Pamela Malvina Noutcho Sawa: sul ring nel rispetto dell’altro

di Ilaria Leccardi

“La boxe mi ha insegnato a guardare negli occhi la persona che ho davanti. Quando ero piccola camminavo sempre a testa bassa. E una delle prime cose che il mio allenatore mi ha detto quando ho iniziato a muovermi sul ring è stato proprio questo: alza la testa, guarda in faccia il tuo avversario. Un insegnamento importante che mi è stato molto utile anche nella vita e sul lavoro. Se guardi negli occhi il paziente, il rapporto cambia, sente davvero che lo stai prendendo in carico, che ti stai occupando della sua persona”.

Pamela Malvina Noutcho Sawa ha 32 anni, gli occhi profondi, e una grande passione nel raccontare la sua quotidianità, vissuta tra le corsie dell’Ospedale Maggiore di Bologna, dove è infermiera al pronto soccorso, e le mura della Bolognina Boxe, palestra popolare che è la sua seconda casa da alcuni anni ormai, e dove si allena seguita da Alessandro Danè. Solo poche settimane fa, il 25 ottobre, è salita sul tetto d’Europa, vincendo il titolo continentale pesi leggeri, battendo la pugile serba Nina Pavlovic, in un match che si è svolto a porte chiuse all’Unipol Arena di Casalecchio, a causa dell’emergenza alluvione.

Un titolo per cui ha lavorato tanto, vinto grazie a un match “duro” di cui si dice “molto orgogliosa”. “Di solito – spiega – affronto avversarie che non fanno male, invece la serba, per dirla nel gergo della boxe, è una pugile pesante con le mani. Ho dovuto costruire i punti round dopo round”. Un titolo talmente significativo da suscitare una dedica collettiva e molteplice: alla sua città ferita dall’inondazione, ai lavoratori della Toyota, dopo la morte di due operai a causa di un’esplosione nello stabilimento di Borgo Panigale, a due colleghi infermieri morti suicidi nel corso dell’ultimo anno e a Vincent Plicchi, 23enne che nel 2023 si è tolto la vita, vittima del cyberbullismo. “Conosciamo il papà, è una storia che ci ha toccati molto”.

Come raccontano le parole e le scelte della pugile azzurra, la boxe non esiste senza dimensione sociale. “Da piccola praticavo atletica, quando ancora vivevo a Perugia. Poi sono arrivata a Bologna per gli studi universitari e, durante la magistrale, ho svolto un tirocinio in un centro per persone senza fissa dimora. Lì era attiva una palestra, dove si praticavano varie discipline, ho provato la boxe e mi si è aperto un mondo”. Era il 2014, l’allenatore notò subito la sua predisposizione per il ring anche se inizialmente lei non si dava degli obiettivi sportivi. “Volevo solo tenermi in forma”. Invece, dieci anni dopo, è arrivata ai vertici internazionali. “Questo sport mi ha insegnato a essere ambiziosa. Per carattere mi sono sempre detta: se riesco a fare una cosa, bene; se non riesco, pazienza. Nella boxe è diverso. Devi avere fame, devi allenarti duramente, darti obiettivi anche piccoli da raggiungere. E quando salgo sul ring tutti mi dicono che riesco a tirare fuori la grinta che ho sempre tenuto nascosta”.

Quella della pugile di origine camerunense è una storia di crescita sportiva, ma anche e soprattutto umana e collettiva, vissuta nella famiglia della Bolognina Boxe, una realtà che oggi conta oltre 400 iscritti tra cui molte donne e un nutrito gruppo di bimbe giovanissime. “La nostra è una palestra popolare, dove lavoriamo per affermare determinati valori: antifascismo, nessuna discriminazione, antisessismo. Non esiste per esempio si dica: io non ‘faccio i guanti’ con quella perché è una donna. Si cerca di rispettare tutti, da ogni punto di vista. Anche se non è semplice. Tra le nostre mura si allenano persone di oltre trenta nazionalità diverse e provenienti da qualsiasi situazione, dal poliziotto all’ex carcerato, dal banchiere alla studentessa. Se sentiamo – ad esempio – commenti sessisti o razzisti, andiamo a parlare con chi li ha pronunciati, preferiamo il confronto, il dialogo, cercando di far passare un messaggio di rispetto”.

Che poi dovrebbe essere l’obiettivo di ogni pratica sportiva. “Nello sport – prosegue – non deve esserci odio. A volte penso a quanto sarebbe bello poter far sì che i confronti tra potenze mondiali si svolgessero sui campi sportivi invece che facendo le guerre. Lo sport ha il grande potenziale di far emergere il meglio da ciascuno di noi. Sicuramente in chi lo pratica, ma anche in chi lo guarda e lo segue per passione”.

Eppure, anche lo sport non è esente dall’odio, così come dalle polemiche. Restando sulla boxe, lo ha dimostrato durante i Giochi di Parigi 2024 il caso della pugile algerina Imane Khelif e dell’incontro vinto contro l’azzurra Angela Carini che si è ritirata a pochi minuti dall’inizio del match. “È stata una vicenda che mi ha molto rattristata. Nella boxe siamo abituate a cadere, rialzarci e riprendere. Conosco entrambe le sportive coinvolte, sono due atlete molto brave, ma questo è passato completamente in secondo piano, rispetto a una vicenda più grande di loro. Mi dispiace per Angela che stimo molto come pugile, ma che probabilmente si è trovata in una situazione difficile da sostenere. I miei complimenti vanno a Imane per la capacità che ha avuto di andare avanti a testa alta”.

Ma anche la stessa Pamela Malvina ha vissuto il peso dell’hate speech online, non tanto attorno alla sua carriera sportiva, quanto rispetto al tema della cittadinanza italiana, ottenuta finalmente nel 2022 dopo un lungo iter burocratico. “Sulle mie pagine social è difficile che riceva commenti d’odio, cosa che è invece è successa a seguito di articoli che parlano di me su altre pagine. Quando ho fatto un video sul tema della cittadinanza, ne sono scaturiti commenti terribili, razzisti. In generale, i miei allenatori e lo staff della Bolognina Boxe mi dicono di non leggere i commenti agli articoli perché altrimenti, sostengono, la mia felicità passa in secondo piano. I social sono un contesto molto delicato. Non so nemmeno se le persone che scrivono si rendano conto del peso delle proprie azioni, ma ogni volta che si legge un insulto è come se una ferita si riaprisse. E non tutti hanno la forza per sostenere questo dolore”.

Quello che la pugile azzurra e la sua società sportiva fanno ogni giorno è cercare di costruire percorsi diversi, concreti, inclusivi, di reale confronto, a partire dal ring.

Eva Ceccatelli: anche il Sitting Volley non è salvo dall’hate speech

di Ilaria Leccardi

“Noi atlete e atleti che pratichiamo sport in ambito paralimpico non siamo né supereroi né ‘sfigati’ che devono essere compatiti. Siamo persone come tutte, che lottano per fare ciò che amano. Eppure, nella comunicazione giornalistica e sui social questo messaggio fa ancora fatica a passare”.

Eva Ceccatelli è un monumento dello sport azzurro, opposta della Nazionale azzurra di Sitting Volley, recente protagonista alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Classe 1974, pisana, attivista di Assist Associazione Nazionale Atlete fin dalla prima ora, al fianco di Luisa Rizzitelli, ha praticato la pallavolo fin da ragazza, dopo esperienze nel nuoto e nella scherma. Un amore scoppiato a scuola che, dal primo Trofeo Topolino giocato quando faceva quinta elementare, l’ha portata fino ai campi di Serie A, negli anni Novanta. Poi, nel 1999, l’insorgere violento di una malattia, la sclerosi sistemica, o sclerodermia, che l’ha costretta a interrompere l’attività agonistica. A risentirne sono state soprattutto le mani, principale strumento per una pallavolista, che lavora con la sensibilità delle dita e la potenza degli arti superiori.

