Quanti discorsi d’odio ci sono nelle conversazioni online in ambito sportivo? Con l’Università degli Studi di Torino abbiamo realizzato il Barometro dell’odio nello Sport, la prima ricerca italiana che monitora le pagine social delle cinque principali testate sportive italiane. I ricercatori del centro CODER hanno analizzato 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter. Con risultati sorprendenti.
di Silvia Pochettino
Quanta volgarità, minacce e insulti anche a sfondo razziale o sessista sono presenti nelle discussioni on line che parlano di sport? Se da un lato lo sport è spesso strumento di integrazione e trasmissione di valori, soprattutto quando praticato, dall’altro, specialmente nella dimensione del tifo, può diventare un elemento divisivo che inasprisce la competizione fino a trasformarla in conflitti anche violenti. Ma quanto influisce in tutto questo l’uso dei social network? Che frequenza e che caratteristiche hanno i linguaggi d’odio online nello sport italiano?
Prova a rispondere a queste domande il Barometro dell’odio nello Sport, ricerca realizzata dal Centro CODER dell’Università di Torino nel quadro del progetto Odiare non è uno sport
Il primo risultato che salta agli occhi dal monitoraggio delle pagine Fb e Twitter delle principali testate sportive nazionali (La Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Il Corriere dello Sport, Sky Sport e Sport Mediaset) realizzato dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020, è che esisteun livello costante di hate speech al di sotto del quale non si scende mai, pari al 10,9% dei commenti su Facebook e 18,6% su Twitter.
I messaggi d’odio risultano dunque una componente non solo rilevante ma strutturale delle conversazioni sportive sui social media.
Tuttavia, Facebook e Twitter sono diversi, sia per numero di commenti sia per la presenza di hate speech. A parità di messaggi pubblicati, Facebook genera un volume di commenti 26 volte superiore a quello di Twitter. Ma, mentre l’hate speech raggiunge il 13,4% dei commenti su Facebook, suTwitter arriva al 31% .
Se si vanno poi ad approfondire le modalità con cui si manifesta l’hate speech, il linguaggio volgare (14% su FB e 31% su Twitter) e l’aggressività verbale (73% e 60%) sono le forme più frequenti. Tuttavia, anche discriminazione (7% e 5%) e aggressività fisica (5% e 4%) non sono irrilevanti. La ricerca ha infatti individuato circa 5.000 commenti contenenti elementi di questo tipo pubblicati dagli utenti in un arco di tre mesi.
Infine, dato prevedibile, gran parte del traffico di notizie sui social e di conseguenza la maggior parte degli episodi di hate speech sono da ricondurre al mondo del calcio.. Emerge che Mario Balotelli e Romelu Lukaku sono i personaggi sportivi su cui si concentrano più commenti di hate speech (rispettivamente 16,7% su Facebook e 38,3% su Twitter; 15,5% su Facebook e 40,6% su Twitter) contenenti insulti e discriminazione razziale (rispettivamente 2,1% su Facebook e 5,6% su Twitter; 1,9% su Facebook e 2,4% su Twitter).
Infine è interessante notare come su Facebook, dove è possibile commentare i commenti degli altri, l’hate speech risulta più elevato nelle discussioni tra utenti rispetto ai commenti ai post. Ovvero il maggior numero di riferimenti al linguaggio d’odio non risulta correlato al contenuto dei post ma piuttosto alle prese di posizione di altri utenti
Guarda la presentazione live del Barometro con Giuliano Bobba, dell’Università di Torino, autore della ricerca, e Sara Fornasir coordinatrice del progetto Odiare non è uno Sport
Webinar – Quale futuro per i processi di integrazione?
Quale sarà il futuro dello sport dilettantistico in seguito alla pandemia e quali le prospettive e le azioni concrete da sviluppare per continuare i processi di integrazione? Giovedì 4 febbraio, alle ore 19, saremo online per un Webinar dedicato al tema, a cui sarà possibile partecipare via Zoom e che sarà trasmesso in diretta sulla pagina FB di Odiare non è uno sport.
L’appuntamento, dal titolo “La ‘fase 3’ dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”, coinvolge realtà sportive e atleti intercettati nel corso della campagna di contronarrazione del progetto. Sarà occasione per riflettere sulla situazione che sta vivendo il mondo sportivo, a causa della pandemia. Un contesto dove, con gli stadi chiusi, l’unico serbatoio in cui riversare l’odio sono rimasti i social. Mentre, con lo stop allo sport di base e dilettantistico, è fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione.
Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata, le disuguaglianze si sono acuite, chi era già in una situazione di difficoltà ora a stento riesce a sopravvivere. Il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità: una scelta che ha portato fuori dai campi di gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla situazione sanitaria.
Ne parleremo con Camilla Previati (ASD Quadrato Meticcio – Padova), Stefano Carbone (Polisportiva San Precario – Padova), Jacopo Mazziotti (St. Ambroeus FC – Milano), Federico Dagoli (Atletico No Borders – Fabriano), Teresa Carraro (Criminal Bullets – Roller Derby Padova), Marco Proto (RFC Ska Lions Caserta), Enzo Ardilio (Briganti Librino Catania).
Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità. L’odio nei social network e nello sport si interconnettono costantemente; ad accrescere questa tesi basti pensare che nel mondo dello sport perfino “gli odiatori” hanno bisogno dell’avversario.
Dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 il centro CODER dell’Università di Torino ha monitorato alcuni social network – analizzando 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter – delle cinque principali testate sportive italiane. Ne è uscito un Barometro che, purtroppo, segnala “alta pressione”. Il risultato più rilevante della ricerca è che il linguaggio d’odio è una componente strutturale del linguaggio sportivo, che si può classificare con quattro dimensioni: linguaggio volgare, aggressività verbale, minacce e discriminazione.
In una rivelazione svolta dall’Università di Milano, nel periodo marzo-settembre 2020, sono stati raccolti 1.304.537 tweet dei quali 565.526 negativi, contenti parole d’odio (il 43% circa vs. 57% positivi). Quello che emerge è una decrescita significativa dei tweet negativi rispetto al totale dei tweet raccolti. “Fattore determinante nell’analisi di quest’anno è stato lo scatenarsi della pandemia da Covid-19” osserva la ricerca, secondo la quale “ansie, paure, difficoltà si sono affastellate nel vissuto quotidiano delle persone, contribuendo a creare un tessuto endemico di tensione e polarizzazione dei conflitti”.
Anche lo sport viene da un anno epocale: per due mesi abbondanti tra metà maggio e fine luglio 2020 è sostanzialmente sparito, tanto al livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo. Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che oltre all’attività sportiva, porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione. In questo contesto si inseriscono le realtà di sport popolare e indipendente attive sul nostro territorio, che si sono messe al servizio delle comunità, senza chiedere nulla, spinti dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.
Il contrasto all’odio e al bullismo deve partire dalla scuola, rendendo i ragazzi protagonisti del cambiamento. Odiare non è uno sport prevede una serie di attività per i coinvolgere i giovani nel ruolo di “antenne” che dovranno intercettare i discorsi d’odio online e interromperli, diventando dei veri e propri attivisti anti hate speech. Un’esperienza simile a quella che due anni fa venne proposta e sperimentata in un Liceo umbro grazie all’intervento di Forma.Azione, uno dei partner del progetto. A raccontarla è Lorenzo, tra i protagonisti di quel percorso.
di Ilaria Leccardi
Mi chiamo Lorenzo Bartolucci e sono uno studente di Filosofia e Scienze e Tecniche psicologiche all’Università di Perugia. Due anni fa, con il mio Liceo classico, il Sesto Properzio di Assisi, ho partecipato al progetto “Cliccando positivo”, giunto nella nostra scuola grazie all’insegnante di Scienze motorie, la professoressa Paola Pagliacci. Assieme agli altri ragazzi della quarta, sono stato formato sul tema del cyberbullismo per poi lavorare con i ragazzi delle classi inferiori alla nostra attraverso un insegnamento peer to peer.
Cosa prevedeva il progetto?
Inizialmente una parte di formazione e autoconsapevolezza, da sviluppare attraverso esercizi di vario genere, anche in forma ludica. Poi veniva la parte più riflessiva e introspettiva, in cui ognuno analizzava i propri comportamenti e i comportamenti altrui. Ciascuno era chiamato a fornire la propria idea di “insulto” e a comunicare agli altri come si era sentito ricevendo un certo tipo di insulto. Abbiamo affrontato il tema del bullismo esercitato di persona, ma soprattutto quello del cyberbullismo: insulti immateriali che risuonano come un’eco, che finisce per rimbombare nelle orecchie di chi è preso di mira.
Com’è stata l’esperienza con i ragazzi più giovani?
Ci siamo divisi in due gruppi, ciascuno dei quali si è occupato di due classi, sviluppando un proprio metodo di intervento, portando degli esempi, anche iconici per far comprendere concetti complessi. Come l’esempio della mela: si taglia in due e una delle due parti viene ammaccata e lasciata annerire internamente; quando la si ricompone sembra integra e bella, o comunque alla classe viene mostrato solo il lato buono. A quel punto si chiede di scrivere o pronunciare una serie di insulti che verranno simbolicamente “assorbiti” dalla mela. All’esterno la mela rimane bella ma internamente la mela è compromessa. E solo alla fine si mostrerà l’interno marcito.
Siete diventati dei veri e propri formatori e questo cos’ha significato nella vita quotidiana all’interno della scuola?
Siamo diventati registi attivi di un processo, per cui ogni volta che si fosse verificato un momento di violenza verbale o fisico o un accenno di bullismo era nostro compito intervenire.
E nei ragazzi più giovani hai notato sensibilità al tema?
Non è sempre semplice. La presa di coscienza in percorsi come questi è molto soggettiva.
Nel mio ruolo ho cercato di osservare, oltre alle parole dei ragazzi, anche le loro reazioni spontanee. I più prepotenti tendevano a fare ironia sull’argomento o addirittura c’era chi cercava di giustificare un certo tipo di azioni, considerando ciò che avevano fatto o detto non particolarmente grave. I ragazzi più sensibili e sottomessi, invece, tendevano alla chiusura, alla timidezza.
Il lavoro da fare è ancora molto lungo.
