Francesca D’Alonzo: dalla danza al sogno dei motori

Stringere forte le mani su un manubrio. Percorrere i primi metri nei campi, senza confini. Provare paura, ma al tempo stesso rendersi conto che si sta scrivendo il proprio futuro. Fino a pensare: “Io da qui non scendo più”. Nell’estate 2020, in pochi attimi vissuti tra l’adrenalina e l’immaginazione, Francesca D’Alonzo si innamorò della moto e decise che sarebbe stata la sua compagna di avventure in giro per il mondo. Lei, che era una ballerina e una moto non l’aveva mai guidata. Lei che oggi, proprio attraverso la moto e ai suoi seguitissimi canali social (con il nome di The Velvet Snake), porta avanti messaggi di autodeterminazione ed empowerment per le donne, sfidando stereotipi e falsi miti.

di Ilaria Leccardi

Canali social seguitissimi, in particolare Instagram e YouTube, una moto da 200 kg con cui hai attraversato il mondo, ma un passato – soprattutto sportivo – che racconta altro. Francesca, chi eri prima di diventare The Velvet Snake?

Sono stata per tanti anni una ballerina. Ho iniziato a cinque anni, la danza è stata una passione travolgente, con cui sono cresciuta, che mi ha insegnato la disciplina, il rispetto delle regole, l’armonia, l’educazione alla musica, il movimento nello spazio. Con me, grazie alla danza – prima classica, poi moderna e contemporanea – è cresciuto il mio corpo, sul mio luogo di elezione che era il palcoscenico. Per anni ho tenuto esibizioni, ho calcato teatri, ho vinto un concorso nazionale di danza dedicato alle studentesse di tutte le scuole superiori di Italia.

E poi cosa è successo?

A 19 anni, dovevo capire cosa fare concretamente del mio futuro. Io avrei voluto portare avanti la carriera, mentre i miei genitori volevano che mi laureassi. Tentai allora di entrare all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, una possibilità che mi avrebbe permesso di portare avanti danza e studio. Partecipai alle audizioni ma per soli due posti non fui ammessa. Mi iscrissi allora a Giurisprudenza per studiare da avvocata, ma non furono anni semplici. Avevo vissuto un grande smacco, avevo visto il mio sogno – anche professionale – dissolversi, ebbi un periodo di forte depressione. Per completare gli ultimi due anni della laurea quinquennale da Udine mi trasferii a Bologna e lì la mia vita cambiò, con nuove conoscenze, una nuova apertura. Nel frattempo, scalpitavo, non riuscivo a stare ferma. Presi uno zaino e viaggiai tre mesi nel Sudest asiatico. Con un’amica ideai poi un progetto contro i pregiudizi nei confronti degli stranieri, viaggiando in autostop per tutta l’Europa, fino alla Svezia. Quindici giorni bellissimi, in cui la parte più difficile fu quella iniziale affrontata in Italia, perché sentivo forti i pregiudizi della gente nei confronti di due donne che viaggiavano sole. 

Fino all’incontro con la moto. Com’è avvenuto? E cosa è scattato dentro di te?

Finito il periodo peggiore del Covid, il mio compagno Amedeo Lovisoni, che è uno storico ed era un viaggiatore in moto ancora prima di conoscermi, mi fece provare una vecchia moto. Forse si era stufato di portarmi dietro in sella… Sono salita, ho stretto il manubrio fortissimo, perché avevo paura. Iniziai ad andare, in prima, nei campi, e lì ho capito che non sarei più scesa. È stato il punto di svolta della mia vita. Il motore sotto di me e l’asfalto che correva sotto ai miei piedi… Furono un’emozione fortissima, in cui ho visto più di quello che c’era effettivamente in quel momento: una vecchia moto che andava a malapena avanti e soprattutto una donna – la sottoscritta – che non la sapeva minimamente guidare… Dopo qualche mese io e Amedeo siamo ripartiti, ancora con la sua moto, per la Turchia, fino ai confini con la Siria e l’Armenia. E alla fine di quell’estate mi sono detta: io qui voglio tornarci, ma lo voglio fare con una moto mia.

Francesca d’Alonzo in Iran

In pochissimo tempo hai costruito un percorso che si è trasformato in un sogno professionale. Quali sono state le tappe?

All’epoca non avevo neanche ancora la patente, stavo ancora prendendo lezioni di guida! Ma ero molto decisa. Mi sono documentata, ho letto molto e ho iniziato a chiedermi perché le donne fossero così poco rappresentate in questo settore. Benché ci fossero tante amanti delle moto, sulle riviste, nei giornali e nei siti specializzati, erano molto poco visibili. Allora ho scritto un progetto, che teneva insieme la moto guidata da una donna e i viaggi, e ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi a realizzarlo, trovandolo in Yamaha Motor Italia. Ricordo quando andai a ritirare la moto alla fine del maggio 2021… Peccato che appena una settimana dopo sia caduta e, avendo imparato a guidare ma non ancora a cadere, rimasi incastrata con un piede e fui costretta a rimanere ferma per un po’. I primi tempi è stata dura. Il punto di svolta è stato quando ho iniziato a ridere dei miei errori, imparando dagli stessi. È una lezione che sicuramente ho mutuato dallo sport, dalla mia carriera nella danza. E allora ho cominciato a raccontare il mio percorso di crescita, rivendicando anche il diritto a non essere perfetta. L’ho fatto sui social, dove all’inizio ero un po’ naif, ma poi ho visto quanto questo modo di raccontare piaceva ed era umano.

I tuoi primi viaggi dove ti hanno portata?

Nell’estate 2021 ho compiuto un percorso di 11mila chilometri dall’Italia alla Georgia andata e ritorno. L’anno seguente ho affrontato il mio primo rally, la Gibraltar Race 2022, due settimane tra Riga e Praga, un percorso ad anello di dodici tappe. Poche settimane dopo sono partita per un lunghissimo viaggio con Amedeo dal Friuli fino in India, per un totale di 17mila chilometri. Quest’anno invece sono stata per la prima volta in moto in Africa, ancora grazie alla Gibraltar Race, per un difficile rally in Marocco. Sei giorni durissimi in cui ho vissuto anche un episodio di disidratazione, perché alla mia terza giornata di gara, in mattinata avevo già finito le scorte di due litri e mezzo d’acqua che pensavo mi sarebbero durate per tutto il giorno. Sono ambienti per cui ci vuole una grande preparazione, mentale e fisica.

E dalla danza alla moto la preparazione fisica non è proprio la stessa…

Sì, anche perché la mia moto pesa quattro volte me. Da quest’anno ho iniziato degli allenamenti specifici, anche di pesistica, per costruirmi una buona massa muscolare. La mia base è quella di una danzatrice, quindi un muscolo reattivo ma esile. Ma sto “rimediando”, con grande dedizione, anche per continuare ad affrontare il mondo delle gare in cui mi ha introdotta Yamaha.

Uno degli ultimi video del canale YouTube su cui Francesca D’Alonzo racconta i suoi viaggi

Alternare gare in contesti estremi a viaggi molto lunghi in località remote. Qual è il messaggio che porti con te?

Sicuramente un messaggio di empowerment femminile, contro gli stereotipi di genere e i pregiudizi, di cui il mondo delle moto e dei motori è ancora molto intriso, dando voce alle donne impegnate nel motorsport. E poi trovo molto importante l’incontro con quei luoghi e quelle popolazioni con cui entro in contatto. I viaggi che compio con Amedeo ci portano ad attraversare luoghi poco conosciuti dagli occhi occidentali, aree in cui la religione e la cultura si prestano a facili generalizzazioni. Quello che invece amo, e penso sia importante da fare, è raccontare la complessità, anche per quel che riguarda la condizione della donna.

A meno di un anno di mezzo dall’apertura, il tuo canale YouTube conta oltre 12.000 iscritti e 700mila visualizzazioni. A questi si aggiungono 178mila follower su Instagram e diverse migliaia su Facebook. Cosa sono i social per te? Ti hanno mai creato dei problemi? 

Quando ho scritto per la prima volta a Yamaha avevo un migliaio di follower su Instagram, non di più. Sono stati i miei viaggi a portarmi seguito e a mettermi in contatto con tante persone. Le avventure in Asia, raccontate grazie ai video girati con le nostre fotocamere GoPro, ma soprattutto i rally, che mi hanno resa un personaggio pubblico, capace di affrontare gare difficili, nonostante la mia giovane esperienza. I social sono senza dubbio uno strumento bellissimo, con tante potenzialità. Ma purtroppo – soprattutto in quanto donna – io sono spesso vittima di attacchi gratuiti ad opera di veri e propri haters. L’8 marzo di quest’anno ho deciso di pubblicare su Instagram una carrellata di commenti e attacchi che mi sono stati rivolti, alcuni dei quali molto pesanti. Commenti che mai sarebbero stati indirizzati a un uomo, anche perché il contesto in cui mi muovo è ancora pesantemente intriso di sessismo.

