sportivi che toccano tematiche relative alla razzializzazione (si veda caso Egonu-Nazionale italiana, come spiegato nella seconda edizione del Barometro dell’Odio nello Sport), al protagonismo femminile o alle differenze di genere, sono capaci più di altri di scatenare l’odio online. E questo anche quando la specifica disciplina sportiva non trova certo i favori delle cronache. Quando mai infatti il pugilato è stato al centro della narrazione sportiva o ha suscitato un flusso di click e commenti così elevato? Qui si esula dallo sport e un ruolo importante lo ha senza dubbio la confusione generata da una scorretta informazione di base sull’argomento, per responsabilità delle testate giornalistiche che inizialmente hanno fornito informazioni imprecise e mal contestualizzate sulla figura dell’atleta algerina. Questo si è unito agli interventi di alcuni noti esponenti politici che, sempre attraverso i canali social, hanno dato visibilità alla controversia utilizzando alcune parole chiave ed espressioni, per altro in maniera scorretta, capaci di aumentare il livello di polarizzazione (una su tutte “pugile trans”). Una vicenda che, nel suo complesso, ha dimostrato uno scarso rispetto di fondo nei confronti di entrambe le protagoniste, anche per l’eccessivo carico di aspettativa che si è creato nei confronti del match.
E così, se nei giorni precedenti all’incontro che ha visto sul ring Angela Carini, la boxe aveva sollevato dibattito e discussione a causa di una serie di decisioni arbitrali e punteggi sfavorevoli alle azzurre e agli azzurri, il ring è tornato al centro del dibattito in una forma tutt’altro che conforme allo spirito olimpico. Tanto più che la stessa pugile italiana e i suoi allenatori non avevano espresso alcun giudizio negativo, alcuna protesta formale o alcun attacco contro l’atleta algerina e la sua possibilità di competere ai Giochi. Imane Khelif è una pugile battibile, come aveva dimostrato la sua eliminazione ai quarti di finale a Tokyo 2020.
I centri estivi come luogo e tempo speciale. Una salvezza per le famiglie, durante la lunga chiusura delle scuole. Un’opportunità per bambini e ragazzi per sperimentare attività nuove e significative, capaci di fondere dimensione ludica e approfondimento, senza la tensione delle dinamiche scolastiche o agonistiche. È in quest’ottica che si inserisce il percorso ideato all’interno di Odiare non è uno sport, grazie alla collaborazione tra CVCS e il Comune di San Pier d’Isonzo, paesino in provincia di Gorizia che ogni anno organizza centri estivi comunali, coinvolgendo le società sportive del territorio. Dagli allenatori ai genitori, dagli educatori dei centri estivi comunali al lavoro diretto con i ragazzi, il percorso è stato guidato da Clara Miani, psicologa dello sport, che abbiamo intervistato per conoscere meglio le attività e la risposta del territorio.
di Ilaria Leccardi
Il percorso è stato strutturato a “imbuto”, con vari incontri sul territorio. Il primo, il 6 maggio, per presentare i centri estivi comunali alle famiglie, in cui la psicologa ha potuto conoscere i genitori e presentare le attività programmate per i ragazzi, ma anche per raccogliere bisogni e necessità. “Abbiamo riscontrato grande entusiasmo nelle famiglie ed è emerso il bisogno di iniziare a parlare di sport e valori sportivi, ma anche di creare una base solida sul tema della comunicazione per prevenire il fenomeno dell’hate speech e strutturare un ambiente sportivo sicuro e positivo”. Quindi, il 20 maggio, si è tenuto un incontro esteso a tutti gli allenatori del territorio, volto a comprendere cosa sia l’hate speech e acquisire ottiche e strategie di comunicazione per contrastarlo online e in campo. “Abbiamo avuto una buona partecipazione volontaria, con età molto differenti, a prevalenza maschile”, racconta Miani, spiegando che si è trattato di un incontro informativo ma che ha previsto anche una piccola parte esperienziale sui commenti d’odio che i partecipanti potevano aver letto online o di cui erano stati vittima diretta. “L’idea – aggiunge – è stata quella di suscitare nei partecipanti una consapevolezza di quanto sia pervasivo il fenomeno nelle nostre vite nella cornice sportiva”.
Infine, il 10 giugno, un appuntamento con educatori e istruttori che avrebbero lavorato direttamente con i ragazzi ai centri estivi. “Gli allenatori – spiega Miani – hanno riconosciuto l’esistenza di fenomeni d’odio online, ma la necessità più forte era capire come gestire i fenomeni d’odio e di intolleranza che si manifestano in campo. Non è scontato, infatti, che lo sport sia educativo: è uno strumento potente, ma è necessario identificare delle aree di lavoro specifiche per garantire che sia effettivamente educativo e positivo”.