Ma l’amore per questo sport era troppo grande per allontanarsene. “Prima della malattia, allenavo già i gruppi giovanili e dal 2000, non potendo più scendere in campo, ho continuato il mio percorso di tecnica alla società Dream Volley di Pisa”. Proprio nella sua società entra in contatto con il mondo del Sitting Volley, all’epoca uno sport giovane, poco praticato nel nostro Paese. “L’Italia ha conosciuto un percorso inverso a quanto avviene normalmente: prima si è costituito il gruppo della Nazionale e solo dopo, con l’aumentare del numero delle praticanti, si sono creati i gruppi dei club. Al Dream Volley c’erano già quattro o cinque ragazze che si allenavano, non una vera e propria squadra e all’epoca la Nazionale aveva già partecipato senza successo alle qualificazioni per i Giochi di Rio 2016”. Proprio alla fine di quell’anno, dopo aver perso l’allenatore che le seguiva, le ragazze furono affidate alla guida di Ceccatelli che questo sport neanche lo conosceva, ma portava con sé esperienza, professionalità e visione. “Ricordo che passai il primo mese a casa, seduta per terra, a capire come fosse possibile giocare e spostarsi in maniera così dinamica sotto rete in quella posizione”.

Il lavoro si fece subito intenso, con uno sguardo al futuro. “C’era la necessità di consolidare il gruppo, ma anche di impostare un percorso che avesse una prospettiva a livello sportivo. E poi le ragazze iniziarono a ‘stressarmi’ e incalzarmi, chiedendomi di partecipare agli allenamenti come giocatrice. Potete immaginare la mia reazione, vista la mia patologia che non permette di prendere botte, tagliarmi, rischiare contrasti duri”.

Fino a quando, un giorno, le pallavoliste le portarono delle fotografie di una giocatrice olandese che utilizzava delle protesi alle mani, e in Eva scattò la speranza di poter tornare in campo. “Ho trovato una fisioterapista della mano abbastanza ‘folle’ da seguirmi e così è ripresa la mia carriera sportiva. Negli anni ho lavorato a stretto contatto con l’INAIL di Budrio che ha creato per me delle fantastiche protezioni per le mani, con cui riesco a giocare. E con loro, prima che l’alluvione dell’Emilia-Romagna ci costringesse a fermare tutto, stavamo ragionando su dei materiali con cui realizzare dei piccoli tutori da indossare durante la notte e nuovi ausili per persone che hanno la mia patologia”.

Oggi in Italia il Sitting Volley è uno sport ancora troppo poco conosciuto e raccontato dai media, nonostante la sua spettacolarità. Una capacità attrattiva dimostrata dal fatto che alle ultime Paralimpiadi la partita tra Italia e Cina femminile è stata seguita da quasi 1 milione di spettatori. “Il movimento in Italia è cresciuto in pochi anni. Nel 2017 abbiamo partecipato ai primi Europei, dove siamo arrivate ottave, ma l’anno seguente ai Mondiali abbiamo chiuso al quarto posto. La crescita è stata importante, la difficoltà è mantenersi ad alti livelli. L’esperienza paralimpica di Tokyo nel 2021 è stata devastante, avevamo aspettative alte, ma l’isolamento sociale ci ha messe in difficoltà dal punto di vista psicologico, è stato molto faticoso. Abbiamo chiuso al sesto posto. A Parigi è stato molto più bello, abbiamo vissuto un vero clima di festa olimpica”.

Dopo la serie di medagli europee (argento nel 2019 e 2021, un fantastico oro nel 2023) a Parigi molti si aspettavano la medaglia. Ma le sconfitte nei gironi con la Cina e poi con le campionesse uscenti degli Stati Uniti, hanno spento i sogni delle azzurre guidate dal tecnico Amauri Ribeiro, che hanno comunque migliorato la classifica di Tokyo, chiudendo al quinto posto. 

Il campionato italiano maschile e femminile è stato inaugurato nella stagione 2016-2017 e da allora, tra le donne, gli scudetti sono stati tutti appannaggio del Dream Volley di Pisa, la squadra di Eva Ceccatelli, che è ancora giocatrice-allenatrice e dove militano le azzurre Giulia Aringhieri, Giulia Bellandi, Elisa Spediacci e Sara Cirelli.

“Come allenatrice – prosegue – sento che tante società sportive vogliono aprire al Sitting Volley, ma abbiamo bisogno di sostegno e investimenti. Io ho molti contatti con le scuole e gli studenti, cerco di promuovere più possibile questa disciplina ma, come capita ancora a molte atlete e molti atleti nel nostro Paese, parallelamente all’attività sportiva di alto livello, devo lavorare per mantenermi”.

Un aiuto alla visibilità del Sitting Volley è arrivato dalle Paralimpiadi di Parigi, ma capita che la narrazione, soprattutto quando attraversa i social media, abbia anche delle derive negative. “Personalmente ho un rapporto sano con i social, mi prendo la libertà di pubblicare quello che voglio e, se si tratta di contenuti un po’ ‘scomodi’, evito di leggere i commenti. Purtroppo, però, sul web qualche ‘cretino’ c’è sempre, sui social il livello è molto basso, si fa gara a dire la peggiore cattiveria, non ci si pone minimamente il problema delle conseguenze delle proprie azioni. Finché le notizie che ci riguardano vengono diffuse e condivise da testate e pagine vicine al nostro mondo sportivo non ci sono problemi, ma quando vengono pubblicate su pagine più generaliste, arrivano parole di ogni tipo, probabilmente a causa del maccanismo che porta a generare clic e commenti, a prescindere dal loro contenuto. Una volta, ad esempio, ci è successo di leggere frasi squalificanti rispetto al nostro sport e commenti terrificanti rispetto allo ‘stare sedute’, a seguito della notizia pubblicata sui propri canali da una seguitissima agenzia di stampa social che si occupa di tematiche femminili”.

Il lavoro da fare è ancora grande ma Eva Ceccatelli e il suo team guardano al futuro.

Per approfondire – dalla pagina Facebook del Dream Volley Pisa

Il Sitting Volley è uno sport inclusivo derivato dalla pallavolo, introdotto nei Paesi Bassi nel 1956/57 come disciplina adattata per la pratica sportiva delle persone con disabilità. Consiste in una pallavolo giocata stando seduti sul pavimento, con il campo più piccolo e con la rete più bassa. Il giocatore nel momento in cui tocca la palla deve trovarsi con le natiche a contatto con il pavimento.

Per le sue caratteristiche il Sitting Volley viene spesso promosso per favorire l’integrazione sociale delle persone con disabilità, dato che può essere praticato senza distinzione da individui con disabilità (atleti con amputazioni, paraplegie e altre limitazioni funzionali) e al tempo stesso anche da soggetti normodotati, non richiedendo l’utilizzo di attrezzature o ausili sportivi.

Un campo regolare da sitting volley misura 10 x 6 m, con la rete alta 1.15 m per gli uomini e 1.05 m per le donne; le aste laterali misurano 1.60 m e la linea di attacco è posta a 2 m di distanza dalla rete.

Zaral Virgolin: l’importanza di valorizzare la propria unicità

“Senza lo sport praticato da ragazzo con gli amici più fidati, non avrei realizzato me stesso. La mia autostima è rinata con il primo giro in bicicletta sulle salite assieme agli amici. O quando, a 14 anni, ci siamo inventati il calcio-bici, cioè il calcio giocato in bici, così da muoverci tutti sulle due ruote e non a piedi, cosa che mi avrebbe escluso. Per la prima volta erano gli amici ad adattarsi a me. Una cosa resa possibile in quel modo così potente solo grazie allo sport. Perché è gioco, divertimento, istinto. E se tutti riescono a giocare allo stesso modo, allora automaticamente ogni barriera crolla”.

Zaral Virgolin ha 45 anni, è di Udine, ed è uno sportivo da quando ne ha memoria. Nato in un quartiere popolare della città friulana, a 10 anni era già un campione di calcio, selezionato dalle giovanili dell’Udinese. Ma un dolore improvviso e persistente, che dapprima si pensava fosse un problema muscolare, cambiò per sempre la sua vita: osteosarcoma, un tumore osseo aggressivo che spesso colpisce in età pediatrica. Oggi compie imprese in bicicletta e gioca con il Vicenza Calcio Amputati ASD.

di Ilaria Leccardi

Era la fine del 1988, e in pochi giorni la giovane promessa si trova dall’allenarsi diverse ore al giorno e sognare un futuro da stella sui campi da calcio, alla sala operatoria. “Un medico capì la gravità della situazione e ci inviò all’ospedale Rizzoli di Bologna, dove fui sottoposto alla chemioterapia e poi mi venne proposta un’operazione di “giroplastica” che oserei definire fantachirugia, dal professor Mario Campanacci, un luminare in questo ambito”. L’intervento consiste nell’amputazione di una parte del femore, alla cui estremità vengono attaccati tibia e piede ruotati di 180 gradi, in modo che la caviglia funzioni come un ginocchio e il piede come il moncone della gamba, garantendo un importante guadagno in termini di funzionalità dell’arto. Il friulano è stato uno dei primi in Italia a sperimentare questo percorso, “il 17esimo per la precisione, un intervento della durata di otto/nove ore”. L’operazione gli salvò la vita, gli garantì una mobilità importante, ma non fu semplice da elaborare emotivamente.