Viva le belle storie / che ci infondono coraggio / ad essere delle combattenti /ogni giorno / e ad essere indulgenti con noi stesse / quando siamo troppo stanche per farlo. / Le moto non conoscono genere / riconoscono solo chi le ama / e chi se ne prende cura. / E allora perché quando una ragazza condivide la propria passione riceve questi commenti?

Dal Canale instagram “The velvet snake” – 8 marzo 2023

Se dovessi guardare indietro, al tuo passato da danzatrice, e al tuo presente, ora che guidi una moto in fuoristrada, quali sono le assonanze, le emozioni che risuonano?

Penso che forse i sogni che non si realizzano continuano a bruciarci dentro per anni, sono destinati a cambiare forma e possano trasformarsi in altro per rimanere vivi. È come se in qualche modo la danza non avessi mai smesso di viverla, anche sulla moto, nello specifico nel fuoristrada, dove i terreni accidentati e i continui ostacoli richiedono una guida sempre molto attiva, una interpretazione. E poi una parte importante la giocano anche i paesi che ho attraversato in moto e che attraverserò ancora, contesti in cui la condizione della donna è molto marginale. Quando passo con la mia moto desto curiosità e stupore, vedo uno sguardo particolare che molto mi ricorda quello che si soffermava sui miei passi in palcoscenico, quando raccontavo storie in movimento. Ricordo ancora quando nel 2021 raggiunsi il teatro di Aspendos, in Turchia, uno dei teatri meglio conservati dell’antichità, magnifico e imponente. Una ciabatta sì e una no, improvvisai un passo di danza, per poi tornare a indossare il casco e riprendere strade nuove e inesplorate. Ogni volta incrocio sguardi nuovi e stupiti, come quelli delle bambine, a cui spero con il mio passaggio di raccontare una favola nuova.

Francesca D’Alonzo improvvisa un passo di danza al teatro di Aspendos, in Turchia

Quindi lo sguardo va soprattutto al futuro?

L’emozione più grande è quando ragazzine e bambine mi incontrano e mi chiedono se possono salire sulla moto. Io le vedo come mi guardano con gli occhi sgranati e mi rendo conto dell’importanza di ciò che sto facendo, sto raccontando una storia diversa, sta offrendo un modello positivo, sto dicendo che sì, è possibile. Anche per loro.  

Per seguire Francesca D’Alonzo sui social:

IG: The Velvet Snake / FB: The Velvet Snake / YouTube: Francesca D’Alonzo

Gaia Tortolina

“Quando ho dato vita al mio nuovo team l’obiettivo è stato fin da subito creare una squadra con dei valori. Scegliere le componenti prima come persone che come atlete, insegnare loro che esiste un ciclismo internazionale e che lo possono praticare, dando l’opportunità a tutte di farlo, anche a chi in Italia questa possibilità non l’aveva”. Gaia Tortolina ha solo 23 anni, ma le idee molto chiare. Ci parla dal Belgio, dove vive dal 2018 e dove la cultura del ciclismo offre maggiori opportunità, anche e soprattutto alle donne, che in Italia pagano ancora un notevole divario di trattamento, considerazione e visibilità rispetto ai colleghi maschi. Proprio in Belgio nell’autunno scorso ha fondato il Women Cycling Project, una squadra di ciclismo tutta al femminile. Alle ragazze dice: “Difendete sempre la vostra dignità, non fatevi trattare come macchine”.

Di Ilaria Leccardi

Gaia, partiamo dall’inizio, dal tuo avvicinamento al ciclismo che è avvenuto quando eri piccolissima…

Sono nata in un ambiente sportivo e ho iniziato a praticare sport da piccolissima. Mio papà ha giocato a calcio a livello professionistico, poi dopo la mia nascita si è dato al triathlon, coinvolgendo anche mia mamma in questo sport di tenacia e fatica. Li ho sempre visti uscire in allenamento, per me era entusiasmante, era normale volerli emulare. Poi un giorno un amico di mio padre che gestiva una squadra di ciclismo di bambini della zona, la Cicli Tortonese, gli chiese se volevo unirmi a loro. Non avevo ancora l’età per gareggiare, mi allenavo con i maschietti. Non avevo neanche la bici da corsa, ma una piccola mountain bike rosa… È iniziato tutto così, quasi per gioco. E anche se c’erano sport in cui eccellevo più che nel ciclismo, le due ruote sono sempre state il mio amore più grande.

Quando ti sei accorta che non era più un gioco e si iniziava a fare sul serio?

È stato attorno ai 14/15 anni, quando sono approdata alla categoria Juniores, in cui ormai si gareggia a buoni livelli, appena prima del professionismo. Sono sempre stato molto costante. E pur non essendo mai stata un talento eccelso, riuscivo sempre a piazzarmi tra le migliori, una gara dopo l’altra. Sono stata presa in un team di Milano di sole donne. Mi allenavo per lo più da sola, seguita a distanza, e poi mi vedevo con le compagne e il team in occasione delle gare e per dei periodi intensivi di allenamento. Facevamo base in un appartamento dove noi ragazze dormivamo e poi di giorno uscivamo in strada tutte insieme. Il ciclismo – soprattutto su strada – è uno sport particolare, dove l’allenamento non può mai riprodurre pienamente ciò che avviene in gara. Da una parte perché durante la preparazione sei sola, mentre in gara si corre in gruppo ed è quest’ultimo che determina la velocità, nel confronto con le altre partecipanti. Dall’altra perché incidono molti fattori, dal tempo atmosferico alla possibilità di forare o di incappare in una caduta.

Quando è avvenuto il passaggio al professionismo?

Nel 2016, avevo 18 anni. Ho avuto una proposta da una squadra di Asti, di cui sono entrata a fare parte, ma purtroppo non è stata un’esperienza positiva. Volevo crescere, trovare le mie opportunità. Una compagna di squadra belga mi disse: “Vieni da noi, là ci sono tante gare, avrai l’occasione di metterti in mostra”. La mia idea era partire, fare un po’ di esperienza, qualche gara, prendere il ritmo per la stagione e rientrare. E invece… sono ancora qua!

Cos’hai trovato di diverso rispetto al contesto italiano?

In Belgio c’è una grande attenzione all’atleta e una passione verso tutti e tutte coloro che fanno parte del mondo del ciclismo. Sono abituati a vedere ciclisti che arrivano da tutte le parti del mondo per correre da soli ed emergere. Io sono arrivata letteralmente da sola e senza niente: in macchina, con la mia bici e il mio materiale per correre. Eppure nel giro di poco tempo sono riuscita ad affermarmi. Nel mio primo anno, ancora con i colori della squadra italiana, ho preso parte a 30 gare, conquistato un podio e diversi piazzamenti importanti. E così ho trovato almeno due squadre che mi volevano con loro. Nell’anno 2018 sono entrata a far parte del team Equano – Wase Zon. Mi sono trovata molto bene, ho partecipato a 120 gare in due anni, tantissime rispetto a quanto ero abituata in Italia.

Le cicliste del Women Cycling Project

Ed è arrivata anche la prima vittoria da professionista. Che emozione è stata e quali gli elementi che ti hanno consentito di conquistarla?

Un’emozione enorme. Dopo tanti podi, nel settembre del 2019 ho conquistato quella vittoria a Wenduine. La cercavo da tempo, sapevo di avere le potenzialità, ma evidentemente non credevo abbastanza nelle mie capacità. Quel traguardo mi sembrava vicino, ma pensare a una vittoria era una cosa troppo grande. L’aspetto mentale ha giocato tantissimo su di me. Tant’è che dal 2019 ho iniziato a farmi seguire da una mental coach. Abbiamo portato avanti un lavoro importante che ho dovuto metabolizzare e che mi ha permesso di accrescere la mia autostima, arrivare concretamente a credere in me stessa. In quello stesso anno ho conseguito la prima laurea in psicologia, la triennale in Scienze e tecniche psicologiche. Poi è arrivato il Covid e a inizio marzo si è bloccato tutto.

Come hai fatto a ripartire e com’è maturata l’idea di dar vita a una squadra tutta tua?

Purtroppo la pandemia ha reso tutto difficile e per il team di cui facevo parte non è stato più possibile andare avanti, per l’assenza di sponsor. Avevo due scelte: o cercarmi un’altra squadra in Belgio, oppure provare a crearmi qualcosa di mio… Mi sembrava una sfida molto grande, ma su consiglio e su spinta del mio ragazzo che vive nel mondo del ciclismo da anni, ho deciso di provarmi. Così, nell’ottobre 2020, è nato il nostro team, il Women Cyciling Project.

Chi ne fa parte e quali sono stati i passaggi per dar vita a questa nuova realtà?