L’incontro con gli allenatori del territorioL’incontro con gli educatori dei centri estivi comunali
Dopo la fase di dialogo con il territorio, si è passati alle vere e proprie attività nei centri estivi. Un momento dell’anno “speciale”, spiega Miani, che pone i ragazzi in uno “stato psicofisico e relazionale ottimale, senza le tensioni tipiche della scuola e dell’attività sportiva agonistica, ma in cui il gruppo è spinto al dialogo, anche per riflessioni profonde”.
Il percorso a San Pier d’Isonzo, in cui centri estivi comunali coinvolgono principalmente società sportive locali che lavorano con sport di squadra, ha previsto l’intervento della dottoressa Miani una volta a settimana, ogni giovedì dal 20 giugno al 18 luglio. Cinque appuntamenti di due ore, a partecipazione volontaria, ciascuno focalizzato su un valore sportivo, ideati con format differenti, per non annoiare, per coinvolgere e per far fronte al fatto che non è scontato che i bambini e i ragazzi fossero presenti a tutti gli incontri.
I valori su cui si è deciso si lavorare sono stati: il divertimento e l’importanza di fare sport per divertirsi; lealtà e fair play; rispetto del gioco, delle regole e degli avversari; vincere e perdere; saper cooperare nello sport. Obiettivo finale: creare una sorta di manifesto sportivo dei centri estivi di San Pier d’Isonzo. Le attività, pensate per un target di età 10-13 anni ma con la possibilità di includere anche bambini più piccoli, hanno coinvolto ogni volta una ventina di partecipanti, per lo più ragazze.
“Ogni incontro – spiega Miani – ha previsto una mezz’ora introduttiva sul valore sportivo identificato e poi un’ora in cui i partecipanti hanno potuto sviluppare in forma creativa le proprie idee attorno ad esso. Abbiamo usato format ogni volta differenti, dal template per intervistare gli altri partecipanti ai centri estivi, per approfondire il tema del divertimento nello sport, al fumetto per sviluppare storie di fair play, dalla rappresentazione delle regole sportive attraverso disegni sulle magliette, valorizzando l’importanza di scrivere la regola, pronunciarla e poi ‘indossarla’ per trasmetterla agli altri, alla creazione di brevi cortometraggi sul tema del vincere e del perdere nello sport, fino a quella che abbiamo chiamato ‘guerrilla lettering’, ossia la creazione di slogan in forma grafica da affiggere nei vari punti della grande area dove si svolgevano i centri estivi. Ogni incontro si è chiuso poi con un momento di riflessione in cui abbiamo tirato le somme, tenendone traccia su un grande cartellone, per la creazione finale del manifesto dei centri estivi”.
Una sperimentazione sicuramente importante, che ha arricchito l’estate del paesino friulano per tanti giovani. E che ha avuto un ottimo esito grazie al coinvolgimento dell’intera comunità e di un tessuto urbano con forti legami tra gli attori sociali. “Lavorare in un contesto urbano di un paese è un punto di forza, abbiamo abbracciato una comunità estesa anche ai comuni vicini, ma dove c’era già molta connessione. Mi ha sorpresa il grande interesse nei confronti di queste tematiche ed è stato molto importante lavorare in un contesto così aperto, disteso e ludico, piacevole per i ragazzi e le ragazze che si sono sentiti sereni nella condivisione e hanno potuto esprimere la propria creatività su tematiche non scontate”. Un’estate ricca di insegnamenti che sicuramente porteranno con sé.
Uno degli obiettivi principali di Odiare non è uno sport è incontrare i giovani, dialogare con loro per approfondire e conoscere cosa sia l’hate speech e lavorare insieme per contrastarlo. Ecco perché, nelle sette regioni italiane coinvolte dal progetto, durante l’anno scolastico formatrici e formatori delle ong partner hanno attraversato gli istituti scolastici per svolgere attività a stretto contatto studenti e studentesse e giovani di età compresa tra 11 e 18 anni. Tra loro anche Vittoria Frigerio e Silvia Chiesa, formatrici di Progettomondo che opera nell’area veronese.
La formazione, che si è svolta tra novembre e aprile, è stata realizzata in 16 classi di Verona e provincia. Frigerio e Chiesa hanno incontrato 14 classi delle scuole secondarie di primo grado e 2 classi delle scuole secondarie di secondo grado, lavorando in totale con 411 studenti e studentesse. Sono inoltre stati raggiunti 94 giovani sportivi tra gli 11 e i 17 anni, suddivisi in 7 squadre: 4 squadre di calcio e 3 squadre di rugby.