Diventa un Attivista anti hate speech nel mondo sportivo contattando uno dei seguenti enti (anche se non sei di una delle regioni nominate puoi comunque collaborare a distanza):
Rispondere ai discorsi d’odio online, per combattere il fenomeno direttamente tra le maglie dei social. In quella mole di commenti, parole, spesso insulti, servono gli strumenti giusti per bloccare un flusso che tante volte si trasforma in escalation d’odio. Fin dal suo esordio come progetto, Odiare non è uno sport ha messo in campo diversi strumenti per comprendere, analizzare e combattere l’hate speech online in ambito sportivo. Tra questi due strumenti particolarmente efficaci per rispondere puntualmente ai commenti d’odio che proliferano sui social media. Da una parte l’elaborazione di un albero delle risposte studiato per intervenire sui social in forma automatica tramite un chatbot, dall’altra la formazione di un certo numero di ragazzi che agiranno da “antenne” dell’odio online, andando a intercettare eventuali situazioni spiacevoli che si generano sui social e rispondendo con messaggi per “allentare” o “interrompere” il flusso negativo di commenti.
La prima fase dello studio, spiega la psicologa, «ha previsto una selezione di commenti effettuata attraverso un “software sonda” che ha estratto da un gruppo di tweet e commenti molto ampio, un sottogruppo potenzialmente problematico. Commenti che sono stati poi analizzati da due giudici indipendenti che hanno selezionato quelli considerati offensivi. E a ogni commento selezionato è stata accoppiata una risposta, dando così vita a un set di coppie commento-risposta utile come “modello” per il software che “impara” così a riconoscere commenti simili a quelli del nostro set, fornendo la risposta che è stata accoppiata al commento più simile».
L’obiettivo dell’intervento da parte del laboratorio dell’Università di Trieste è stato creare una serie di risposte che potessero essere fornite in maniera automatica, senza la mediazione umana. «Non potendo stabilire una comunicazione diretta con l’interlocutore, le frasi di risposta sono state costruite in forma impersonale (per es. “è comprensibile che…”)». Alcune di queste risposte, prosegue Stragà, possono essere valide per commenti differenti, ma bisogna tenere in considerazione che il risponditore automatico non può essere addestrato a rispondere in maniera argomentata a episodi specifici
Le risposte formulate dal software hanno come primo obiettivo non tanto mettere in atto una vera e propria contro-narrazione, come potrebbe fare un utente reale, ma attenuare i toni e sottolineare l’offensività del messaggio.
Tuttavia la componente “umana” è stata fondamentale nell’elaborazione delle risposte automatiche. Prima di tutto, tenendo sempre a mente che, «anche se nascosti dietro a una tastiera, quello che diciamo e come lo diciamo ha delle conseguenze reali» e quindi l’intervento, benché preconfezionato, può aiutare a creare consapevolezza e coscienza in merito al peso delle parole utilizzate sul web. E poi ricordandosi che quando si scrive sul web, anche sotto questa formula, «non ci rivolgiamo solo all’autore del commento in sé, il quale magari non cambierà idea grazie al nostro commento, ma a tutto il pubblico che si imbatte nel commento e che sarà portato a riflettere su queste modalità di espressione grazie all’intervento del risponditore automatico».
Anche se un risponditore automatico non è una persona, spiega ancora Stragà, «studi in psicologia relativi all’interazione uomo-macchina hanno mostrato che c’è una tendenza a percepire come umani, per esempio, anche gli assistenti vocali che in certi casi vengono considerati in maniera simile a un essere umano».
Ad oggi è ancora scarsa la letteratura, psicologica e non, sull’efficacia delle strategie di contrasto d’odio online, ma il team che si è occupato di questa delicata parte del progetto ha fatto riferimento principalmente agli studi disponibili sulle tecniche in risposta ai commenti d’odio e la letteratura psicologica relativa a come l’essere umano percepisce e interagisce con gli altri. «Per esempio – sottolinea ancora la psicologa dell’Università di Trieste – si è visto che cercare di prendere in carico la prospettiva dell’altro in una discussione, facendogli capire che lo abbiamo ascoltato e abbiamo capito qual è il suo punto di vista, può facilitare il tentativo di trovare dei punti in comune» e così può essere fatto nel rispondere a un commento d’odio. Un’altra strategia può essere quella di rispondere al commento d’odio fornendo informazioni e dati di fatto in contrasto con quando espresso dall’interlocutore, ma al tempo stesso cercare di fornirgli una vita di fuga per attenuare la situazione e condurlo a considerare informazioni in contrasto con il suo punto di vista iniziale. «Nel laboratorio di Memoria e Decisione dell’Università di Trieste stiamo testando l’efficacia di queste due tecniche di risposta, con risultati incoraggianti».
Come potranno lavorare invece le antenne? Quei ragazzi che, in collaborazione con le ong coinvolte nel progetto Odiare non è uno sport, verranno formati per intercettare e rispondere direttamente e singolarmente ai commenti d’odio? «Il lavoro sulle risposte elaborate per il risponditore automatico – continua Stragà – può essere adattato e impiegato anche per la produzione di risposte “manuali”, soprattutto quando il commento d’odio non offre grandi spunti per argomentazioni approfondite. Tuttavia, quando si risponde di persona, è possibile entrare nel merito delle argomentazioni e delle false credenze, portare evidenze e dati che confutano quello che l’interlocutore sta dicendo, sottolineare le incoerenze e i sottintesi del messaggio. Per questo ai ragazzi verranno fornite delle linee guida sul linguaggio e il tono da adottare, su come reagire nella maniera più pacata ed efficace possibile per evitare il peggiorare della situazione, e su come sia possibile adottare delle piccole accortezze per far smorzare i toni e aumentare la probabilità che le contro-argomentazioni siano ascoltate e considerate».