Abbiamo optato per una squadra giovane, con ragazze di età massima 19/20 anni, oltre a tre cicliste più esperte. Siamo un team internazionale composto da sette italiane, tra cui ovviamente ci sono anch’io, e quattro straniere. Non è stato semplice, perché abbiamo dovuto muoverci per trovare gli sponsor, per coprire le spese principali, in primo luogo l’abbigliamento delle ragazze, caschi, scarpe, indumenti per le varie condizioni atmosferiche… Poi le macchine e i furgoni per spostarci, non abbiamo ancora tutto, ma poco per volta stiamo crescendo. I nostri sponsor principali sono italiani, biciclette Finotti e Molino Filippini. Abbiamo già preso parte alle prime gare in Italia e le nostre junior hanno partecipato a una tappa della Coppa del Mondo. La sede ufficiale della squadra è in Italia, ad Alessandria, ma la staff tecnico è belga.

Tu ripeti spesso che dietro a questo progetto ci sono prima di tutto dei valori. Perché?

Io penso che lo sport, anche quello di alto livello, possa essere veicolo per portare avanti valori e cause importanti. Certo, nell’agonismo sono i risultati che parlano, ma non concepisco uno sport “vuoto” di valori, come purtroppo spesso mi accede di vedere, soprattutto in figure che hanno un’alta visibilità mediatica.

Che i giovani e le giovani diventino campioni o no, per tutti lo sport deve poter veicolare messaggi di giustizia, autostima ed emancipazione. Soprattutto per noi donne.

Quanto è importante la dimensione psicologica?

Moltissimo. Lo vedo anche tra le mie ragazze della squadra. I problemi più grandi non sono negli allenamenti, ma negli ostacoli interiori che si trovano ad affrontare. Le insicurezze. Nel ciclismo gli allenamenti sono tutti abbastanza simili uno all’altro, se ti alleni a un certo livello vuol dire che ormai hai superato determinati step a livello di performance. Ciò che invece cambia è la l’approccio mentale. L’ho vissuto anch’io sulla mia pelle. Quando ho iniziato a godermi lo sport al cento per cento, fuori dalle gabbie mentali, tutto è cambiato.

Perché per una ragazza è ancora difficile vivere il mondo del ciclismo, soprattutto in Italia?

Perché purtroppo viviamo di retaggi assurdi. Nei confronti delle atlete c’è una dose alta di body shaming, attacchi e giudizi sulla loro forma fisica. In Italia è un atteggiamento molto frequente, che invalida molto le atlete. Ti dicono che se non pesi 45 kg non puoi essere una ciclista e questo è terribile. Le ragazze finiscono per preoccuparsi del proprio corpo, più che di come si sentono interiormente. Anche questi sono abusi psicologici… L’ambiente ciclistico in Belgio è diverso da questo punto di vista.

Quale consiglio daresti a una ragazza che si trova a subire un giudizio del genere?

Sono convinta che siamo noi donne a dover evolvere e cambiare il sistema. È una nostra sfida. Quello che dico è che non bisogna rimanere vittime, è necessario uscire da questo schema. Il rischio è di perdere il posto o la visibilità in squadra? È vero, ma meglio che perdere la dignità. Tante volte ho sentito dire alle giovani cicliste che non vogliono essere trattate come macchine. Perfetto, allora dove cercare di comportarvi come persone e lottare per la vostra dignità. Perché questo è importante nello sport, come nella vita.

Veronica Lisi

Video-intervista alla campionessa di canottaggio Veronica Lisi, 33 anni, padovana. Nel 2003 – quando ancora gareggiava nella categoria Ragazzi – ai Mondiali Junior di Atene ha colto il bronzo nel quattro di coppia. Poi una lunga pausa fino al 2018, a parte una fugace ma vincente nuova comparsata nel 2006, quando vinse il titolo italiano in Tipo Regolamentare sul doppio canoe.

Voglia di rimettersi e impegno professionale le hanno consentito di vincere di tre titoli italiani – due di Società e uno di Gran Fondo – sempre in singolo e di tornare in Nazionale dalla porta principale. Tra i temi trattati nell’intervista, lo sport come possibilità di riscatto, rottura degli stereotipi e strumento di integrazione.

Mattia Gaspari

Velocità, conoscenza minuziosa degli spazi e dei tempi di movimento, l’amore per la sfida, un contesto di fair play sportivo totale, come vivere in una grande famiglia. Mattia Gaspari ci parla dalla Francia quando gli chiediamo di raccontarci la sua storia sportiva con lo skeleton. Lui che è nato sulle Dolomiti e che qui, a Cortina, ancora vive. Ha 27 anni, fa parte delle Fiamme Azzurre (il gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria) e ha un bronzo mondiale al collo, conquistato nel 2020 ad Altenberg, in coppia con la compagna di nazionale, la piemontese Valentina Margaglio. Una risultato storico, la prima medaglia mondiale vinta dall’Italia in questa disciplina che lo vede protagonista dei circuiti internazionali ormai da alcune stagioni. Lo skeleton è la specialità, tra gli sport di budello, che in azzurro ha una storia più sommersa rispetto a bob e slittino che hanno reso gloriosa l’Italia anche a livello olimpico. Una disciplina affascinante che, nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di impianti in Italia, sta prendendo piede.

Di Ilaria Leccardi

Mattia, come hai iniziato a praticare questo sport?

È partito tutto grazie a un reclutamento a scuola. Quando avevo circa 15 anni è venuto nella mia classe un allenatore, futuro Direttore Tecnico della Nazionale, per presentarci questa disciplina così particolare. Assieme a un’altra allenatrice ci ha mostrato dei video, poi ci ha poi portati al campo d’atletica per effettuare dei test fisici. Qualche mese dopo abbiamo avuto l’opportunità di fare una prova su un pistino da spinta estivo su rotaia a Cortina. Io sono risultato idoneo, la disciplina mi è piaciuta e insomma… eccomi qui.

Tra le “discipline da budello”, che vedono gli atleti sfrecciare ad alta velocità sul ghiaccio, tra curve mozzafiato e passaggi di precisione, lo skeleton in Italia è il meno conosciuto. Si disputa in posizione prona, il viso rivolto in avanti, a puntare con lo sguardo la discesa. Quanto coraggio ci vuole per lanciarsi in questo modo a tutta velocità?

Effettivamente può sembrare una disciplina dove il coraggio è il primo requisito, ma non è poi così vero. Sfido chiunque a dirmi che in montagna, sulla neve, non si è mai lanciato con lo slittino in discesa a pancia in giù. In realtà non è necessaria alcuna dose particolare di audacia o follia, perché prima di affrontare le piste complete a velocità di gara seguiamo una lunga preparazione di base. Affrontiamo vari step e livelli progressivi di discesa, per prendere confidenza e approfondire la tecnica.

Le piste hanno una lunghezza compresa tra 1,2 e 1,7 km e ci sono tratti in cui potete arrivare a toccare la velocità di 140 km/h. I corpi che sfrecciano vicino al ghiaccio, sotto la pancia solo il vostro skeleton. Qual è dunque il segreto?

L’elemento necessario nel nostro sport è la consapevolezza di quello che stai facendo con il tuo corpo e di ciò che ti sta attorno. Devi avere coscienza dello spazio che stai attraversando, devi conoscere molto bene ogni metro delle piste, i tracciati, le curve. Ma anche la durezza del ghiaccio, perché le condizioni atmosferiche incidono molto… Può piovere, oppure esserci una temperatura molto sotto lo zero e noi comunque affrontiamo le discese, adattando la guida anche a questo aspetto. Tuttavia, non nascondo che quando hai a che fare con la velocità o la gravità il pericolo è sempre dietro l’angolo. E non bisogna sottovalutare l’incidenza delle forze G che si creano nelle curve… insomma, il nostro è un sport di precisione e di fatica.

Preparazione fisica e studio dell’ambiente…

Sì, per le piste già percorse, abbiamo la possibilità di vedere dei video, studiando le discese registrate. Invece per le piste nuove il lavoro è più complesso. In ogni caso, quando siamo sul posto mettiamo i ramponi e percorriamo la pista passo passo per conoscere tutte le curve e ogni passaggio.

Perché in Italia non è semplice praticare uno sport come lo skeleton?

Purtroppo per la mancanza di strutture. Gli impianti al momento non ci sono. Gli unici due, entrambi tracciati olimpici, erano a Cortina e a Cesana Pariol. Il primo è chiuso dal 2008, il secondo – inaugurata per i Giochi di Torino – è stata chiusa nel 2011 ed è in disuso. Tuttavia ora, grazie al fatto che Giochi Olimpici del 2026 si terranno a Milano e Cortina, l’impianto ai piedi delle Tofane verrà ripristinato e speriamo che questo possa essere di aiuto in futuro per lo sviluppo delle nostre discipline. Soprattutto nella stagione invernale ci alleniamo all’estero. In Europa ci sono diversi Paesi dove il nostro sport ha maggiore considerazione, in Germania ad esempio è sport nazionale.