Il mio percorso di accettazione completo è durato anni. “Sono partito per Bologna a dicembre, fino a un mese prima ero il leader della squadra in cui tutti mi conoscevano, un piccolo idolo del quartiere dove vivevo, e sono ritornato dopo due mesi senza capelli, senza una gamba, ingessato in tutto il corpo. Ero molto diverso.

Pur ricominciando quasi subito a fare sport, per anni Zaral Virgolin indossa costantemente i pantaloni lunghi, evita il mare, si cambia le scarpe da ginnastica chiuso in bagno e non negli spogliatoi con i compagni, non vuole mostrare la sua nuova fisicità: un corpo non conforme che lo fa sentire diverso dai coetanei.

“Il primo sport da cui ho ricominciato è stato la pallavolo, mi allenavo in squadra come tutti, con la protesi nascosta sotto ai pantaloni lunghi, con l’accanimento di voler dimostrare di essere il migliore, forte anche del fatto che ero agile e aveva una buona elevazione. Ma di fatto vivevo un sentimento di vergogna verso il mio corpo. Tant’è che sono tornato al mare per la prima volta quando avevo 21 anni e ne ho aspettati altri dieci per immergermi in acqua. Ci ho messo vent’anni a mostrarmi com’ero veramente”.

Fino a 18 anni pratica la pallavolo agonistica e nel frattempo, mentre frequenta le scuole medie, si qualifica per le finali dei Giochi della Gioventù nella specialità del lancio della palla, chiudendo al quinto posto a livello nazionale. “Nessuno sapeva che avevo la protesi, era solo strano che gareggiassi con i pantaloni lunghi”. Negli anni pratica lo sci di fondo e discesa, il kayak, la pallacanestro, il biliardo, e poi – soprattutto – il ciclismo. 

“Il primario che mi aveva operato al Rizzoli andava in bici e mi invogliò a provare. E fu così, pedalando, che tornai a sentirmi veramente me stesso. Quando vado in bici sento di dover ringraziare la vita, è uno strumento portentoso che negli anni mi ha accompagnato e mi ha portato anche a compiere alcune imprese incredibili, come quando con il mio gruppo di paraciclismo ho scalato lo Zoncolan e poi il Mortirolo”. Virgolin partecipa alla Coppa Europa, e a diverse gare su strada in Italia e all’estero, entrando a far parte di quella che definisce una “comunità di storie incredibili”.

Ma sarebbe sbagliato pensare che il suo percorso sia stato lineare e senza ostacoli. Iscrittosi al corso di laurea di Medicina, con il sogno di diventare medico dello sport, qualche anno dopo abbandona, anche a seguito di una frattura femorale causata da una caduta in bicicletta e di un successivo intervento di rimozione delle viti che gli costa quasi la vita per un errore in sala operatoria. “Anche a causa di questi problemi, persi un anno di studio, poi un altro. Ebbi una reazione molto vigorosa, non accettavo l’idea di non farcela. Arrivai al punto di voler controllare tutti gli aspetti della mia vita, mi allenavo moltissimo, persi tantissimo peso, ma questo non risolveva la mia esistenza, mi stavo facendo del male. Decisi così di dire basta, firmai la rinuncia a Medicina e iniziai a mettermi in cerca di un altro lavoro. È stato un percorso lungo, ha cambiato otto lavori in quindici anni, ma alla fine ho trovato la mia stabilità”.

E poi, negli anni, Virgolin ha iniziato anche ad avere un ruolo in ambito medico: “Ho partecipato a ricerche del Rizzoli e accompagnato molti ragazzi e ragazze che hanno avuto il mio stesso tumore. Per i medici è sempre stato importante dare fiducia ai piccoli in procinto di affrontare una terapia o un intervento, mostrando loro come ci fosse qualcuno che ce l’aveva fatta e che conduce una vita assolutamente normale”.

In tutto il percorso di vita di Zaral Virgolin lo sport è stato una chiave fondamentale. E ancor più da quando, di recente, è tornato a calcare i campi da calcio, 35 anni dopo gli ultimi allenamenti da bambino. “Due anni fa fui chiamato a fare la comparsa, come amputato, nella fiction Il figlio del secolo, su Mussolini, tratta dai libri di Antonio Scurati. Lì incontrai Salvo La Manna, libero della Nazionale italiana calcio amputati. Vide che mi muovevo bene sulle stampelle, mi chiese se volessi provare a giocare nel Vicenza…”. E l’avventura è iniziata.

Il numero che Virgolin sceglie per giocare nel Vicenza Calcio Amputati è l’89, quello dell’anno in cui si interruppe il suo sogno di bambino, ma anche quello in cui iniziò la sua nuova vita. Il calcio amputati è uno sport duro e che non risparmia contrasti e scontri duri in campo. Giocato 7 contro 7 in un campo da 40 metri per 60, in Italia si sta diffondendo, anche se ancora non come in altri paesi. Lo sportivo friulano ha iniziato così un percorso fatto di allenamenti nuovi, diversi rispetto a quelli per la bicicletta, che comunque non ha abbandonato, una tecnica che sta facendo sua, un ritorno sul tappeto verde che gli sta permettendo nuovi incontri e sogni per il futuro.

“Credo molto nella condivisione. E anche nel racconto di ciò che sono, dopo anni di difficoltà ad accettarmi. Mostrare la mia protesi oggi è importante: ricordo un giorno a Monfalcone, quando mi fermai per una pausa di un percorso in bicicletta. Mi si avvicinarono due sorelline che iniziarono a farmi domande, a toccare la protesi, i genitori inizialmente si scusarono, io li tranquillizzai, poi ci scambiammo i numeri e ancora oggi siamo in contatto. In quel momento avevo mostrato loro qualcosa che non avevano mai visto, lo avevo reso reale, nel loro cervello è come se avessi piantato un piccolo seme. E l’ho fatto anche pensando a me bambino: quel ragazzino che portava sempre i pantaloni lunghi e non correva e per questo a volte veniva anche preso in giro. Situazioni a cui facevo fatica a trovare la risposta giusta”.  

Inevitabile allora chiedersi qual è la dimensione pubblica e il rapporto con i social del campione e dell’uomo Zaral Virgolin, che oggi è papà di una bambina di cinque anni. “Uso i social media anche per raccontarmi, senza esagerare. Mi hanno consentito di veicolare e manifestare in maniera chiara chi sono. Inizialmente è stato difficile, ma vedere una foto della mia gamba con la protesi pubblicata da amici su Facebook è stato un passaggio importante, che ha fatto bene innanzitutto a me, ma penso anche a molte altre persone”.

Una sensibilità e un obiettivo, quello della condivisione, vissuto proprio anche grazie al mondo sportivo.

Lo sport mi ha regalato la normalità di bambino quando ne avevo bisogno e ha contribuito a formare la mia identità, facendomi sentire straordinario quando serviva e ora uomo maturo e consapevole che, proprio grazie ad esso, allena la determinazione e l’onestà del vivere.

Emma Mazzenga, la prof dei record a 90 anni

“Per me lo sport è una grande passione ed è stato un sostegno nei momenti difficili. Mi dà benessere fisico e migliora l’umore. Ai giudizi sui social non bisogna dare retta, la maggior parte vengono espressi senza cognizione di causa”. Parola della padovana Emma Maria Mazzenga, campionessa sui 200 metri piani categoria W90, dove 90 sta per l’età. Lo scorso gennaio, con 54.47 l’atleta, nata il 1 agosto 1933, ha demolito il precedente primato di 1.00.72, che resisteva da 13 anni. Ma non è finita, nei mesi successivi ha abbassato ulteriormente il crono ed è già al settimo record del mondo da inizio anno.

di Progettomondo

La tenacia e la positività dell’ex professoressa in pensione sono impressionanti. “La notorietà mi ha meravigliato e divertita”, commenta. “Ai giovani dico che lo sport chiede impegno e fatica ma dà molte soddisfazioni e ciò che conta è raggiungere i risultati che si è in grado di raggiungere, con passione e piacere”.