Soprattutto, è importante ricordarsi – conclude Stragà – che il contrasto all’odio on-line passa anche attraverso la sincera adesione a una modalità di comunicazione non-violenta e rispettosa dell’altro, ma allo stesso tempo ferma e solidamente basata sull’evidenza. Una modalità di comunicazione che dovrebbe quindi rappresentare un esempio positivo, che altri possono voler adottare, stanchi delle parole d’odio, della stereotipizzazione dell’altro, del pregiudizio e della riduzione del pensiero a slogan».
In questo senso ci viene in aiuto un’esperienza passata, che può diventare da modello ed esempio per chi vorrà intraprendere la strada di “attivista” del contrasto all’odio online. Ed è la storia di Lorenzo, studente universitario che nell’anno scolastico 2018-2019 ha partecipato con il Liceo Sesto Properzio di Assisi al progetto “Cliccando positivo”, grazie all’intervento di Forma.Azione, tra i partner del progetto Odiare non è uno sport. LEGGI LA STORIA DI LORENZO
Se vuoi diventare un Attivista anti hate speech nel mondo sportivo contatta uno dei seguenti enti (anche se non sei di una delle regioni nominate puoi comunque collaborare a distanza):
Appuntamento online con Igor Cassina, Assunta Legnante e Stefano Oppo, medaglie d’oro alle Olimpiadi e ai Mondiali
Lo sport non è solo una continua sfida a superare i propri limiti, ma anche un potente strumento educativo e di integrazione sociale. Vuoi conoscere come vive un campione? quali le sue motivazioni e le sue fatiche? Il 10 dicembre alle ore 17,30 abbiamo vissuto una straordinaria occasione di dialogo e confronto online con tre campioni di altissimo livello, che hanno fatto dello sport la propria professione e scelta di vita.
In questo periodo difficile in cui l’attività sportiva di base è ferma e per la maggior parte delle persone è impossibile allenarsi e praticare il proprio sport preferito, insieme ai tre campioni abbiamo ragionato sul diritto allo sport per tutti, ma anche sul ruolo dell’agonismo e soprattutto sullo sport come competizione corretta e integrazione sociale libera dai discorsi d’odio
GUARDA LA REGISTRAZIONE DELL’EVENTO
Sono stati con noi
Igor Cassina, campione olimpico di ginnastica. Medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 2004 ad Atene, è l’inventore del “movimento Cassina”, uno spettacolare salto di sbarra, da lui presentato per la prima volta a livello mondiale. Plurimedagliato a livello internazionale, argento e bronzo mondiale, argento e due volte bronzo europeo, nella sua “nuova vita” dopo il ritiro dall’agonismo si è cimentato con la maratona, una delle sfide sportive più impegnative. Leggi la sua storia qui
Assunta Legnante, campionessa del lancio del peso. Vincitrice di un oro e un argento europei, di un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo, una decina di anni fa ha dovuto fare i conti con un problema che si portava dietro dalla nascita, un glaucoma che l’ha condotta alla cecità totale. Ripartita più forte di prima, ha vinto l’oro alle Paralimpiadi di Londra 2012 e Rio 2016, oltre che 5 ori mondiali e 3 ori europei paralimpici. Detiene il record mondiale di categoria nel lancio del peso. Leggi la sua storia qui
Stefano Oppo, campione di canottaggio. Venticinque anni, originario di Oristano, tre volte medaglia d’argento ai mondiali e ai piedi del podio ai Giochi di Rio 2016, è stato nominato atleta dell’anno nel 2019 e si è qualificato per le Olimpiadi di Tokyo 2020 (rinviate al prossimo anno). Leggi la sua storia qui
La Riforma dello Sport a partire dalla base e dalle persone
Un ciclo di sei incontri sulla Riforma dello Sport avanzata dal governo. È quanto propone lo CSEN (Centro Sportivo Educativo Nazionale) – all’interno del progetto Odiare non è uno sport – per approfondire il tema dal punto di vista delle persone che ogni giorno lavorano nei luoghi dello sport. Mentre il dibattito mainstream si è per lo più concentrato in questi mesi su temi di “vertice”, come il limite ai mandati dei presidenti federali, il contributo dello CSEN vuol andare nella direzione di tornare al valore sociale dello sport, a partire dalla base.
Il ciclo di incontri, dal titolo “La riforma dello sport. Il punto di vista di chi vive lo sport centrato sulle persone, a favore dell’integrazione sociale, per conoscere e contrastare l’hate speech” (al fondo dell’articolo il calendario completo), parte lunedì 28 settembre a Perugia, toccando altre cinque città: Verona, Torino, Catania, Roma e Udine. Gli incontri saranno trasmessi sulla pagina Facebook di Odiare non è uno sport. A seguito dell’aggravarsi dell’emergenza sanitaria, a partire dal secondo incontro sono stati integralmente spostati su piattaforma online, a distanza.