Lo skeleton è uno sport individuale, chi affronta la discesa è solo sul ghiaccio. Tuttavia, la medaglia mondiale che hai conquistato, la prima per la storia azzurra, è arrivata in una gara di squadra mista: la “staffetta” composta da te e Valentina Margaglio. Qual è il valore di quel successo?

Per l’Italia è stata una medaglia storica, un bronzo mai raggiunto prima. Dopo un Mondiale sottotono, sia per me che per Valentina, siamo riusciti a tirare fuori il meglio nell’ultimo giorno di gare. E abbiamo dimostrato di essere una formazione e un movimento competitivo nel suo complesso, sia nel settore maschile sia in quello femminile, non solo come individualità.

A livello personale per te è stato un risultato importante, anche alla luce delle difficoltà fisiche che hai dovuto affrontare negli ultimi anni e che ti hanno costretto a saltare i Giochi Olimpici del 2018 in Corea del Sud. Cos’era successo?

A ottobre del 2017, a pochi mesi dai Giochi che si sarebbero svolti tra l’altro su una delle mie piste preferite, mi sono rotto il tendine d’Achille. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Ho dovuto affrontare un recupero lungo e doloroso. Un primo intervento che però non è stato risolutivo e, a distanza di un anno dall’infortunio, una nuova risonanza ha evidenziato che il tendine si era nuovamente rotto pochi centimetri sotto. Mi hanno operato nuovamente, tramite una tecnica chiamata Allograf, che prevede il trapianto di tendine. Ho seguito poi un lungo percorso di fisioterapia in un centro di Asti dove sono stato seguito giorno e notte e dopo sette mesi ne sono uscito sulle mie gambe. Ora va sicuramente meglio, i test fisici sono buoni, tuttavia ancora non sono al cento per cento, faccio fatica ad esempio ad affrontare lunghe camminate. E devo sempre equilibrare tra le necessità di non fare troppo, perché altrimenti zoppico, e quella di non fare troppo poco, perché se no il lavoro che porto avanti è inefficace…

Negli sport invernali, nella tua disciplina in particolare, qual è il livello di collaborazione tra atleti? Considerato anche il tema del nostro progetto, hai mai assistito a episodi di discriminazione o situazioni spiacevoli nel tuo ambito sportivo?

Il nostro ambiente è il perfetto esempio di come dovrebbe essere lo sport. Viviamo come se fossimo in una grande famiglia, anche tra atleti di diverse Nazioni. Personalmente non ha mai assistito a situazioni di discriminazione o attrito particolare. Ci conosciamo tutti nel circuito e nel momento del bisogno c’è sempre qualcuno pronto a darti una mano. Siamo abituati a stare sempre in giro, quasi ogni giorno dell’anno, la fatica è grande, ci sono giorni in cui devi scaldarti con la temperatura a meno 15 gradi o sei sotto la pioggia. Questo forse ci accomuna e ci avvicina ancora di più, anche nel momento della competizione. Lo scorso anno a una mia compagna, appena prima dell’avvio della prima manche di una gara, si è rotto il lacciolo del casco. Non poteva partire. Nel giro di un minuto il capo allenatore della Germania è uscito dal furgone, le ha consegnato un casco e lei è riuscita a partire in fondo al gruppo e affrontare la discesa.

L’emergenza Covid vi ha causato particolari problemi? Abbiamo visto alcuni video dei vostri allenamenti a casa. Come avete affrontato la situazione?

Siamo riusciti a chiudere la stagione 2020 senza grandi problemi, se non fosse per il dispiacere di non aver potuto festeggiare a dovere la vittoria mondiale, conquistata il 1 marzo, perché appena rientrati in Italia è scattato il lockdown duro. Abbiamo ripreso ad allenarci dopo un mese, ma poi non abbiamo avuto particolari problemi e siamo riusciti a condurre la preparazione estiva, che si concentra molto più sulla parte atletica e il lavoro relativo alle spinte, sui pistini di tartan. Le gare sono poi riprese a novembre. L’unico grosso inconveniente per noi sono, ancora oggi ovviamente, i continui controlli. Ogni settimana effettuiamo due Covid test per spostarci da una pista all’altra… Non è certo piacevole! Ma la cosa più difficile è gareggiare senza pubblico. Tuttavia anche quest’anno siamo riusciti a portare a termine la stagione, quindi non abbiamo motivo di lamentarci. Guardiamo al futuro, con fiducia.

Rossano Galtarossa

Rossano Galtarossa nasce a Padova il 6 luglio del 1972. Avvicinatosi allo sport del remo in età giovanile, inizia la sua attività agonistica a 13 anni con il Cus Padova. Partecipa per la prima volta alle Olimpiadi nel 1992 a Barcellona, dove taglia il traguardo al terzo posto in quattro di coppia. Nel 1993 passa alla Canottieri Padova e strappa il bronzo ai Mondiali di Racice (Repubblica Ceca) ancora in quattro di coppia. Nella stessa specialità diventerà campione mondiale nel 1994, 1995, 1997, 1998.

Nel 1996 partecipa alla sua seconda Olimpiade (ad Atlanta – USA), posizionandosi quarto. Con Alessio Sartori, Agostino Abbagnale e Simone Raineri trionfa alle Olimpiadi di Sydney (Australia) nel 2000. Quattro anni dopo si piazzerà terzo ad Atene (in doppio) e nel 2008 approderà all’argento con il quattro di coppia con Raineri, Luca Agamennoni e Simone Venier. Nel 2011 torna a essere protagonista con la maglia azzurra e si qualifica col quattro di coppia alle Olimpiadi di Londra 2012.

Rossano Galtarossa è il canottiere italiano ad aver vinto più medaglie alle Olimpiadi: quattro, un oro, un argento e due bronzi. Oggi è Direttore degli Impianti della Società Canottieri Padova.

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la su storia sportiva e spiegare il canottaggio e il valore dello sport dal suo punto di vista.

Valentina Petrillo

“Sogno un futuro in cui nessuno debba più sentire storie come la mia. Sogno un futuro in cui non ci siano più bambini, bambine, adolescenti, costretti e costrette a nascondersi, ad avere paura, a non potersi esprimere per quello che sono: in famiglia, nella società, nelle attività di tutti i giorni. E nello sport, sì, anche nello sport”.

Valentina Petrillo è una campionessa paralimpica che gareggia sulle distanze dei 200 e 400 metri nella categoria T12, riservata alle persone ipovedenti. Dall’età di 14 anni soffre della sindrome di Stargardt, che preclude fortemente la vista. Ma Valentina è anche una persona che sta scrivendo la storia dello sport italiano e internazionale. È infatti la prima ad aver affrontato la transizione di genere a correre nella categoria a cui si sente di appartenere: le donne.

Di Ilaria Leccardi

Il 2021 sarà un anno fondamentale per lo sport. Dopo il rinvio causa Covid dei Giochi di Tokyo, il mondo è in attesa di capire se sarà possibile disputare l’evento. E nel frattempo tutti i campioni che puntano a quel traguardo sono in lotta con se stessi o gli avversari per conquistare il pass. Valentina è in forma, finalmente. Il corpo risponde bene agli allenamenti e le gambe girano forte. Nel meeting di Ancona del 31 gennaio ha fatto siglare il record italiano paralimpico femminile sui 400 metri. “Dal punto di vista sportivo è un momento importante, questa era la seconda uscita stagionale. Una settimana prima, ai Campionati paralimpici, avevo vinto ma con un tempo più alto. Qui, oltre all’oro, sono riuscita a segnare il nuovo primato italiano assoluto sulla distanza, con il tempo di 1’02.88. Sono molto felice. Ho dato il via a una fase importante che potrebbe darmi molte soddisfazioni. E questo, a due anni dall’inizio della terapia ormonale”. La strada per Tokyo è ancora lunga: la prossima tappa fondamentale sarà il weekend del 15/17 aprile, quando a Jesolo si terrà il Meeting internazionale paralimpico, prima occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e quindi ritenuti validi per i pass a cinque cerchi.

“Per molti il 2020 è stato un anno terribile. A me, nonostante tutto, ha permesso di prepararmi al meglio e ha consentito al mio corpo di abituarsi alla terapia ormonale che è tutto fuorché una passeggiata”, prosegue.

Valentina corre perché è nata per farlo. E corre fin dal giorno in cui, ad appena sette anni, vede Pietro Mennea volare sui 200 metri ai Giochi di Mosca. Ma Valentina per troppi anni è costretta a vivere una vita che non è la sua.