Emma ha iniziato a praticare sport al liceo e una volta all’Università, nel ’56, si è cimentata con l’atletica. Poi si è sposata, ha avuto figli e per 25 anni si è limitata a sciare, mai per agonismo. Nell’86 il fondatore e allora presidente del Cus di Padova, Alberto Pettinella, ha riunito le atlete degli anni passati e così Emma ha iniziato a gareggiare nei master. “A 83 anni ho fatto una pausa, mi sentivo ridicola e fuori luogo, ma poi l’amica Rosa Marchi mi ha convinta a iscrivermi all’Atletica Insieme Verona, dove corro da 5 anni. Mi alleno con persone di tutte le età, dai 15 anni in su e questo mi piace molto”.

Quanto Emma ha iniziato la sua carriera sportiva i social non c’erano e in pochi sapevano quello che accadeva nei campi sportivi. “Navigando sui social, che seguo un po’ ma senza particolare coinvolgimento, si leggono parecchi giudizi”, dichiara l’atleta. “Alcuni arrivano da esperti, ma la maggior parte sono di chi non sa nemmeno di cosa si stia parlando e potrebbero proprio essere risparmiati. Si passa con estrema facilità da una celebrazione a un insulto, attenendosi al solo risultato, senza essere consapevoli della complessità di una disciplina sportiva.

“È impressionante che persino un tennista tanto riservato ed equilibrato, oltre che eccellente, come Sinner, riceva degli insulti. Ho condiviso la sua scelta di non andare al Festival di Sanremo. Chi fa sport sa cosa ci sia dietro una partita o una gara e non trovo giusto che vengano sfruttati impegno e bravura per fare audience”.

La campionessa ricorda un aneddoto accadutole durante un allenamento di qualche anno fa. “Mi era stato detto di andare a casa a fare la calza, ma mi sono limitata a replicare che io vesto in pile. Forse c’è ancora qualcuno che pensa che potrei fare altro nella vita, quando si è esposti si è purtroppo soggetti a ogni attacco o commento. Ma non bisogna dipendere dal giudizio altrui. Lo sport fa bene al fisico e alla mente, grazie al fatto di avere una meta, uno scopo. Ho visto passare tante mode e mi auguro che prima o poi si esaurisca anche quella dell’uso smodato e inappropriato dei telefonini”.

Un ultimo appello la campionessa lo lancia ai genitori. “Sono spesso mamme e papà a creare un clima di tensione e di eccessiva competizione. C’è chi cronometra i propri bambini in piscina e chi urla a chi gioca in campo. Non tutti possono diventare campioni e i giovani, specie se adolescenti, non vanno stressati. Non bisogna distruggere l’armonia e il benessere che lo sport sa donare”.

Briantea84 e Bulgaro Academy: sport inclusivo e tifo positivo

Lavorare per dar vita a una società dove lo sport sia realmente inclusivo e tracciare nuovi percorsi per rendere il tifo un’esperienza positiva, determinata ma anche gentile. Sul territorio comasco ci sono due realtà che incarnano questi obiettivi, lavorando nella pratica agonistica e nell’educazione della propria “famiglia sportiva”: quella comunità che si riunisce sugli spalti o ai bordi del campo, quella allargata a genitori e tifosi, quella che non può non sentirsi coinvolta se si parla di amore per lo sport.

UnipolSai Briantea84 Cantù, una delle più titolate realtà italiane del basket in carrozzina, fresca vincitrice della Coppa Italia, e FCD Bulgaro Academy, scuola calcio della FIGC, si sono incontrate e hanno potuto confrontarsi attorno a questi temi grazie a un evento organizzato dalla ONG ASPEm nell’ambito di Odiare non è uno sport, lo scorso 16 gennaio a Bulgarograsso, davanti a una platea di genitori, educatori, personale sportivo.

Di Ilaria Leccardi e Camilla Novara (ASPEm)

Nata da un’intuizione di Alfredo Marson che fino alla sua scomparsa, nel 2022, ne è stato presidente, la Briantea84 conta attualmente 150 tesserati in cinque discipline sportive (oltre all’eccellenza del basket in carrozzina, anche nuoto, calcio, atletica e pallacanestro). “Come società lavoriamo per promuovere l’inclusione quotidiana, incontriamo migliaia di giovani ogni anno, per trasmettere e testimoniare loro che lo sport paralimpico è sport, e dà dignità alla persona”, ha spiegato durante l’evento Simone Rabuffetti, responsabile ufficio stampa della società.

E che Cantù sia una dei centri focali di questa disciplina, lo testimonia la storia di Francesco Santorelli, play, classe 1992, cresciuto nelle fila del CIS Napoli e approdato in Briantea84 quando aveva 18 anni, fortemente voluto dal presidente Marson che proprio in quegli anni lanciava il nuovo progetto di scalata alle classifiche. Da allora con la squadra lombarda ha vinto 7 scudetti (che si aggiungono ai 2 già presenti nella bacheca della squadra), 8 Coppe Italia e 6 Supercoppe Italiane. “Mi sono avvicinato al basket in carrozzina quando avevo 13 anni, indirizzato da un conoscente. Rimasi affascinato quando vidi giocare a basket a un livello così alto. L’arrivo in Briantea è stato per me un passo molto importante, sportivo, vista l’importanza del team a livello italiano ed europeo, ma anche umano, per la mia crescita e autonomia”.

Negli anni la società ha costruito valore. Agonistico, che ha portato a rivalità storiche come quella con Amicacci Giulianova, vincitori dell’ultimo scudetto, o Santa Lucia Sport Roma. Ma anche quello di comunità, capace di riempire i palazzetti. “Nel nostro ambiente – ha proseguito Santorelli – ci conosciamo tutti, anche perché molti di noi, pur se avversari nei club, vestono o hanno vestito la maglia della Nazionale. Eppure, in campo la rivalità è molto forte. Il nostro giocatore in più è senza dubbio il pubblico: il territorio ci segue molto, ad ogni partita gli spalti del PalaMeda (dove giochiamo) sono pieni, mentre fuori casa capita spesso di giocare nel silenzio di un palazzetto vuoto. Rispetto a dieci anni fa, possiamo dire che lo sport paralimpico sta raccogliendo più seguito. Finalmente veniamo percepiti come atleti a tutti gli affetti: le ore di allenamento, i sacrifici per arrivare a livelli di eccellenza, la dedizione sono gli stessi, che si tratti di sportivi paralimipici o no”.

Il grande lavoro di Briantea84 verso la propria comunità, tuttavia, non è andato solo nella direzione di ampliare il bacino di tesserati o di portare pubblico sugli spalti, bensì, verso un’educazione al rispetto, anche grazie alla collaborazione con l’associazione Comunità nuova e il progetto “Io tifo positivo”, che porta la società a compiere anche simulazioni di tifo durante gli incontri che la vedono incontrare giovani negli oratori e nelle scuole. “Facciamo di tutto affinché gli avversari possano sentirsi accolti nel nostro palazzetto e questo non vuol dire non tifare o non schierarsi per i propri colori. Ma riconoscere che l’avversario può essere più forte e non per questo va insultato”, spiega ancora Simone Rabuffetti.

L’obiettivo è pienamente condiviso da un’altra eccellenza del territorio comasco, la FCD Bulgaro Academy, scuola calcio che sta crescendo talenti e generazioni. “Per noi – ha spiegato durante l’incontro Alessandro Crisafulli, giornalista, responsabile comunicazione della società – l’aspetto educativo è molto importante. Siamo cresciuti negli ultimi anni, abbiamo numeri importanti, ma non dimentichiamo mai che ogni singolo bambino o ragazzo è un progetto, da crescere e gestire al meglio. E in quest’ottica per noi è determinante la collaborazione con i genitori. Lavoriamo per informarli, formarli e coinvolgerli”. Purtroppo, sottolinea, “nel calcio giovanile c’è spesso un clima inquinato, fatto di ‘risultatismo’ e ‘campionismo’, che rovina l’ambiente e incide sui più piccoli. Noi adulti abbiamo una grande responsabilità”. Un approccio delicato, pedagogicamente attento, è quello che sta da anni cercando di valorizzare Crisafulli, ideatore della Scuola Genitori Sportivi, che ha dato vita un Alfabeto della gentilezza, attraverso cui lavora per promuovere il tifo gentile.

“Bisogna spiegare a un genitore l’importanza di stare al fianco del proprio figlio o della propria figlia, ma senza creare eccessive aspettative”. E, soprattutto dopo una sconfitta o una prestazione negativa, è importante rimanere in ascolto, anche di un silenzio.