Lo CSEN, spiega Andrea Bruni, Responsabile Ufficio Progetti Nazionale dell’Ente di promozione sportiva, “concepisce lo sport come attività volta a favorire il benessere delle persone e quindi vede in esso prima di tutto un intento e una finalità sociale. A differenza delle Federazioni, che curano maggiormente le eccellenze sportive. Nel contesto della Riforma dello Sport, la discussione per ora si è molto concentrata su cosa cambierà per i vertici e per i dirigenti, ma ha lasciato in sospeso le altre problematiche. Per esempio non si è parlato di chi fa dell’attività sportiva il suo lavoro, che non ha un contratto nazionale di riferimento. Oppure dell’approccio educativo che lo sport deve avere con i minori”.
Negli incontri però si affronteranno anche i temi dell’integrazione sociale, della lotta alle discriminazioni e dello sport integrato, ossia “dell’attività sportiva che mette insieme persone con disabilità e persone non disabili, con regolamenti nuovi. Un tema interessante – prosegue Bruni – perché aggancia le problematiche legate al ruolo che ogni sportivo può avere nel contesto di origine e il contributo che ciascuno può dare a livello individuale su obiettivi collettivi, se messo nella miglior condizione per esprimersi”.
Di seguito l’elenco dettagliato degli appuntamenti:
PERUGIA lunedì 28 settembre 2020 / ore 17.30 Sala Trinci – Centro Congressi Capitini – Via Centova 4
PIEMONTE venerdì 6 novembre 2020 /ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Gianluca Carcangiu – Presidente Regionale CSEN Piemonte Ilaria Zomer – Formatrice presso il Centro Studi Sereno Regis Ivana Nikolic – Ballerina professionista, attivista – artista ed educatrice Barbara Costamagna – Psicologa e Psicoterapeuta
ROMA venerdì 13 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Henrika Zecchetti – Presidente Comitato Provinciale CSEN Roma Elisa Nucci – Responsabile Progetti COMI – Cooperazione per il mondo in via di sviluppo Antonella Passani – sociologa e membro di IntegrArte Leonina Benigni – educatrice Professionale
FRIULI VENEZIA GIULIA sabato 14 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Giuliano Clinori – Presidente Regionale CSEN Friuli e Vice Presidente Nazionale CSEN Sara Fornasir – Responsabile del Progetto Odiare non è uno Sport – Referente CVCS Eva Campi – Referente Parole Ostili
VENETO sabato 21 novembre 2020 / ore 10.00 – diretta FB con Giacinto Corvaglia – Comitato Provinciale CSEN Verona Marina Lovato – Formatrice Ufficio Educazione e Cittadinanza Attiva – ProgettoMondo Mlal Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Stefano Pratesi – Formatore esperto in gestione dei conflitti e diritti umani Paola Caruso – Referente Regionale Calabria CSEN Sport Integrato
A quasi un mese di distanza dall’8 giugno le parole di Raheem Sterling e Sol Bamba, sembrano aver fatto breccia nella federazione inglese. Sterling, attaccante del Manchester City e della nazionale inglese, aveva lamentato la scarsità di allenatori, manager, preparatori appartenenti a minoranze etniche nel professionismo inglese.
Nel campionato inglese, su poco più di 500 giocatori, i Colored sono circa un terzo, ma la cifra è molto più misera se si guarda ai settori tecnici. Sulle panchine dei 98 club dei 5 top campionati europei, sono solo due gli allenatori neri: Patrick Vieira per il Nizza e Nuno Espírito Santos per il Wolverhampton. Vi è una sorta di barriera etnica che tende ad accettare solo i bianchi.
Sir Alex Ferguson è da sempre una figura paterna per me. Deciso a diventare allenatore, sono andato da lui e gli ho detto quello che avevo intenzione di fare. Lui mi ha dato alcuni consigli e mi ha sempre detto che avrebbe garantito per me, nel caso in cui avessi avuto bisogno di una raccomandazione per allenare ed è così ancora oggi, ma malgrado il suo aiuto, non riesco a fare nemmeno un colloquio.
Dwight Yorke
Da alcuni anni la lega inglese cerca con varie iniziative di invertire questa tendenza. ma fino ad oggi è rimasto tutto un buco nell’acqua fino. Ed ecco quindi che il calcio inglese professionistico decide di prendere petto la questione e istituisce nei propri corsi di formazione e inserimento lavorativo dei posti riservati a cittadini BAME (Black, Asian and Minority Ethnic), dimostrazione di come si possa almeno a livello federale affrontare seriamente un problema. Attenzione non si pensi che questo risolva la questione o che possa essere una soluzione definitiva, cosa palesemente dimostrata dalla disfatta totale delle campagne UEFA contro il razzismo negli stadi, ancora oggi infestati da scene indegne. Ma il calcio inglese si è reso conto che è un problema di natura sociale: finché i giovani calciatori membri di minoranze non avranno figure di riferimento ulteriori ai giocatori non cambierà nulla o quasi, servono modelli, persone a cui ispirarsi che siano oltre il grande campione sul campo, più adulte e mature, rispettate per la loro intelligenza e il loro carattere, più che per prestanza fisica e doti tecniche.
Quando la gente dubita dell’intelligenza di un’etnia, la situazione diventa impossibile. È normale che ci siano tanti giocatori di colore, perché la gente pensa che siano grandi atleti con buone capacità fisiche, ma per essere allenatore servono intelligenza e disciplina. In campo va tutto bene, ma fuori è complicato perché c’è gente che dubita che la gente nera sia capace.