“Le attività che abbiamo svolto hanno confermato ancora una volta che i ragazzi e le ragazze, quando coinvolti e stimolati, riescono sempre a dare spunti e riflessioni arricchenti”, dicono le due formatrici. “Sia nelle scuole medie che nelle superiori, la discriminazione percepita come più forte e diffusa è legata all’aspetto fisico, complice anche il cambiamento di altezza, peso e forme, tipico del periodo adolescenziale. Le differenze si amplificano con le discriminazioni rispetto al colore della pelle, elemento più facilmente esposto a possibili giudizi e discriminazioni.
Dai feedback ricevuti da ragazzi e ragazze, la formazione svolta durante il progetto sembra essere un buon punto di partenza: parlare dei fenomeni discriminatori rappresenta un modo di prendere atto che il problema esiste.
“La consapevolezza -proseguono le formatrici – emerge come la chiave reale, visto che la maggior parte della popolazione giovane coinvolta non conosceva o non sapeva descrivere il significato della parola stereotipo. Fornire esempi concreti che aiutino ad avvicinarsi al concetto di stereotipo, che trasportino l’immaginario dei ragazzi e delle ragazze verso situazioni più concrete per immedesimarsi nelle conseguenze quotidiane provocate dalla discriminazione può realmente fare la differenza. Questo passaggio, questa chiave di lettura che scatta, invita a conoscere e poi valutare con la propria testa in che modo sapere agire di fronte alle discriminazioni”.
Una classe dell’IC Borgo Roma di Veronaattività in aulaUna classe dell’IC Golosine di VeronaUna classe del Liceo Medi VillafrancaI ragazzi del Liceo Medi Villafrancaattività in aula
Anche la parola empatia risulta poco conosciuta soprattutto nell’età più giovane. “Il termine, e la narrazione su come mettere in pratica il processo empatico, ha incuriosito le classi e andrebbe senza dubbio sviluppato con il supporto dei docenti e delle famiglie”.
“Le classi che abbiamo attraversato in molti casi sono a stretto contatto con quello viene percepito normalmente come bersaglio di pregiudizio. Abbiamo incontrato contesti eterogeni per provenienza di studenti e studentesse, e anche classi con la presenza di persone disabili. Non abbiamo notato pregiudizi razzisti verso compagni e compagne di classe, anzi. Gli studenti e le studentesse incontrati sono abituati a venirsi incontro nelle difficoltà legate alla lingua o nel cercare di comprendere un momento di difficoltà di coetanei e coetanee. Nonostante durante la formazione sia emerso qualche episodio di pregiudizio razzista vissuto in prima persona, gli studenti e le studentesse hanno raccontato con molta più libertà episodi di linguaggio d’odio vissuti dalle loro famiglie o da parenti e amici”.
Dopo la pubblicazione della seconda edizione del Barometro dell’Odio nello sport, la ricerca del centro CODER dell’Università di Torino sul tema del’hate speech nei social media è proseguita per esplorare le dinamiche che si sviluppano su Instagram e Tik Tok.
L’indagine si è concentrata anche in questo caso sui profili social delle cinque principali testate giornalistiche sportive e i commenti degli utenti, ma considerate le specificità delle due piattaforme si è scelto di adottare un approccio metodologico di tipo qualitativo, che ha permesso di far emergere logiche differenti rispetto a Facebook e Twitter/X, oggetto di indagine della ricerca pubblicata lo scorso autunno.
Su Instagram e Tik Tok, spiegano i ricercatori, la componente visiva, con la pubblicazione di foto e video, la fa da padrona e questo incide molto sulle modalità di commento ai contenuti pubblicati. Se su Instagram la componente testuale mantiene una sua importanza, soprattutto nei post pubblicati dalle testate giornalistiche, dove il contenuto tende ad assumere la forma di una notizia breve e in tempo reale, su Tik Tok il testo resta completamente accessorio.
Dalla nuova fase della ricerca emerge come l’hate speech sia presente anche nei flussi di commenti di Instagram e Tik Tok, ma in misura nettamente minore, e gli utenti tendono a utilizzare una chiave maggiormente ironica per commentare le notizie pubblicate su questi social dalle testate sportive. Anche la moderazione – aggiungono i ricercatori – ha un ruolo centrale: il numero di moderatori umani per la community italiana di TikTok è pari a 439, contro i 164 totali per la community italiana di Facebook e Instagram.
C’è chi ha raccontato di episodi di razzismo o discriminazione a cui ha assisitto durante una partita. Chi ha spiegato in poche ma incisive parole quanto è successo a un amico o a un’amica in un contesto sportivo poco inclusivo. Chi ha ripercorso un episodio positivo vissuto in prima persona o a sostegno di un compagno di allenamento. E chi ha spiegato come anche gli allenatori o le allenatrici a volte possono avere comportamenti escludenti e negativi.
Da mesi Odiare non è uno sport entra nelle scuole per approfondire il tema dell’hate speech e comprendere come i discorsi d’odio si possano manifestare anche nei contesti sportivi, per conoscere e contrastare il fenomeno in dialogo con studenti e studentesse. In totale, al 31 maggio 2024, sono stati 3.244 gli studenti e 499 i giovani sportivi raggiunti grazie alle attività del progetto.