Ed ecco un nuovo punto in comune: usare le parole giuste, nel tifo, così come nella narrazione sportiva, senza cadere nel perbenismo – che rischia di sfociare in forme di abilismo o infantilizzazione nei confronti degli sportivi con disabilità. “Gli atleti della Briantea84 – tiene a evidenziare Rabuffetti – hanno una dedizione totale all’allenamento, con ritmi e sessioni di preparazione del tutto simili a quelli seguiti dai giocatori di basket in piedi, con doppi allenamenti e numerose trasferte. A volte da fuori si ha la percezione che basti essere in carrozzina per essere ‘bravo’, ma non è così”.

“Ancora oggi – chiude Santorelli – capita che le persone che ci seguono non giudichino la prestazione, ma vogliano tirarci su il morale e stimolarci solo perché abbiamo una disabilità. Ma non ci serve ‘comprensione’ dopo una sconfitta. Dobbiamo invece analizzare gli errori commessi, le debolezze dimostrate, per studiare una tattica da applicare poi in campo”. Semplicemente, atleti.

Damiano Tommasi: Bisogna dare importanza alle relazioni

Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.

Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.

di Progettomondo

Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?

In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.

I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?

Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.

Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatore professionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?

Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzo contro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.

Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?

Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.

Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?

Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.

Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.

Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?

Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.

Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.

Luca Cesana, il “dottore” del basket: studio e sport si può

Fare del basket una delle proprie ragioni d’essere, ma al tempo stesso lasciare aperta la porta dello studio, quella verso prospettive future, quella dell’approfondimento e della conoscenza. Una strada non semplice, perché lo sport professionistico è fatto di delicati equilibri, impegni costanti, sponsor, aspettative e contratti. E per molti dei suoi protagonisti basta a sé stesso. Ma per Luca Cesana, 26 anni, play/guardia della Pallacanestro Cantù, dottore magistrale in Psicologia, la vita è un insieme di sfaccettature e lo sportivo, anche quello di più alto livello, non può dimenticarsi di essere prima di tutto una persona. Rientrato in partita domenica 17 dicembre dopo una fastidiosa fascite plantare che lo ha tenuto fuori dal campo per due mesi, lo abbiamo intervistato per dialogare di sport, social, gestione delle emozioni e spirito di squadra.

di Ilaria Leccardi

Com’è nato e come si alimentato nel giovane Luca Cesana l’amore per il basket?

Vengo da una famiglia di sportivi, con tre fratelli più grandi di me che hanno sempre giocato a calcio e basket. Io li ho provati entrambi, ma del basket mi sono innamorato. Ricordo ancora quando con la mia famiglia andai a Bormio nell’estate del 2004 ad assistere al ritiro della Nazionale in partenza per i Giochi di Atene, dove poi conquistò uno storico argento. Giocavo con gli amici, il basket mi faceva sentire bene. Sono cresciuto da ragazzino nel vivaio della Pallacanestro Cantù, con cui ho vinto uno scudetto Under20. Una volta diventato professionista, ho poi militato in diverse squadre: Treviglio, Eurobasket Roma, Junior Casale, Piacenza.

Fino al rientro a Cantù, una delle patrie del basket italiano, oggi in A2. Cosa significa per te?

Poter tornare a giocare dove sono cresciuto, a casa, è un’emozione indescrivibile. So cosa significa vestire questa maglia, ne sono onorato, sono gasatissimo, spero semplicemente di poter dare il meglio. 

Quando hai capito che il basket poteva essere la tua vita?

Attorno ai 16 anni, non ero più un bambino. Venni convocato per la prima volta per un raduno della Nazionale e capii che la cosa si stava facendo seria. Benché poi sia diventato il mio lavoro, a mio avviso il più bello del mondo, ancora oggi gioco a basket principalmente perché mi diverto.

Eppure, non si tratta di un “senso unico”. Perché nel curriculum puoi vantare un onorevole corso di studi con laurea triennale e magistrale in Psicologia. Perché questa scelta e che valore ha?

Quando ho firmato il primo contrato con Treviglio, nel 2016, avevo appena finito le scuole superiori e non avevo molta voglia di studiare. Vedevo entrare i primi soldini, mi bastava lo sport. È stata mia madre a insistere affinché non abbandonassi lo studio, non mi fece fretta, ma mi spinse a cercare qualcosa che mi potesse interessare. E visto che il mio focus è sempre stata la pallacanestro, mi sono detto: scegliamo un percorso che possa aiutarmi nella vita futura, anche se dovesse aiutarmi a migliorare me stesso dell’uno per cento, perché non provarci… E così ho optato per Psicologia. Sono un grande sostenitore della dual career per gli atleti, sono convinto che sia importante tenere aperte diverse prospettive sulla vita: a un certo punto la carriera sportiva finisce e non è sempre scontato riuscire a rimanere nel proprio ambito, che è spesso l’unica dimensione che si è conosciuta in una vita dedicata allo sport. È invece fondamentale accrescere la propria cultura sotto diversi punti di vista, mantenersi attivi mentalmente. 

L’immagine è presa dal profilo Instagram di Luca Cesana

È stato un percorso complicato?

Inizialmente sì, non riuscivo a trovare il metodo giusto per studiare e ricordarmi quanto avevo letto e ascoltato. Poi ho seguito un percorso che mi ha aiutato a sviluppare un mio metodo di apprendimento e memorizzazione ed è diventato tutto più semplice. Ho recuperato in poco tempo l’anno che avevo perso, mi sono laureato e poi ho deciso di proseguire con la specialistica, in cui ho conseguito la laurea all’inizio di quest’anno.

Su cosa hai concentrato la tesi?

Sul basket ovviamente, in particolare su come giocatori, professionisti e non, gestiscono le emozioni. Ho realizzato oltre duecento interviste a giocatori e giocatrici maggiorenni, ed è emerso che le differenze nella capacità di gestire le emozioni non dipendono tanto dal livello a cui si gioca e dall’esperienza che ci si porta dietro, quanto piuttosto dalla possibilità o meno di seguire un percorso di preparazione mentale dedicato.

Questo dimostra che prendersi cura dell’aspetto psicologico per gli atleti e le atlete è molto importante. Spesso non c’è questa attenzione e gli sportivi faticano a gestire emozioni come la rabbia o le frustrazioni date da una sconfitta o da un periodo di stop per infortunio.

Per avvicinarci al tema al centro del nostro progetto, che rapporto hai con i social media? Hai mai avuto esperienze negative online?

I social li utilizzo, ma non quanto vorrei. Penso che possano essere un valido strumento e un aiuto per trasmettere al mondo esterno l’ideale del giocatore di basket. Noi abbiamo il dovere di incarnare e trasmettere valori importanti e i social possono aiutare. Personalmente non ho mai subito attacchi d’odio online, ma i tifosi di basket sono molto accesi e – soprattutto in caso di sconfitta – gli articoli e i post che riguardano le prestazioni della squadra sono spesso bersaglio di commenti di questo tipo.

E nella vita “reale”? Quella dei palazzetti dello sport?

Nei nostri palazzetti le partite sono seguite da un pubblico misto, c’è la tifoseria da “curva”, ma ci sono anche famiglie con bambini. Purtroppo, mi è capitato di sentire che qualcuno non vuole portare i propri figli a vedere le partite perché sugli spalti si respira violenza, un po’ come nel calcio. Cosa che, al contrario, in uno sport come la pallavolo non succede. Ed è un peccato, perché in realtà il basket è uno sport divertente e molto adatto alle famiglie. A Cantù, ad esempio, c’è sempre grande spettacolo, le coreografie sono molto coinvolgenti. Io invito davvero tutti a provare a venire a vedere una partita.

Perché consiglieresti a un ragazzino o una ragazzina di avvicinarsi al basket?

Prima di tutto perché ti insegna a stare in gruppo e a rispettare i valori della squadra, accettando il tuo ruolo e mettendoti a disposizione del gruppo. E poi perché è uno sport super dinamico, dove può cambiare tutto in un attimo, un po’ come nella vita. Può capitare di essere sotto di tanti punti e tornare in vantaggio nel giro di pochi minuti.

Il basket ti insegna a non darti mai per vinto.

Per chiudere, ti chiediamo di raccontarci una curiosità. Lo scorso anno, con la maglia di Piacenza, hai fatto segnare un record storico: sei stato il primo italiano a segnare 46 punti con 13 triple in una sola partita. Com’è nata questa impresa?