Lilian Thuram
Un giovane calciatore, quale sia la sua etnia, sa di dover pensare al proprio futuro dopo i 35- 40 anni di età. Ai calciatori membri di minoranze mancano figure cui ispirarsi e ambire. Se un ragazzino nero non ha nessun esempio di leader nero nel calcio, come allenatore, dirigente, presidente, come potrà immaginare di essere lui stesso in futuro qualcosa del genere? Su questo problema le federazioni possono agire immediatamente attraverso programmi e incentivi. La disparità di trattamento che subiscono i tecnici neri nel mondo del calcio è un dato di fatto nei campionati inglesi, ma anche a livello globale.
Alcuni vecchi giocatori di colore, non prendono il titolo da allenatore anche se magari lo vorrebbero. Naturalmente ci sono molti allenatori africani che hanno il tesserino da allenatore, ma semplicemente non esiste quella fiducia, che, invece, c’è nei confronti degli altri allenatori. I tecnici di colore sono sfiduciati perché visti come esseri di seconda classe.
Samuel Eto’o
In Italia come siamo messi?
In Italia abbiamo avuto tre allenatori BAME: Jarbas Faustinho, meglio noto come Cané, Fabio Liverani e Clarence Seedorf. Il mondo del calcio italiano sotto il profilo amministrativo è eccentrico, questioni come la piazza, i tifosi, gli sponsor, influiscono moltissimo nelle scelte aziendali dei grandi club e suppliscono a fattori come l’esperienza e la professionalità, non solo nella fase del mercato e gestione dei calciatori, ma anche in quello della gestione aziendale dei manager. Ad esempio, nel settore allenatori è sempre più in uso, specie nei momenti di crisi, puntare su un grande nome anche privo di esperienza almeno per calmare la pancia dei tifosi; pensiamo ai vari avvicendamenti sulla panchina del Milan: Brocchi, Gattuso, Inzaghi, Seedorf. Grossi nomi, bei palmares, poca o nessuna esperienza, la possibilità di guardare qualcosa di straniero, magari qualche allenatore che si è fatto le ossa nei campionati fuori Uefa, ma scherziamo (qui facciamo un’eccezione per alcuni tecnici sudamericani i quali comunque prima fanno esperienza in squadre medio piccole). Difficilmente un club nostrano assumerebbe un tecnico di formazione africana o asiatica e incorrerebbe in critiche furiose anche da una certa quota degli opinionisti, i quali ricorderebbero statistiche varie per giustificare le loro sicure castronerie. In Italia esiste tutt’ora una fetta fin troppo ampia di sedicenti tifosi che sostiene la non capacità dei portieri di origine africana. Dei vari tecnici del Milan l’unico che è stato accusato di non capir nulla di calcio è Seedorf ed è l’unico che fatica a trovare un impiego come tecnico, eppure la sua media di vittorie era la più alta tra i nominati. Fabio Liverani dopo la brevissima panchina al Genoa ha dovuto fare tutto il percorso dalla serie C, attraverso anche l’esperienza al Leyton Orient.
Gli allenatori di colore sono un tabù. Il motivo non lo so ma è un dato di fatto. C’è Seedorf che ha avuto un discreto successo in mondi diversi, ci sono diversi tecnici sudamericani neri, ma gli allenatori di colore dovrebbero essere di più.
Sven-Göran Eriksson
Se allarghiamo lo sguardo fuori dalla Uefa dove le percentuali di atleti BAME salgono, c’è da restare basiti e due dati su tutti saltano agli occhi. Primo che in Brasile, Paese in cui il 60% della popolazione si identifica con l’etnia nera o meticcia, vi sono solo due tecnici di colore, gli allenatori Marcão della Fluminense FC e Roger Machado dell’EC Bahia. Secondo, che il senegalese Aliou Cissé era l’unico allenatore nero ai Mondiali di Russia nel 2018. Inutile dire che non ci siamo. Un triste esempio giunge proprio dalle federazioni africane dove si preferisce affidare le selezioni nazionali a tecnici europei, a fronte sia di grandi allenatori locali, sia di grandi ex giocatori locali di scuola europea. Tutti e tre i tecnici nominati hanno lamentato negli anni questa discriminazione de facto. Il progetto della lega inglese se portato a termine è un buon inizio, un esempio che le altre federazioni nazionali dovrebbero adottare, integrandolo a finanziamenti reali e strutturali per tutte quelle realtà sportive di basse che utilizzano lo sport come strumento di lotta al razzismo e alle discriminazioni.
Ripensando alla mia carriera, ci sono state delle volte in cui non ho volutamente detto quello che pensavo perché ho avuto paura delle possibili ripercussioni e di come sarei stato giudicato dalla gente. Se sei in uno sport dominato dai bianchi e le persone ai vertici sono prevalentemente maschi bianchi, l’ultima cosa che vuoi è dire qualcosa di inappropriato. Spesso mi sono trovato ad agire in un determinato modo per adattarmi agli altri e non essere giudicato solo perché ero nero.
Ginocchio a terra e pugno alzato al cielo. Il gesto simbolo dell’ondata di proteste partita dagli Stati Uniti, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, è arrivato anche sui campi di calcio. Il gesto compiuto dal bomber neroazzurro Romelu Lukaku, al decimo minuto di Inter-Sampdoria, al rientro al calcio giocato dopo oltre tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus, ha riempito le prime pagine dei giornali e le bacheche dei social. Scatenando una marea di commenti. Prima di lui allo stesso modo aveva esultato anche Nicolas Nkoulou, difensore del Torino, andato in rete sabato contro il Parma.
di Ilaria Leccardi
Molti sono stati i commenti di sostegno e apprezzamento del gesto, ma anche tanti, ancora troppi, quelli che sono andati ben oltre la critica, conditi da insulti e veri e propri attacchi alla persona, alla squadra e in generale al movimento Black Lives Matter.