Io sono il classico esempio di una persona che per timore dello stigma sociale si è tenuta tutto dentro. L’impatto della società, di cosa avrebbe potuto comportare essere veramente me stessa, ha inciso molto sul mio percorso di vita.

foto FISPES – Mantovani

“Ho provato a lottare per rimanere nel posto assegnatomi dalla società, che inscatola i bambini maschi con un fiocco azzurro. L’ho fatto fino a quando sono esplosa. Per 44 anni non ho avuto strumenti, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. Sono nata nella Napoli degli anni Settanta, dove i femminielli erano considerati la “feccia” della società. Con una cugina più grande di me che, dove aver dichiarato di essere trans, venne cacciata di casa dal padre e non fece una bella fine. Avevo paura e mi sono nascosta”.

Poi però arriva il momento in cui Valentina non può far altro che essere se stessa. Prima di iniziare il percorso di transizione, aveva già vinto 11 titoli italiani paralimpici maschili nella sua categoria di disabilità. Lo sport è sempre stato importante, ma a un certo punto la scelta di iniziare la transizione diventa prioritaria. “Sentivo che per essere me stessa dovevo arrivare a realizzarmi in quanto donna, a prescindere dallo sport. Se poi fossi riuscita a coronare il sogno anche in ambito sportivo, sarebbe stato fantastico”.

Un ruolo centrale nel suo percorso lo ha il Gruppo Trans di Bologna che da anni segue e affianca le persone nei percorsi di transizione. “Fino al giorno in cui non ho varcato la soglia dell’Associazione, grazie al consiglio di un’amica, e ho visto quella che poi sarebbe diventata una delle persone di riferimento per me, Milena, non potevo immaginare la normalità della situazione. Nel mio immaginario le persone trans erano sempre e solo associate a contesti degradati, di strada. Invece davanti a me vidi una ragazza in scarpe da ginnastica e jeans. Le chiesi se potevo toccarle la mano e capire se fosse reale. La guardai e dissi: ‘Sei la persona che ho sempre saputo di essere, ma che non avevo mai incontrato’. A quel punto avevo capito chi fossi”.

Il percorso di transizione per Valentina inizia quasi subito dopo quell’incontro. Cosa non scontata, visto che prima di avere l’ok da parte dei medici è necessario una lunga valutazione, anche psicologica. “Per me è stata abbastanza rapida, perché era chiara la mia determinazione. Io ero dell’idea che, a prescindere dalla terapia, avrei comunque iniziato a vivere da donna, nei contesti privati e in quelli pubblici”.

L’impatto sul corpo delle persone che affrontano il percorso di transizione non è semplice. Valentina in un mese ingrassa di 10 chili e dopo tre mesi non riesce a correre. È fisicamente spossata, la sua temperatura corporea si abbassa di 2 gradi. La muscolatura fa molta più fatica a recuperare. Le prime gare le affronta dopo sei mesi, ancora nella categoria maschile, e il calo delle prestazioni in pista è evidente. Ma non si arrende, soprattutto con l’obiettivo di gareggiare finalmente nel genere che le appartiene.

I momenti più difficili, ricorda, sono due. I primi mesi del 2018, “quando iniziavo a uscire di casa vestita da donna, ma negli ambiti sociali come il lavoro vivevo ancora da uomo. E per me era terribile, una sorta di sdoppiamento di personalità, in cui sentivo che Valentina chiamava, ma non potevo sempre rispondere”. L’altro è stato nel 2019, poco dopo l’inizio del percorso di transizione, quando le Federazioni sportive le dicono che il suo sogno di gareggiare con le donne è irrealizzabile.

foto FISPES – Mantovani

Poi qualcosa cambia. Da una parte l’Uisp e il Gruppo Trans intervengono per sollecitare un passo in avanti, poi – nel giugno 2019 – l’incontro con Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. “Gli mandai una mail e lui mi convocò. Fu un incontro bellissimo, in cui parlammo di tutto tranne che di sport. ‘Valentina- mi disse – io ti vedo come vedevo me stesso dopo l’incidente che provocò la mia disabilità. Ti capisco’. Non so bene cosa sia successo, ma so che a un certo punto la FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, mi aprì le porte”.

L’11 settembre 2019 Valentina Petrillo diventa la prima persona trans a correre nella categoria del genere di appartenenza. E poi, a ottobre, si aprono le porte anche della Fidal, nei campionati Master ad Arezzo.

Fin dall’inizio Valentina si pone il dubbio se sia giusto o meno gareggiare con le altre donne. Ma la risposta, la più semplice possibile, arriva dalla dottoressa Joanna Harper, medico statunitense che da anni approfondisce il tema dalle persone sportive che affrontano la transizione. Lei ricorda a Valentina che esistono regole internazionali da questo punto di vista e che rispetto al passato i diritti delle persone trans sono stati finalmente affermati. Fino al 2003, infatti, non era nemmeno pensabile che una persona trans potesse gareggiare con il genere a cui si sentiva di appartenere. Poi un passo avanti è stato fatto con le prime linee guida, in vigore dal 2003 al 2015, secondo cui i requisiti erano: l’operazione per il cambio di sesso, il riconoscimento legale del proprio cambio di genere e almeno due anni di terapia ormonale. Dal 2015, invece (anche per andare incontro a quelle persone che vivono in Paesi dove il cambio di sesso non è consentito), l’unico requisito è dettato dal livello di testosterone nel sangue: 5 nanomoli. Un livello basso, rispetto al quale – tra l’altro – Valentina è ben sotto.

“Capii che era stato lo stesso CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, ha indicare cosa potevo fare. Non ero un’eretica, chiedevo solo che le regole venissero applicate, anche se fossi stata la prima. E così, dopo qualche chiusura iniziale, il sogno si è avverato. La cosa più straordinaria, forse, è che sia successo proprio in Italia, un Paese dove su certe aperture non siamo certo all’avanguardia. Ma ben venga!”.

foto FISPES – Mantovani

Tuttavia, al di là di quello che le Federazioni hanno permesso, non tutti o tutte hanno accolto bene l’arrivo di Valentina nelle gare femminili. “Sui social – ci spiega – ho imparato a non leggere più i commenti. Solo il primo giorno in cui mi sono esposta come donna ho risposto a una persona che mi attaccava, ma poi, anche su consiglio dei miei collaboratori, ho deciso di lasciar perdere. Nel mondo reale, ho avuto un’ottima accoglienza nell’ambiente paralimpico, dove le persone sono più abituate ad avere a che fare con la diversità, e dove mi conoscevano già bene perché avevo vinto molto prima di iniziare la transizione. Nel mondo sportivo dei cosiddetti normodotati, invece, l’accoglienza non è stata calorosa. So che c’è chi si è lamentata della mia presenza e addirittura c’è chi ha detto che boicotterà eventuali gare a cui mi presenterò”.

Purtroppo lo sport è un ambiente molto sessista, dove – anche necessariamente – vige la divisione agonistica tra maschi e femmine. Ecco perché farsi accettare può essere ancora più dura che nella vita di tutti i giorni. Io stessa penso che delle perplessità siano legittime. Ma noi abbiamo il dovere di fare informazione. Ci sono stati studi di anni per arrivare a stilare le linee guida del CIO e io le sto semplicemente rispettando”.

Sulla storia di Valentina sta venendo prodotto anche un documentario 5 Nanomoli, prodotto da Ethnos e Gruppo Trans, in collaborazione con Uisp e Arcigay. “La visibilità che ho acquisito in seguito alla decisione che ho preso per la mia vita mi fa piacere, anche se ho sofferto molto negli ultimi mesi per l’invadenza e l’intromissione nella vita privata. Molte domande fuori luogo, molte morbosità che mi hanno infastidita. Io penso sempre alla mia amica, la campionessa paralimpica Martina Caironi: qualche giornalista farebbe mai a lei le stesse domande che pongono a me? Credo proprio di no… Eppure sono consapevole che tutto questo servirà. A me da giovane sono mancati gli esempi positivi. Se a 14 anni avessi visto in televisione una Valentina Petrillo che faceva sport, avrei pensato: caspita, ma allora è possibile! E non mi sarei stata nascosta per così tanto tempo. Non posso dire di avere avuto una brutta vita, anzi. Ma sicuramente non era la mia. Cresciamo in una società in cui non è possibile vedere altre strade che quelle imposte dai ruoli che ci pongono alla nascita. E se quei ruoli non li rispettiamo siamo fuori dai canoni, siamo persone sbagliate”.

Nel futuro c’è Tokyo, ma soprattutto un grande sogno: “Io vorrei che Valentina non fosse più il caso a cui guardare con curiosità, ma che dalla mia storia venisse fuori la normalità. Perché ogni persona che viene al mondo deve potersi esprimere e deve poter vivere per quella che è. E non dobbiamo rimanere in silenzio. Lo dico anche pensando a quanto sia stato simile il percorso che ho affrontato per accettare la mia disabilità, l’ipovedenza. Per anni ho parlato ai ragazzi dell’importanza di accettare e rispondere alla malattia, ora lo voglio fare per contribuire a rendere il nostro mondo più vero, sincero e libero. Solo così potrà essere un mondo più felice”.