Venivo da un periodo di forma ottima e realizzavo tanto. Ma non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dei miei compagni di squadra, che mi hanno messo nelle condizioni di esprimermi al meglio. Giocavamo contro Orzinuovi e dopo tre quarti avevo già segnato 9 canestri da 3. Così, per curiosità, ho chiesto al team manager quale fosse il record in Italia e lui, dopo una breve ricerca, mi disse: 12. Eravamo già sopra di 20 punti, la partita era nelle nostre mani, e così ci siamo concentrati tutti su quel mio obiettivo. Anche i compagni di squadra più individualisti si sono messi a mia disposizione e mi hanno passato la palla ogni volta che potevano, fino a quando, allo scadere, sono riuscito a segnare la tredicesima tripla. Una grande emozione personale, resa possibile da un lavoro di gruppo. 

Vittoria Di Dato: la marcia e la felicità della fatica

La marcia è uno sport di grande tecnica. Uno sport che richiede tenuta mentale, allineamento tra l’obiettivo e la capacità di sostenere la fatica, metro dopo metro, con l’asfalto o il tartan che scorrono sotto i piedi. Vittoria Di Dato ha vent’anni compiuti da poco, ha abbracciato l’atletica che era una bambina e ha conosciuto la marcia dopo alcuni anni, nel 2017. Da allora, non solo non l’ha più abbandonata, ma ha scalato metro dopo metro le classifiche e i sogni, fino a divenire una delle giovani promesse azzurre che guardano al futuro.

di Ilaria Leccardi

Vittoria, come inizia la tua storia con la marcia?

Ho cominciato a praticare l’atletica in quarta elementare, undici anni fa. Inizialmente mi sono dedicata alla corsa ma poi, passata alla categoria cadetti, seguendo l’esempio di una ragazza che si allenava con me e marciava, ho provato anche io questa disciplina. Mi è subito piaciuta ed evidentemente ero portata. Dopo aver esordito con la marcia nella Polisportiva Colverde, mi sono spostata a Cantù, dove mi sono allenata per tanti anni con Vittorio Zeni, uno dei maestri della marcia azzurra, che aveva già cresciuto importanti talenti e che purtroppo è mancato lo scorso anno.

Un grande dolore per una figura che segnato positivamente il tuo percorso, proiettandoti nella marcia di altissimo livello.  

Sicuramente sì. Tant’è che dopo la sua scomparsa ho iniziato a essere seguita direttamente da Alessandro Gandellini, ex marciatore, azzurro alle Olimpiadi di Sydney e Atene, e attuale responsabile tecnico del settore marcia della Federazione italiana di atletica.

Sei già stata due volte campionessa italiana outdoor nella 10 km, nella categoria allieve (nel 2020) e junior (nel 2021). Quali sono state invece le tue prime esperienze internazionali in azzurro?

Agli Europei di Tallin nel luglio 2021 ho vestito per la prima volta la maglia della nazionale per la gara dei 10 km di marcia. Ero nel mio primo anno nella categoria Under20, la gara non è andata come speravo, ma l’emozione è stata enorme, anche perché mi confrontavo con atlete di tutta Europa e sentivo finalmente di essere entrata nel vivo della disciplina. Nel 2022 ho disputato la Coppa del Mondo a Muscat, in Oman, arrivando decima su strada nella 10 km, e i Campionati Mondiali Under20 a Cali, in Colombia. Infine, quest’anno, con il passaggio alla categoria Under23, ho disputato gli Europei in Finlandia, dove ho chiuso undicesima, ma gareggiando assieme a ragazze del 2002 e 2001. Ho fatto segnare il mio secondo tempo e lo ritengo un grande risultato.   

La marcia è uno sport molto duro, sia dal punto di vista fisico che mentale. Come ti alleni e qual è l’equilibrio tra l’attività di alto livello e il resto della tua vita?

Ho finito il primo anno di Università, alla Cattolica di Milano, in Lingue, comunicazione, media e culture digitali. All’inizio è stato difficile trovare una routine giusta. Tra il cambiamento di allenatore e l’inizio dell’università, il mese di settembre 2022 è stato un momento delicato. Ma ora ho trovato un buon ritmo. Continuo a vivere nel paesino di Oltrona, studio a Milano e mi alleno a Sesto San Giovanni, seguita da Alessandro. I ritmi della marcia sono duri: mi alleno sei giorni a settimana, spesso anche con due sessioni al giorno, mattina e sera.

Un tuo allenamento tipo?

Gli allenamenti sono vari e differenziati. Ci sono periodi in cui principalmente marciamo, 15 km in settimana e 20 o 25 km il sabato. Durante l’inverno invece facciamo più potenziamento, anche in palestra, con esercizi a corpo libero e circuiti per alzare i battiti cardiaci. Poi ci sono i giorni in cui ci dedichiamo alle ripetute: riscaldamento, 5 km di marcia e poi ripetute su 500 o 1000 metri.

Sempre con il tuo allenatore?

Lui mi segue sempre, talvolta in presenza altre a distanza. Quando esco a marciare al mattino generalmente sono sola, al pomeriggio invece sono spesso i miei genitori a seguirmi in bicicletta. Se i risultati arrivano, sono frutto di tutti.

L’Italia è un paese della grande storia nell’atletica, in particolar modo nella marcia. C’è qualche figura a cui ti ispiri in modo particolare?

Sicuramente Antonella Palmisano, oro Olimpico a Tokyo nel 2021 nella 20 km. La seguo da sempre e poi l’ho conosciuta di persona e ho avuto l’opportunità di allenarmi con lei lo scorso aprile a Ostia, durante un raduno. È una persona molto umile, alla mano, ma al tempo stesso molto determinata. Dopo Tokyo è stata ferma un anno, senza gareggiare, per un infortunio, ma poi è riuscita a tornare e quest’anno ha conquistato il bronzo ai Mondiali di Budapest. Un esempio per tutte noi. Io non mai dovuto affrontare grandi delusioni, ma nel 2018 sono stata ferma diversi mesi per un edema osseo alla testa iliaca dell’anca. È stato un periodo difficile, immagino dunque cosa voglia dire per una campionessa olimpica non potersi esprimere in gara e affrontare il dolore come ha fatto Antonella. Ma tra i miei punti di riferimento c’è anche Valentina Trapletti, che ha disputato gli ultimi Mondiali e sarà ai Giochi di Parigi 2024, ci alleniamo insieme e la reputo un esempio sportivo.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi sportivi e cosa ti aspetti dal futuro?

Nel 2024 per me l’appuntamento più importante saranno i Giochi del Mediterraneo. Inoltre, vorrei lavorare per migliorare i miei tempi, sia nella 10 km sia nella 20 km. Ovviamente è anche l’anno olimpico, ma io a Parigi non ci sarò. Tuttavia, ho l’opportunità di confrontarmi in allenamento con azzurri di spicco, come la stessa Valentina, ma anche Sara Vitiello, Riccardo Orsoni e Stefano Chiesa… Insomma, ormai mi sento nella scia della marcia che conta e se devo guardare in là posso sperare solo di crescere e di arrivare al meglio nel prossimo quadriennio.

Il nostro progetto, Odiare non è uno sport, mira a contrastare le forme di hate speech online in ambito sportivo, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Tu che rapporto hai con i social media?

Un rapporto positivo e certo non di dipendenza. Uso Whatsapp e Instagram e non sono mai incappata in esperienze negative nel loro utilizzo. Pubblico i risultati delle mie gare, ricevo sempre e solo complimenti. Ma sono consapevole che sui social possono innescarsi dinamiche negative, soprattutto a danno dei più giovani, e bisogna stare attenti.

Qual è il principale insegnamento della marcia e perché la consiglieresti come sport a una giovane o un giovane?

La marcia è uno sport capace di insegnare molto. Sicuramente lo fa dal punto di vista educativo, perché devi essere una persona umile, letteralmente e simbolicamente con i piedi per terra. Ma anche perché ti insegna a resistere alla fatica e questo, sembra strano, può dare felicità.

Nella maggior parte dei casi dopo un allenamento, che vi assicuro è sempre faticoso, sono felice. Perché sento che mi sono migliorata, in una sfida costante, non tanto con gli altri – perché questo arriva poi nel momento della gara – ma con me stessa. Mi aiuta a conoscermi e ad andare oltre ai miei limiti.