Nelle scuole, formatrici e formatori delle ong partner hanno incontrato le classi, proponendo loro le attività previste dall’Unità Didattica ideata all’interno del progetto: un incontro per introdurre il fenomeno dell’hate speech con un riferimento specifico al linguaggio d’odio nello sport, un secondo per coinvolgere i ragazzi nel riconoscimento dei discorsi d’odio attraverso l’analisi di casi pratici estrapolati dai social, un terzo incontro per sperimentare modalità comunicative di contrasto all’hate speech.
A questo percorso è sembrato importante affiancare la possibilità di raccogliere direttamente dagli studenti delle testimonianze reali di episodi di discriminazione o inclusione vissuti in prima persona o come testimoni, in ambito sportivo. La raccolta è avvenuta in forma anonima, attraverso l’utilizzo di una scatola in cui i ragazzi e le ragazze hanno potuto inserire dei biglietti scritti di propria mano.
Oltre cento sono state le narrazioni raccolte, alcune di poche parole, altre più articolate, che nel complesso restituiscono un quadro di grande consapevolezza e attenzione alle dinamiche che si possono sviluppare sui campi da gioco, sugli spalti, negli spogliatoi. Tanti – purtroppo – i casi di razzismo o bullismo con forme di bodyshaming. O ancora frequenti le prese in giro nei confronti di chi non dimostra uno spiccato talento sportivo. Parole che possono ferire e segnare cicatrici anche durature. Ma c’è anche chi racconta episodi positivi, sottolineando il valore della squadra, la bellezza di sentirsi accolti in un gruppo, l’importanza di tendere una mano ai nuovi arrivati.
Lo chiarisce bene il cubo realizzato nella scuola media di Lavagno, in provincia di Verona, dove il docente di arte Luca Vinco, dopo la formazione di studenti e studentesse, tenuta dalle operatrici di Progettomondo sui temi della campagna “Odiare non è uno sport”, ha deciso di andare oltre.
“Ogni anno nel nostro plesso viene indetta la settimana delle arti e delle scienze su varie tematiche e laboratori”, spiega Vinco. “Ho seguito la presentazione della campagna e sono rimasto colpito da un’attività sui volti anonimi di varie nazionalità, invitando a scegliere con chi si sarebbe voluto trascorrere una serata. I miei studenti cercano sempre di risolvere il cubo di Rubik, e quindi è nata l’idea di un lavoro corale in cui, al posto dei colori, apparissero i volti di persone di sei diverse nazionalità, asiatiche, africane, europee, latinoamericane. Come si mescolano i colori di Rubik, così abbiamo mescolato i volti, per restituire il senso dell’inclusione di ogni etnia. Siamo tutti esseri umani dello stesso pianeta e lo abbiamo voluto esprimere con simpatia, creando un cubo solidale”.
Nel cubo ogni volto ha i propri tratti distintivi e colori diversi della pelle. Ma gli occhi non ci sono, restano, mancano dai disegni.
“Il messaggio – conclude il docente – è di andare oltre l’aspetto fisico che si coglie con lo sguardo, ma entrare nell’anima delle persone. Ragazze e ragazzi hanno lavorato con entusiasmo e passione, soddisfatti infine del risultato che non si aspettavano. Il cubo, composto di una serie di scatoloni di 80×80 centimetri, è stato esposto nell’atrio, di sbieco, per dare il senso che ruoti. L’installazione sarà vista e vissuta ogni giorno, rilanciando il messaggio di inclusività”.
Ed ecco come, a partire da un progetto specifico che nasce per occuparsi dell’ambito sportivo, lo sguardo si allarga e fa scaturire nuovi ragionamenti sull’inclusione e il contrasto a ogni discriminazione.
Questo sito Web utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza. ImpostazioniACCETTO
Privacy Policy
Panoramica sulla privacy
Questo sito Web utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza durante la navigazione nel sito Web. Di questi cookie, i cookie classificati come necessari vengono memorizzati nel browser in quanto sono essenziali per il funzionamento delle funzionalità di base del sito Web. Utilizziamo anche cookie di terze parti che ci aiutano ad analizzare e comprendere come si utilizza questo sito Web. Questi cookie verranno memorizzati nel tuo browser solo con il tuo consenso. Hai anche la possibilità di disattivare questi cookie. La disattivazione di alcuni di questi cookie può influire sulla tua esperienza di navigazione.
I cookie necessari sono assolutamente essenziali per il corretto funzionamento del sito Web. Questa categoria include solo i cookie che garantiscono funzionalità di base e caratteristiche di sicurezza del sito Web. Questi cookie non memorizzano alcuna informazione personale.