La fotografia del gigante neroazzurro è stata ripostata dai profili social dell’Inter con la scritta Black Lives Matter e gli hastag #BrothersUniversallyUnited#NoToDiscrimination , e da quelli del giocatore che ha scritto: “Questo è per tutte le persone che lottano contro l’ingiustizia. Io sono con voi”.
This one is for all the people who’s fighting for injustice. I am with you ✊? pic.twitter.com/I2FlUGCb8t
— R.Lukaku Bolingoli9 (@RomeluLukaku9) June 21, 2020
Se sulle pagine ufficiali i commenti sono stati per lo più di approvazione, è sulle pagine social delle testate sportive che si sono scatenati gli haters da tastiera. C’è chi ricorre all’insulto generico, “coglione”, “pagliaccio”, “vaffanculo”, “che cazzata”, “ipocrita”, “deficiente”. Chi invece prova ad argomentare, non contestualizzando minimamente il gesto, ma sostenendo che Lukaku avrebbe fatto meglio a protestare per altri fatti di cronaca, per omicidi avvenuti in altre situazioni (commessi da persone nere), per i morti da Covid19. E poi ci sono coloro secondo cui comunque alla fine George Floyd era un “criminale” (così viene definito in diversi commenti, quasi a giustificare la morte per soffocamento di una persona). Altri invece – molti – che attaccano il calciatore e la società, anche con insulti pesanti, perché “non bisogna mettere la politica nello sport”.
Ma perché non dovrebbe succedere? E perché un gesto a sostegno di una battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza sociale deve scatenare ancora così tanto odio?
Non è la prima volta che Lukaku viene preso di mira, sia sui social che dal vivo. Il caso più clamoroso fu durante la partita Cagliari-Inter, a inizio campionato, quando i tifosi cagliaritani intonarono un coro di buu, come purtroppo ancora troppo spesso negli stadi avviene nei confronti i calciatori neri. All’epoca lui commentò: “Molti giocatori nell’ultimo mese sono stati vittime di abusi razzisti. A me è successo ieri.
Il calcio è uno gioco che deve far felici tutti e non possiamo accettare nessuna forma di discriminazione che lo possa far vergognare. Spero che tutte le Federazioni del mondo reagiscano duramente contro tutti i casi di discriminazione.
Ma come dimostra il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca condotta nell’ambito del progetto Odiare non è uno Sport, il calciatore dell’Inter – assieme a Mario Balotelli – è la figura sportiva che scatena il maggior numero di commenti contenenti hate speech sui social, in particolare insulti e forme di discriminazione razziale per il colore della pelle.
Il gesto di Lukaku non è certo una novità in ambito sportivo. Il più celebre pugno alzato al cielo resta quello di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dopo la finale dei 200 metri piani. Sul podio, davanti agli occhi di tutto il mondo, le medaglie d’oro e di bronzo olimpiche al momento dell’inno statunitense abbassarono il capo, alzarono il pugno, indossando un guanto nero. Era il 1968 e le battaglie per i diritti civili della popolazione nera negli States erano all’apice della loro intensità. Le conseguenze per i due velocisti non furono tanto le proteste del pubblico, quanto provvedimenti che li esclusero dai circuiti sportivi, così come fu per l’argento, il bianco australiano Peter Norman, che silenziosamente appoggiò il gesto dei colleghi neri, indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), e da allora ebbe la carriera rovinata.
I gesti che hanno coinvolto gli sportivi nei decenni da allora non sono stati pochi. Tra le proteste recenti più clamorose spicca quella di Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, che a partire dal 2016 più volte si è inginocchiato durante l’inno nazionale, in protesta contro le discriminazioni razziali, scatenando l’emulazione da parte di diversi colleghi, ma anche molte critiche dell’America bianca. Una protesta che gli è costata molto: terminato il suo contratto con i San Francisco 49ers, il quarterback è rimasto senza squadra e ha poi lanciato una battaglia legale contro l’intero sistema della NFL che lo avrebbe ostacolato in ogni modo a rientrare nel circuito, vincendola in tribunale e ottenendo un ingente risarcimento.
Ma prese di posizione molti forti ci sono state anche nelle ultime settimane, in seguito alla morte di Floyd. Alta si è levata la voce di tanti sportivi: da Lewis Hamilton, stella della Formula 1, unico pilota nero del circuito, a Lebron James, campione della NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers, da sempre sensibile al tema. Fino a Marcos Thuram, figlio di Lilian e giocatore in Germania del Borussia Moenchengladbach, che a sua volta si è inginocchiato dopo un gol.