Paola Egonu

Video intervista al volto più noto del volley italiano

Un metro e 89 centimetri di tecnica e potenza. Un’elevazione che la porta a volare a quasi tre metri e mezzo. Le sue schiacciate sono bolidi che lasciano poche speranze a chi si trova dall’altra parte della rete. Paola Egonu ha 21 anni e ormai da qualche stagione è il volto più noto della Nazionale italiana di volley e icona della pallavolo mondiale. Schiacciatrice e opposto, più volte nei tornei e campionati internazionali disputati nelle ultime stagioni si è trovata insignita del riconoscimento di MVP (Most Valuable Player).

Paola è nata a Cittadella, in provincia di Padova, nel 1998, da genitori nigeriani che proprio in Veneto si sono conosciuti. Afroitaliana. È questo il termine con cui meglio si definisce. Nata e cresciuta in Italia ma consapevole della sua storia a cui è molto legata, così come alla sua famiglia di origine che di frequente va a trovare in Nigeria. È uno dei volti che rappresenta l’Italia di oggi, che sa raccontarsi, prendendo parola e scardinando i pregiudizi, come quando – al termine dei Mondiali 2018 – con tutta naturalezza disse di avere una fidanzata e la stampa utilizzò quelle poche parole e la foto di un bacio per ricamarci titoli e scrivere fiumi di articoli.

La pallavolo l’ha conosciuta quando aveva 12 anni. Prima come semplice hobby, poi ha iniziato a divertirsi davvero e ha capito che poteva essere lo sport adatto a lei. E presto lo notano anche gli allenatori. Tant’è che dal 2013 entra a far parte del Club Italia, la società che fa capo alla Federazione, fondata per volere di Julio Velasco nel 1998, con l’obiettivo di formare giovani atlete italiane provenienti dai vivai, facendo così fare loro esperienza ad alto livello anche in termini di campionati.

FOTO Galbiati/Fipav – Paola Egonu agli Europei 2019, la Nazionale italiana è bronzo

Ed è proprio tra le fila del Club Italia che Paola Egonu ottiene i suoi primi successi, partendo dalla serie B1 e arrivando fino all’A1. Celebre resterà una partita del campionato 2016-2017 in cui riuscì a realizzare ben 46 punti, il record di sempre in un match femminile nella serie maggiore. Una scalata inarrestabile che l’ha portata sul tetto del mondo.

Ingaggiata dall’AGIL Volley Novara nel 2017, vi gioca due stagioni, durante le quali vince di tutto: la SuperCoppa Italiana nel 2017, due Coppa Italia (nelle stagioni 2017-2018 e 2018-2019) e nel 2019 la CEV Champions League, dove risulta anche MVP. Nella scorsa stagione torna in Veneto, ingaggiata dall’Imoco di Conegliano, con cui si distingue subito vincendo la SuperCoppa Italiana e il Mondiale per Club in cui, neanche a dirlo, è MVP. E poi la Coppa Italia 2019-2020, poco prima della chiusura delle attività per lockdown a causa dell’emergenza coronavirus.

Straordinaria è anche la sua attività in Nazionale azzurra, fin dalle giovanili. Nel 2015 è campionessa mondiale sia con l’Under-18 che con l’Under-20. Nel 2017 è argento al World Grand Prix. Mentre nel 2018, ai Campionati del Mondo che si disputano in Giappone, conduce con le sue schiacciate l’Italia alla finale, dove però ha la meglio la Serbia. L’Italia si deve “accontentare” dell’argento. Nel 2019 è bronzo Europeo, in una Nazionale azzurra dove quasi la metà delle giocatrici ha origini straniere, per lo più seconde generazioni.

Con Paola Egonu abbiamo parlato degli aspetti che riguardano la nostra campagna. La diffusione dell’hate speech anche in ambito sportivo e come lei ha affrontato episodi spiacevoli che l’hanno riguardata. La ricchezza della nuova Italia che anche nello sport sta vivendo una sempre maggiore condivisione di culture e diversità. L’importanza per una campionessa come lei di portare avanti un messaggio di integrazione. E infine il suo legame con la Nigeria, cosa significhi essere afroitaliana oggi.

LA VIDEO INTERVISTA DI “ODIARE NON È UNO SPORT” ALLA CAMPIONESSA DI VOLLEY PAOLA EGONU

Julio Velasco

Nello sport come nella vita, la squadra è l’elemento fondamentale

“Per affrontare il presente che stiamo vivendo, l’emergenza sanitaria, dobbiamo essere capaci di immaginare nuove forme di condivisione, nuove modi per stare insieme. Non bastano discorsi generici, il telefonino, i social. Servono proposte concrete, anche per i più giovani, quegli adolescenti che si trovano confinati in casa in un momento della loro vita in cui avrebbero bisogno di spazi propri”. Julio Velasco è un uomo di grande esperienza. Una vita passata sui campi della pallavolo, dall’Argentina all’Italia, passando per l’Iran, la Repubblica Ceca, la Spagna, e altri angoli di mondo. Una vita ad allenare e coordinare gruppi, facendo dell’attenzione alla dimensione psicologica, sul campo e fuori, una delle chiavi della propria conduzione. Ha guidato l’Italia della “generazione dei fenomeni”, portandola ai vertici del mondo, ma è soprattutto stato – e ancora continua a essere – una guida per i giocatori e i tecnici, non solo nel suo sport. Dallo scorso anno, chiusa la carriera di allenatore, è stato nominato direttore tecnico del settore giovanile della FIPAV, la Federazione Italiana Pallavolo. E ora, a causa dell’emergenza coronavirus, si trova – come tutto la staff della Nazionale, come il mondo intero – ad affrontare una situazione senza precedenti che ha portato addirittura al rinvio dei Giochi Olimpici di Tokyo.

Di Iaria Leccardi

Velasco, questa situazione ha portato uno shock al mondo sportivo?

Credo che lo shock vero fino ad ora sia stato un altro, quello legato ai morti, alla malattia che ha colpito tante persone con sintomi terribili, ai rischi con cui tutti abbiamo dovuto confrontarci. Un trauma talmente forte che ha tenuto lo shock sociale in secondo piano. Ma adesso stiamo entrando nella fase in cui rimane la paura e inizia a farsi sentire il peso per la chiusura e l’isolamento. Il rischio è che si molli e non dobbiamo farlo. È nel momento critico che si vede chi sa “giocare” davvero. Se dovessi paragonare questa situazione a una prova sportiva penserei più a una maratona o a una gara di triathlon che non a una partita di pallavolo…

Lo stare chiusi in casa come prova di resistenza.

Io personalmente mi considero un privilegiato, vivo in campagna, ho una casa con il giardino, non mi manca nulla. Ma non sopporto chi fa dei ragionamenti generali senza mettersi nei panni degli altri. È facile dire che questa può essere una situazione comunque positiva, perché abbiamo tempo di fare tante cose, leggere, coltivare le nostre passioni… Sappiamo benissimo che ci sono famiglie che vivono in appartamenti piccoli, non hanno il computer, con bambini che devono seguire le lezioni a distanza ma non hanno gli strumenti adeguati. Oppure famiglie dove il marito è operaio, abituato a lavorare tante ore fuori casa, e che ora la moglie si ritrova tutto il giorno tra i piedi, tra quattro mura e due stanze. La convivenza può diventare difficile e non abbiamo tutti le stesse condizioni. Dobbiamo esserne consapevoli quando parliamo di ciò che stiamo vivendo.

Secondo lei sono passati dei messaggi troppo ottimistici?

Io ho una nipotina di cinque anni e una di tre. Loro hanno disegnato l’arcobaleno con la frase “Andrà tutto bene” e lo hanno appeso ai balconi. Penso che sia un’ottima iniziativa per bambini di quell’età. Ma a quelli un po’ più grandi – e soprattutto a noi stessi – il messaggio dovrebbe essere diverso: “Andrà tutto bene, o forse no… Andrà tutto bene, solo se saremo noi a farla andare bene”. Pensiamo che il primo giugno potremo davvero uscire e che sarà tutto finito? No, dovremo preparare i giovani, e io parlo anche dei giovani sportivi, al fatto che vivremo ancora momenti molto difficili, in cui l’aggregazione sarà progressiva, non immediata. Non sapremo quando e come effettivamente si potrà tornare ad allenarsi secondo le modalità che conosciamo. Come in ogni situazione della vita, anche da questa usciremo, ma bisogna capire a che prezzo.

Quale potrebbe essere dunque la chiave per affrontare questa fase?

Soprattutto con i giovani, non bisogna lasciarsi andare a discorsi generali, bisogna avanzare delle proposte concrete.

Il tema chiave è: come faccio a stare con gli altri, ma a distanza? Bisogna organizzarsi per provare a portare avanti delle attività comuni, insieme.