Maria Magatti, con il rugby non ti puoi nascondere

“Il rugby è il mio elemento. È quello sport che ti permette di esprimere la parte più autentica di te, la tua vera essenza. Una volta che sei in campo e stai giocando, non ti puoi nascondere, combatti su tutti i palloni, sei davanti alla realtà e stai letteralmente dentro la fatica”. Maria Magatti è stata per anni una delle colonne della Nazionale azzurra femminile di rugby, dove conta oltre 50 presenze, e di recente è diventata la seconda italiana convocata nella squadra internazionale delle Barbarians che riunisce giocatrici provenienti da tutto il mondo, una sorta di Hall of Fame del rugby mondiale.

Ma la sua storia con la palla ovale nasce quasi per caso, grazie a un illuminato insegnante delle scuole superiori che colse nella giovane ragazza lombarda il talento che avrebbe potuto sbocciare.

di Ilaria Leccardi

Maria, ci racconti come e quando sei arrivata a giocare a rugby?

Il mio percorso è iniziato in maniera quasi casuale, anche perché quando ho iniziato, a Como, la mia città, il rugby non era uno sport conosciuto o praticato a livello femminile. Da ragazzina giocavo a basket, ma poi non sono cresciuta tanto di statura come le altre ragazze e, quando iniziai il Liceo Classico, il mio professore di motoria mi propose di provare il rugby, per partecipare ai giochi sportivi studenteschi che si sarebbero tenuti a Jesolo, al mare, per un paio di giorni. Fui attirata da questa proposta, quasi più per la trasferta… Ma una volta provato il primo allenamento mi sono sentita subito a mio agio, mi sono appassionata. E dopo due anni di progetto scolastico abbiamo fondato la prima squadra femminile della città.

E da questo sport non ti sei più staccata. Come è proseguita la tua carriera?

Dopo due anni a Como, sono andata a giocare nella squadra di Monza, in Serie A. Inizialmente era complicato dal punto di vista logistico, non avevo ancora la patente, dovevo andare a Monza in treno e poi passavano a recuperarmi i miei genitori o mio fratello. Ma nulla era un peso per me. Nel 2014 abbiamo vinto lo scudetto, l’unico della storia della squadra. Dopo alcuni anni ho iniziato a sentire la necessità di nuovi stimoli e nel 2018 mi sono trasferita a giocare al CUS Milano. Ora vivo e gioco a Treviso.

La tua storia sportiva si è giocata nei club ma anche molto nella Nazionale. Quando sei arrivata a vestire la maglia azzurra?

In realtà la prima convocazione è arrivata quando ancora non avevo una squadra, nella Nazionale Under 16. All’epoca avevo svolto solo attività scolastiche, giocando le finali nazionali studentesche a Roma. Lì erano presenti dei rappresentanti della Federazione, mi hanno notata e mi hanno convocata. Ero entrata nel rugby che contava.

E in quel rugby hai scritto pagine di storia per l’Italia, tra la partecipazione a varie edizioni del Sei Nazioni con alcune indimenticabili mete e dei Mondiali, l’ultima delle quali nel 2022 in Nuova Zelanda. 

Sì, con la maglia azzurra è stata una bellissima storia. Ora, dopo i Mondiali in Nuova Zelanda ho deciso di ritirarmi dalla Nazionale, dando priorità al lavoro. Sono insegnante di motoria ed è molto complesso conciliare gli impegni. Ho scelto di dedicarmi solo più al seven, il rugby a sette, fino a quando la scorsa estate sono incappata in un brutto infortunio, mi sono rotta la rotula. Tuttavia, ad agosto mi è arrivata una telefonata inaspettata e incredibile: mi invitavano a una tournee con la squadra delle Barbarians, per giocare due partite, in Sud Africa e in Irlanda. Arrivare nel team Barbarians è un sogno per tutte le giocatrici e i giocatori di livello internazionale. In Italia prima di me (e di Sara Barattin convocata insieme a Maria, ndr) era successo solo a una giocatrice. È una squadra che non ha luogo, ha solo uno staff dirigenziale, convoca allenatore e giocatrici da tutto il mondo e consacra il riconoscimento di una carriera importante nel nostro sport. Ricevere quella telefonata mi ha provocato un mix di panico ed emozione. Zoppicavo ancora dopo l’infortunio, avevo appena cambiato scuola e città, essendomi trasferita a Treviso quest’estate… Ma ho parlato con la dirigente, che ha capito benissimo la situazione, e ha accettato che prendessi qualche giorno di permesso per partecipare alla trasferta.

E che esperienza è stata?

Fantastica, difficile da descrivere. Dal punto di vista sportivo, ho giocato entrambe le partite in programma: la prima contro il Sud Africa allo stadio di Twickenham, la seconda contro il Munster in Irlanda. Le abbiamo vinte tutte e due e in entrambe ho segnato una meta, quindi non posso che essere felice. Ma soprattutto è stata una grande esperienza dal punto di vista umano. Con tutte le ragazze della squadra, alcune delle quali già le conoscevo altre no, si è creato immediatamente un legame speciale in pochissimo tempo. Inoltre posso dire che mi sono divertita tantissimo. Rispetto alle normali partite che ero abituata a giocare, con il club o in Nazionale, non ho sentito pressioni, ho potuto godermi il gioco, stare al cento per cento dentro lo spirito del rugby.

Come hai vissuto da ragazza la tua storia nel rugby? Hai mai subito forme di discriminazione o sguardi perplessi per la tua scelta sportiva?

Discriminazioni no, però ho avvertito spesso un’ignoranza diffusa, principalmente da parte di alcuni “anziani” del nostro sport che ancora denigrano il rugby femminile. Spesso, durante competizioni come il Sei Nazioni che mettono la nostra Nazionale un po’ più in vista, io e le mie compagne andavamo a leggere i commenti sui social e trovavamo chi scriveva che il rugby non è uno sport da femmine, che le femmine devono andare a chiudersi in cucina. C’è una parte del mondo del rugby che non ha mai visto di buon occhio il nostro sport al femminile. Ma penso sia più che altro una questione di ignoranza.

Oggi tu sei insegnante di scienze motorie. Guardando al passato, la tua storia nel rugby è nata proprio grazie a un insegnante che ti ha indirizzata sulla giusta strada sportiva. Come vivi oggi il tuo ruolo?

La mia esperienza è stata così importante e determinante per la mia vita che avevo voglia di restituire anche io qualcosa in quella direzione, a favore dei giovani.

Dell’insegnamento mi piace la parte relazionale, soprattutto con i ragazzi un po’ più grandi. Cerco di essere un sostegno, uno spunto di riflessione per loro, mi piace molto il dialogo, a partire dallo sport. Vorrei far capire loro che lavorare e dedicarsi anche con fatica a uno sport è importante, che quelle di motoria sono ore in cui si fa però anche qualcosa di bello e divertente. 

E il tuo rapporto con i social?

Ho Facebook e Instagram, ma non sono una grande fruitrice di social. Ho ancora un’impostazione da boomer. Preferisco così, condivido alcune delle mie esperienze sportive, ma non amo mettere in scena la mia vita quotidianamente online. Penso che se ne possa fare a meno.  

Emanuele Lambertini. Il ragazzo nato due volte

Nascere due volte. Ripartire da un’amputazione per tornare a sorridere alla vita, dopo un dolore continuo, capace di rovinare l’infanzia. A 24 anni Emanuele Lambertini è una delle punte della squadra azzurra di scherma paralimpica, impegnato in due delle armi previste dalla disciplina, fioretto e spada, oro Mondiale nel fioretto a squadre, campione mondiale Under23 e plurimedagliato in coppa del Mondo, nonché testimonial della Onlus Art4Sport, fondata dai genitori della campionessa Bebe Vio. Ma le sue vite sono mille, schermidore, futuro ingegnere, musicista e compositore per passione. Ora guarda a Parigi 2024 con la speranza di grandi risultati e noi lo abbiamo intervistato per scoprire la sua storia e il valore dello sport nella sua vita.

di Ilaria Leccardi

Emanuele, fai parte della squadra paralimpica di scherma azzurra, in quanto amputato alla gamba destra. La tua non è la storia di un incidente, ma di una malattia che ti ha fin da subito insegnato a confrontarti con il dolore. Ci racconti la tua esperienza?