Tornando a Lukaku viene da chiedersi il perché un gesto dimostrativo e di solidarietà a una battaglia che ha assunto una portata mondiale possa scatenare ancora così tanti commenti negativi e insulti deliberati. Come è noto, l’ambiente calcistico non brilla certo per tifoserie che hanno nella lotta per l’uguaglianza e i diritti civili una delle proprie chiavi. Anzi, in Italia nel 2020 sono ancora molti i gruppi di ultras – Inter compresa – che si definiscono apertamente fascisti. In questa coda di campionato così particolare a causa dell’emergenza sanitaria, gli stadi sono vuoti. Si gioca in un silenzio irreale. Un gesto come quello esibito davanti alle telecamere di tutto il mondo non poteva che avere una risonanza mediatica importante. E di certo non può unire le coscienze, perché ancora troppi sono coloro che non credono nell’uguaglianza sociale o che nemmeno si interrogano sui motivi che stanno scatenando le proteste di tutto il mondo e che affondano la propria ragion d’essere in secoli di colonialismo, discriminazioni e ferite profonde.
Ciò che è inaccettabile è che il commento non sia una critica sull’opportunità o meno del gesto simbolico, ma si trasformi in veicolo di invettiva, alimentando parole d’odio in una serie di botta e risposta (soprattutto su social come Facebook e Instagram dove è possibile rispondere e commentare i commenti altrui), che in tanti casi si trasformano in una spirale di insulti. Caratteristica purtroppo ormai strutturale del confronto sui social media.
In una società che è evidentemente ancora frammentata, un gesto come quello di Lukaku però può contribuire ad alimentare il dibattito. E non solo in protesta per la morte atroce di George Floyd a cui è stata tolta con violenza la possibilità di respirare. Ma assume un valore politico necessario. Forse perché è giunto il momento di non restare indifferenti. Forse perché abbiamo bisogno di una società consapevole. Il gesto non può bastare, ma il suo valore è forte, tanto più se viene da un uomo che – pur dall’alto del suo privilegio economico e mediatico – ha subito a sua volta episodi di razzismo in pubblico e che viene seguito dalle telecamere del mondo.
Anche per questo rilanciamo l‘appello a un Campionato senza odio e chiediamo a chi ci segue di monitorare quanto avviene sui social, individuando commenti contenenti hate speech e segnalandoli al nostro progetto.
Se vuoi contribuire puoi segnalare i commenti taggando la pagina Fb o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it. Se te la senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.
Il 20 giugno riparte il campionato di calcio di serie A, ma gli stadi resteranno chiusi al pubblico. Sarà un campionato molto diverso dal solito, forse unico nel suo genere, in questo tempo particolare che stiamo vivendo. E proprio per questo, può anche essere un’occasione per ripensare lo sport in modo nuovo.
E’ questa l’idea della campagna Odiare non è uno Sport, che lancia l’appello per un Campionato senza Odio, per abolire l’hate speech dallo sport e riscoprire la bellezza della competizione sana e corretta.
di Silvia Pochettino
L’hate speech, o linguaggio d’odio, è ormai diventato una parte strutturale delle conversazioni sportive in Italia, in particolare nel calcio, come riporta il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca realizzata dal centro Coder dell’Università di Torino che ha monitorato per 3 mesi i commenti ai post delle cinque principali testate sportive italiane (La Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Il Corriere dello Sport, Sky Sport e Sport Mediaset) analizzando 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter. Risultato? Tre post su quattro ricevono commenti d’odio su Facebook, addirittura uno su due su Twitter.
Ci siamo abituati all’hate speech online e offline tra gli spalti delle tifoserie come se fosse normale insultare, umiliare o minacciare l’avversario. Ma non lo è.
Come si legge nel Barometro: “Siamo difronte a un processo di normalizzazione della violenza per cui è ormai opinione piuttosto diffusa che gli stadi e il tifo siano intrinsecamente connessi a forme di violenza e sopraffazioni che in tempi recenti si sono estese e potenziate online attraverso l’uso massiccio dei social media”
Ma cos’è l’hate speech e come si presenta? Il Barometro dell’Odio in questo breve schema ci aiuta a inquadrare meglio il fenomeno (gli esempi, purtroppo, sono tutti tratti da commenti reali individuati dalla ricerca…)
Barometro dell’Odio nello Sport pag 21
L’appello della campagna Odiare non è uno Sport per una Serie A di calcio così particolare, in epoca Covid e a porte chiuse, è semplice: portare a termine un Campionato senza Odio, eliminando l’hate speech dallo sport!
Se vuoi contribuire anche tu, quando incontri commenti simili a quelli riportati in tabella segnalalo taggando la pagina Fb o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it.
Se ti senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.
Insieme possiamo davvero rilanciare un tifo che riscopra la bellezza della competizione sportiva corretta
27 aprile La comunicazione tra pregiudizi, discriminazioni e atteggiamenti di odio, una formazione online per docenti, educatori e allenatori sportivi.
Dopo due sessioni focalizzate sull’analisi e sugli strumenti utili a fronteggiare l’hate speech, l’associazione Amici dei Popoli propone una terza sessione online sull’approccio psicologico alla comunicazione, dal titolo: “DAVANTI ALL’ODIO. La comunicazione: pregiudizi discriminazioni e atteggiamenti di odio”.
Relatrice la Dott.ssa Teresa Di Stefano, psicologa, educatrice e formatrice, responsabile dei progetti educativi per UISP a Bologna.
La sessione, totalmente gratuita, si terrà lunedì 27 aprile dalle ore 15:00 alle ore 17:00 sulla piattaforma zoom. Il numero dei posti è limitato, è richiesto quindi agli interessati di prenotare il proprio posto inviando una mail a sedebo@amicideipopoli.org.
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