Chi ama lo sport, ad esempio, può pensare di farlo con i propri amici a distanza, anche piccole attività, un programma fisico da condividere, a una stessa ora e in un giorno fisso. Oppure leggere lo stesso libro e poi commentarlo. O ancora, ci sono delle piattaforme su internet che permettono di vedere un film in contemporanea con gli amici e commentarlo insieme. Non è certo la stessa cosa che andare al cinema, ma in questo momento è ciò che possiamo fare. Di sicuro ora non serve esortare troppo i ragazzi a guardarsi dentro, all’introspezione, lo fanno già abbastanza…

Giornata di formazione a Monterotondo, Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV

Dare attenzione alla dimensione psicologica è fondamentale per gestire la situazione.

Ne ho parlato anche con il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Gli ho detto: non servono solo medici e virologi, ma servono degli psicologi. Se con i bambini più piccoli è giusto che i genitori organizzino delle attività per stare tanto tempo insieme, agli adolescenti è necessario garantire uno spazio proprio. Tanto più adesso che siamo chiusi in casa 24 ore al giorno.

I giovani non devono sentirsi invasi, bisogna cercare per quanto possibile di garantire a tutti loro uno spazio di libertà e autonomia.

Lo sport, anche a distanza, può essere un modo per conquistarsi o portare avanti questa autonomia?

Sicuramente. Noi come Federazione abbiamo cercato di muoverci in questa direzione. Io settimanalmente tengo diverse riunioni con i tecnici e con i preparatori fisici per aggiornamento, studio, condivisione. Inizialmente abbiamo pubblicato sul nostro canale YouTube dei tutorial per tutti i giocatori, invitandoli ad allenarsi da casa. Adesso siamo passati a dei veri e propri allenamenti seguiti in diretta dai tecnici.

In che modo?

Non avendo potuto fare la classica selezione dei migliori giocatori Under 17, Under 19 e Under 21 per il lavoro estivo, abbiamo deciso di tenere dentro a questo programma tutti i giocatori della preselezione. Gli allenamenti si svolgono in gruppi da venti ragazzi, per un totale di 130. Abbiamo deciso di non lasciare fuori nessuno. Ogni allenatore tiene mezz’ora di discorso tecnico e insegnamento teorico della pallavolo, come si fa già normalmente, e poi il preparatore allena per un’ora-un’ora e mezza guardando in diretta i ragazzi, per correggerli, dopo aver dato loro tutorial e filmati da studiare. I gruppi degli Under 17 e 19 si allenano in questo momento tre volte a settimana, i più grandi tutti i giorni. I ragazzi sono entusiasti di poter portare avanti l’attività.

Anche in questo caso emerge quanto sia importante mantenere vivi dei gruppi.

Certo e anche la mia storia con la pallavolo testimonia come alla base di una passione che arriva e rimane ci sia l’importanza del gruppo.

Ce la vuole raccontare?

Prima di conoscere la pallavolo avevo praticato vari sport, il calcio, il rugby, il nuoto. Poi un giorno al club dove passavo l’estate si è presentato un allenatore di pallavolo che ci ha fatto provare. Mi è piaciuto ma soprattutto si è formato un gruppo che poi ha continuato a vedersi e giocare anche finita la stagione estiva. È diventato il mio gruppo di riferimento.

Bisogna sapere che il motivo numero uno dell’abbandono degli sport è proprio la mancanza del gruppo, anche se si tratta di uno sport individuale.

Quando la situazione non risponde alle aspettative sociali, è facile che si arrivi a un abbandono. In una seconda fase, subentra un altro meccanismo, che è quello del miglioramento individuale, riuscire ad andare sempre un passo più in là. Ovviamente nei giochi sportivi c’è anche una grande dose di divertimento, ma la volontà di migliorarsi dà una motivazione enorme a continuare.

Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV

Lei è riconosciuto da tutti come un grande “conduttore” di gruppi che ben funzionano. Quali sono le regole chiave che trasmette quando gestisce un gruppo?

Io parto dall’assunto che lo sport tende a essere inclusivo, ma ci sono alcune dinamiche da combattere. In primis non permetto ai componenti del gruppo di parlare male di un altro di loro. Questo sia tra i ragazzi sia nel mio staff. È un meccanismo negativo e che, inoltre, ci toglie delle responsabilità. In secondo luogo, non permetto alcun tipo di vessazione, neanche in nome della goliardia. Cose come il “battesimo” dei nuovi arrivati. È un’abitudine che nasce tra i gruppi dell’esercito, nei gruppi di educazione fisica legati all’ambito militare con i cadetti del primo anno. Nelle mie squadre non ho mai permesso un “battesimo”. È solo un modo per dire: tu vali meno di noi perché sei appena entrato. Non si tratta soltanto di proteggere il singolo che subisce la vessazione, ma soprattutto di non sviluppare una cultura che non ci deve appartenere.

E da parte degli allenatori, quali sono le regole d’oro per essere buoni punti di riferimento?

Primo rispettare tutti allo stesso modo, sia la stella della squadra che il giocatore più scarso. Ovviamente chi è più forte giocherà di più e questo dipende anche dal livello della squadra, dagli obiettivi e dalla fascia di età. L’importante è che l’allenatore mantenga un comportamento uguale con tutti, non deve fare l’accondiscendente con i forti e il duro con i deboli. Le vulnerabilità non sono un ostacolo al funzionamento del gruppo, anzi. Se il gruppo funziona bene di solito sono gli stessi compagni ad aiutare un ragazzo più fragile, a volte anche contro l’autorità, ossia contro noi allenatori. Questo è ottimo, quando succede.

E poi?

L’altra cosa che insegno agli allenatori è che non possono pretendere di controllare tutto. I gruppi di giovani ci accettano nei nostri ruoli di guide, nell’ordine: prima gli allenatori, poi i professori, poi – per ultimi – i genitori. Noi non dobbiamo pretendere di controllare tutto, il gruppo deve essere libero di sviluppare delle proprie dinamiche.

Una brava guida deve sapere equilibrare tra questi aspetti: dare al gruppo alcune linee e regole molto precise, ma al tempo stesso far sì che esso sviluppi le proprie dinamiche.

Di generazioni ne ha viste passare tante. È cambiato qualcosa nella gestione dei gruppi e nell’approccio con i ragazzi in questi anni?

Il mondo cambia continuamente. Lo ha sempre fatto. Ma la caratteristica di oggi è che lo fa a velocità sempre maggiore. Io non sopporto che si dica che le generazioni di una volta erano migliori di quelle di adesso o che i giovani di oggi fanno le cose e si allenano senza entusiasmo. Sono confronti ridicoli. I giovani stanno sempre al telefono? Perché, noi adulti no? A volte credo che sia necessario guardare le cose da una prospettiva diversa. Spesso sono gli adulti ad avere dei problemi di adattamento. Io da questo punto di vista sono molto dalla parte dei giovani, non si può pensare di mantenere l’entusiasmo con metodi di insegnamento obsoleti e anacronistici. Penso ad esempio ai programmi scolastici, molti dei quali sono fermi a decenni fa… I docenti, i professori, gli allenatori che sanno adattarsi ed entrare in sintonia con i ragazzi sono molto amati. E di conseguenza i loro allievi saranno entusiasti.

La sfida costante sembra essere dunque più quella degli allenatori.

I giovani da una parte vogliono fare le stesse cose dei coetanei, quindi sentirsi parte di un gruppo, dall’altra però vogliono che venga riconosciuta la propria individualità. Ed ecco l’importanza di immaginare programmi individualizzati, anche a livello sportivo. È vero che ci si allena in gruppo, ma io allenatore devo essere in grado di comprendere i problemi individuali. Non dire: “Tu non sai fare questa cosa”, ma “Tu non sai ancora fare questa cosa”. La chiave della crescita sta in questa parola: “ancora”. È un messaggio fondamentale. Inoltre, soprattutto, all’allenatore devono piacere i propri giocatori. E quanto meno i giocatori sono “fenomeni” tanto più l’allenatore dovrebbe essere contento, perché davanti a sé ha una sfida, la possibilità di imparare di più. Negli sport di squadra, bisogna stimolare molto il fatto che il primo grande traguardo è superare se stessi. Un ragazzo può anche essere il più scarso del gruppo, ma se migliora bisogna farglielo notare. Magari non è migliorato in maniera sufficiente per giocare titolare, ma è migliorato ed è questa la cosa importante.

È nella vulnerabilità che si possono individuare una sfida e un motivo di crescita, per il singolo, per il suo allenatore, per il gruppo intero.

Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV

Angela Carini

Il pugilato mi ha fatto diventare la donna che sono. I Giochi di Tokyo slittati al 2021? L’obiettivo medaglia resta lo stesso.