Sono nato con rarissima malformazione vascolare alla gamba destra. Inizialmente i medici pensavano che le macchie rosse sulla pelle fossero delle semplici “voglie”. Ma quando ho compiuto un anno, quelle macchie iniziarono a ingrandirsi, ne spuntarono altre, e con loro anche ulcere e abrasioni molto dolorose. Iniziai un’odissea per cercare una cura, tra Italia, Stati Uniti e Francia. Nessuno riusciva a trovare la terapia giusta e, anzi, tante delle strade percorse erano sbagliate. Fui addirittura sottoposto a quattro cicli di chemioterapia. In Francia trovai l’ospedale specializzato in cui meglio riuscivano a seguirmi. Per tre lunghi anni ho vissuto tra la mia casa e Parigi. Fu molto difficile per me, per i miei genitori, le mie sorelle. Quella gamba, sempre gonfia, a rischio emorragie, mi stava divorando il futuro, non potevo giocare, correre, non potevo farmi la doccia in serenità. Fino a quando, nel 2007, i medici francesi mi presero da parte e mi spiegarono che la soluzione migliore era l’amputazione dell’arto e che quello era il momento migliore per procedere, visto che il mio fisico si era stabilizzato. La mia reazione fu positiva, dissi: “So com’è la vita con questa gamba, ed è terribile, voglio provare a vedere com’è senza”. Avevo otto anni.  

Com’è ricominciata la vita “senza”?

Venni amputato a Parigi e la mia vita prese una svolta colossale. Certo, il mio fisico si doveva abituare, ho affrontato alcuni mesi di riabilitazione non semplici, ma poi iniziai una vita completamente nuova, con una naturalezza che non potevo neanche immaginare. Mi sono avvicinato allo sport proprio grazie alla riabilitazione, iniziai a praticare il nuoto.

E alla scherma come sei arrivato?

Dopo un anno e mezzo di nuoto, il mio istruttore ha dovuto lasciare la piscina e io non avevo più nessuno che potesse rispondere alle mie esigenze. A Bologna mi rivolsi allo sportello del Comitato Italiano Paralimpico che indirizza giovani con disabilità ai vari centri sportivi. Qui i miei genitori vennero messi in contatto con Gianni Scotti, allora presidente regionale del Comitato Paralimpico Italiano, che propose loro di indirizzarmi alla scherma. Non sapevo nulla di questo sport, ma volevo provare. Entrai alla Zinella Scherma di San Lazzaro di Savena dove iniziai a lavorare con Magda Melandri, maestra che mi segue ancora oggi.

Negli ultimi anni la scherma paralimpica ha fatto grandi passi in termini di seguito e visibilità, anche grazie a una campionessa come Bebe Vio. Percepisci anche tu questa maggiore attenzione?

Sì, la scherma paralimpica è entrata a far parte della Federazione Scherma e questo le ha dato ulteriore visibilità. Stiamo raggiungendo importanti risultati a livello internazionale e poche settimane fa sono stato uno dei 13 componenti della squadra paralimpica (tra cui 4 schermidori, NdR) a prestare giuramento nella Polizia di Stato, un passo molto importante per tutto il movimento.

Tu hai partecipato a due Paralimpiadi, Rio 2016 e Tokyo 2020 (svolta in realtà nel 2021 a causa della pandemia da Covid). Che esperienze sono state?

Un’emozione indescrivibile, soprattutto Rio. Ho scoperto di essere qualificato nel mese di giugno, poco prima dell’inizio dei Giochi, mentre gli altri componenti della spedizione lo sapevano già da alcuni mesi. Poco prima avevamo disputato gli europei individuali e squadre, dove arrivammo secondi per poco. Ma una verifica fece emergere che il punteggio non era corretto e fummo ripescati. Cancellai gli impegni dell’estate e partii con la squadra, ero il più giovane di tutta la spedizione azzurra, con i miei 17 anni. Questo mi ha permesso di vivere l’esperienza sia con gli occhi di un adolescente, sia con occhi più adulti, per la responsabilità di vestire la maglia azzurra. Mio padre, dopo aver visto la cerimonia di apertura in televisione, non è riuscito a rimanere a casa come previsto ed è partito per Rio per venire a seguirmi dal vivo. A Tokyo è stato altrettanto bello, anche se la vita al villaggio olimpico è stata un po’ smorzata a causa del Covid. Se a Rio non avevo pretese di medaglie, a Tokyo invece ci speravo, mi ero allenato tantissimo, ma nell’individuale ho perso di un pelo, sia nella spada che nel fioretto. Ci penso ogni singolo giorno… Ora guardo con grande attesa a Parigi 2024.

La tua vita però non si ferma allo sport…

Porto avanti altre due grandi passioni. La musica, suono il pianoforte ormai da tempo, dopo aver iniziato seguendo l’esempio delle mie sorelle maggiori, e compongo brani originali che spesso diffondo e condivido sui social. E poi lo studio: sto frequentando Ingegneria dell’automazione a Bologna e il mio sogno per il futuro è aiutare altre persone che come me hanno necessità di utilizzare una protesi, uno degli sbocchi possibili del mio percorso universitario. Mi rendo conto che ogni materia che studio e ogni esame che do mi permettono di aggiungere un tassello alla mia strada in questa direzione.  

Sui tuoi profili, Instagram in particolare, racconti molto di te. Che rapporto hai con i social?

Li ritengo un importante mezzo di comunicazione, tramite cui sto cercando di divulgare la mia storia, il mio rapporto con la gamba amputata e la protesi, con le sofferenze dell’Emanuele bambino che comunque riusciva a sorridere, per cercare di raccontare come vivo la mia vita: alla leggera, ma non con leggerezza. E quindi metto nella narrazione anche un po’ di ironia.

Non ho problemi a porre me stesso, per come sono, davanti al mondo che mi circonda. E questo cerco di metterlo in pratica anche quando incontro i ragazzi delle scuole o con le aziende durante gli incontri a cui partecipo.

Hai mai vissuto episodi negative a causa dei social?

La maggior parte sono situazioni molto belle: tante persone mi scrivono per dirmi che le ho aiutate, come esempio e stimolo, spesso sono famiglie e ragazzi che stanno vivendo percorsi simili al mio. Solo in un caso anni fa sono incappato in un episodio molto spiacevole, a causa di un mio errore di ingenuità. Dopo una medaglia in Coppa del mondo a Tokyo pubblicai una fotografia in cui sorridevo e mimavo gli occhi a mandorla, non sapendo che il gesto era mal visto e ritenuto offensivo dalle persone asiatiche. Errore mio. Nel giro di poche ore sono stato sommerso da insulti e minacce molto pesanti provenienti un po’ da tutto il mondo. È stato un momento difficile e mi ha fatto capire prima di tutto che bisogna essere sempre consapevoli di quello che si fa, e io in quel caso ero stato davvero ingenuo e me ne scuso, lo feci anche pubblicamente, ma anche che i social possono essere un motore di odio molto forte, di messaggi che rimbalzano e si amplificano, spesso senza lasciare spazio al confronto o alla spiegazione.

Però sei anche quello che celebra il 25 aprile davanti ai memoriali dei partigiani e che non si risparmia quando si tratta di portare aiuti in prima persona, come nel caso delle recenti alluvioni in Emilia Romagna…

Diciamo che sono una persona molto eclettica e tutto quello che faccio lo inserisco nel mio percorso di vita come una crescita individuale e collettiva. Per questo, anche forte della mia esperienza da scout vissuta da ragazzino, appena finita una serie di gare a giugno ho deciso che sarei partito per fare la mia parte e aiutare famiglie e persone le cui case erano state sommerse dal fango. Mi sono organizzato, informandomi nei centri di dislocamento volontari, e sono partito più volte, o con persone del mio paese o da solo. È stata un’esperienza indescrivibile. Sono convinto che davanti alle difficoltà ciascuno debba dare il proprio contributo.  

Emanuele Lambertini, foto Marco Mantovani

Quello che ti aspetta è un autunno impegnativo. A breve sarai protagonista di nuovi appuntamenti di avvicinamento a Parigi 2024, ma cosa rappresenta per te lo sport nella quotidianità?

Per me lo sport è importante perché sa insegnare che cos’è la sofferenza. Detta così può sembrare strana come affermazione, ma la dice un ragazzo che fin da bambino ha dovuto confrontarsi con il dolore. Ora, da atleta, so che l’unico modo per crescere davvero è allenarmi fino a quando i muscoli mi fanno male per la fatica, spostare i miei limiti di volta in volta un po’ più in là. Gli obiettivi li raggiungi solo se sei disposto ad accettare e sopportare quel dolore e quella fatica. Se devo poi dire qualcosa in particolare della scherma… è una disciplina sportiva che ti dà delle scariche di adrenalina uniche: duelli con un avversario che spesso non conosci, devi avere un grande controllo su di te, è tecnica e strategia. In pedana ci vai da solo, ma per fortuna sai che dietro ha un grande team che ti sostiene e questo per me è fondamentale.