“Sognavo questa Olimpiade da anni e mi mancava solo un match per ottenere il pass. Ma l’emergenza coronavirus ha bloccato tutto. Dopo un primo momento di scoramento e pianto ho capito che era giusto così: la vita a volte ci presenta delle sfide enormi. La cosa migliore è accettare di fermarsi e far sì che la nostra Italia resti unita e che la salute di tutti possa essere salvaguardata. Non posso che ringraziare Dio di stare bene e sono sicura che troverò la forza per tornare a compiere i sacrifici necessari ancora più di prima. E quando tornerò sul ring scatenerò tutta la forza che ho dentro”. Angela Carini ha 21 anni, è pugile ed è una delle speranze azzurre per i prossimi Giochi Olimpici, quelli che avrebbero dovuto riportare quest’estate i cinque cerchi a Tokyo, a 56 anni dall’edizione del 1964, a 80 anni dall’edizione cancellata a causa della seconda guerra mondiale. Ma, come tutti gli atleti in preparazione per l’evento più importante del quadriennio, anche Angela ha dovuto confrontarsi con un’emergenza più grande. Eppure lei non è tipa da arrendersi: è una ragazza forte, nelle braccia e nella testa, ha ben chiaro quale sia il suo obiettivo sportivo. E così, rientrata da Londra, dopo l’interruzione del Torneo Europeo di Qualificazione Olimpica, è chiusa in isolamento e si allena a casa con il papà – il suo “eroe” – che la guarda attraverso un vetro. Per non perdere neanche un minuto, per continuare a coltivare un sogno.

di Ilaria Leccardi

Angela, sei giovanissima, compirai 22 anni a ottobre, ma ti porti dietro già tante medaglie e tanta esperienza. Come è nata la tua passione per i guantoni e il ring?

Ho iniziato con il tiro al piattello, seguendo le orme di mio fratello Antonio, e arrivando a ottimi livelli nazionali. Ma a un certo punto lui smise e passò al pugilato, anche per seguire le orme di nostro papà che in gioventù aveva praticato questo sport. Vedevo che il loro rapporto diventata sempre più intenso e questa cosa mi rendeva gelosa… Anche perché lo sono sempre stata molto di mio papà. Avevo 14 anni e un fisico da bambina, non ero certo in forma e soprattutto non sapevo niente di boxe. Eppure quando mio fratello tornava a casa dagli allenamenti lo sfidavo, volevo emularlo. Mi misi d’impegno, persi peso. E un giorno mio papà mi disse: “Forza, dai, tirami un sinistro sul palmo della mano”. Io lo feci e fu – come disse lui – un “bel cazzotto!”. Avevo deciso, volevo anch’io praticare quello sport. Mio papà mi portò in palestra, il maestro notò subito che ero portata, poco tempo tempo disputai il mio primo campionato italiano e, a nove mesi dal mio ingresso in palestra, il mio primo Campionato Europeo. Nel 2014 ho vinto il primo titolo Europeo, seguito poi da quelli nel 2015 e 2016. Sempre nel 2015 – a 17 anni – ho vinto l’oro ai Campionati del Mondo nella categoria Youth.

Una carriera rapidissima, sempre al fianco del papà…

Sì lui è il mio eroe. È un poliziotto, vittima di un incidente in servizio e costretto sulla sedia a rotelle. Sono molto legata a lui, mi ha insegnato che nella vita non bisogna mai arrendersi. E quando sono sul ring e la situazione si fa difficile, sento il suo esempio, non mi arrendo mai. Quando è rimasto paralizzato io avevo solo due anni, sono cresciuta sulle sue gambe, non mi ha mai fatto mancare niente. Non l’ho mai visto come un papà diverso dagli altri, la sedia su cui lui è seduto non ci ha mai divisi, anzi. Ancora oggi lo guardo con occhi da innamorata.

È stato anche lui che ti ha aiutata a inquadrare i tuoi sogni?

Sì, assolutamente. Fin da bambina i miei sogni sono sempre stati due. Da una parte andare alle Olimpiadi, e spero di realizzarlo presto. Dall’altra entrare in Polizia ed è stato possibile grazie allo sport, dopo la vittoria dei Mondiali del 2015, per cui ora faccio pare del Gruppo Sportivo delle Fiamme Oro. Se non ci fossi arrivata così, sono sicura che avrei seguito la strada dei concorsi.

La tua carriera sportiva è stata brillante, rapida, ma ti ha costretta anche ad affrontare momenti non semplici.

A 18 anni sono entrata nel mondo delle “grandi” della Nazionale. Nuovi confronti, nuova vita. Ma all’inizio del 2018 ho subito un grave infortunio: la rottura del legamento crociato anteriore, che mi ha costretto a subire un intervento e a saltare al mio primo Europeo nella categoria Elite (over 19, ndr). I Mondiali erano in programma nove mesi dopo e nessuno dei medici credeva che potessi riprendermi per quell’appuntamento. Ma io non ho mollato: in tre mesi ho recuperato, con il programma di fisioterapia seguito passo passo, la riabilitazione tutte le mattine in piscina, grazie come sempre all’aiuto di mio papà. A giugno sono rientrata in Nazionale e ho rivisto la luce. Ho recuperato il peso gara, mi sono rimessa in riga e sono stata convocata per i Mondiali Elite in India, a novembre. Lì però è arrivata la seconda batosta: sono stata eliminata al secondo turno. Era la prima volta che mi capitava di uscire in quel modo.

Mi ero sempre vista sul gradino più alto e mi sono trovata ad affrontare la sconfitta. Poi, anche grazie al confronto con i miei genitori, ho capito che la vera vittoria in quella fase era stata tornare sul ring dopo l’infortunio che avevo subito.

Qual è stato il cambiamento in te?

Fino a quando ti confronti con le giovani, sei abituata a trovarti davanti della ragazzine. Con il passaggio all’Elite invece hai di fronte delle vere e proprie donne, pronte al combattimento. E per risposta devi imparare ad avere un carattere forte. Lì è iniziato il mio cambiamento vero. Dopo un paio di mesi ho vinto l’argento agli Europei Under 22, l’argento europeo Elite a Madrid e a ottobre scorso, a Ulan-Udè, in Russia, anche l’argento Mondiale. Non sono ori, ma sono comunque arrivata sempre in finale, tra le migliori. Quei momenti di buio mi sono serviti a farmi crescere a farmi diventare la donna che sono adesso.

Angela Carini, la prima a destra, con le compagne di Nazionale agli Europei Under 22 del 2019

Sei indulgente con te stessa?

No, sono molto critica. Anche in allenamento, quando qualcosa non va, difficilmente mi perdono.

Quanto dedichi allo sport ogni giorno?

Mi alleno in due sessioni: due ore al mattino, dedicate alla preparazione fisica, due ore e mezzo al pomeriggio, dedicate interamente al pugilato. Mi alleno a Casoria, assieme al mio ragazzo Gianluca, a sua volta pugile e fratello di Vincenzo Picardi, bronzo Olimpico a Pechino 2008. E questo è possibile grazie alla Polizia e alle Fiamme Oro, che mi concedono di stare a casa, vicino ai miei affetti. Anche se spesso mi trasferisco ad Assisi, per allenarmi al Centro Nazionale Federale.

Che rapporto hai con i social e il mondo del web?

Sono sempre stata “molto social”, ma fino a poco tempo fa i miei profili erano privati. Ultimamente, con la crescita sportiva, li ho resi pubblici e i contatti tra i follower sono molto aumentati. Quello dei social è un mondo in cui da una parte devi stare attenta, perché non sai mai cosa ti aspetta, dall’altra ti permette di conoscere realtà e persone nuove, anche appassionati del mio sport.

Hai mai avuto esperienze spiacevoli? Hai subito attacchi di qualche tipo?

Personalmente no, però sono stata testimone – sia sui social sia nella vita reale – di situazioni di razzismo, cattiverie, gelosie. E non posso che pensare che le persone razziste siano ignoranti. Chi ancora compie atti di razzismo non ha neanche bisogno di essere descritto, è inqualificabile. Così come chi compie atti di bullismo. Una persona che diventa vittima di queste azioni non significa che sia debole.

La persona veramente debole è colei che compie attacchi di bullismo per sentirsi forte, perché non ha altre forme per emergere.

Angela Carini insignita del premio Giuliano Gemma 2020

A occhi inesperti, il pugilato può sembrare uno sport violento…

Sì, ma non è così. È uno sport che ti insegna ad avere rispetto per il tuo avversario, a stare in mezzo ad altre persone. Il combattimento è fatto di regole, della capacità di amare se stessi e il prossimo. Il pugilato – è vero – nella vita può essere un’arma, ma solo di difesa. Non può e non deve diventare un abuso. Come ogni sport, può invece diventare un veicolo per sfogare la rabbia, il dolore.

Essere donna in un ambiente come quello pugilistico è difficile?

No, almeno dal mio punto di vista. È vero che, soprattutto all’inizio, mi sono trovata ad allenarmi con quasi solo dei maschi, tra cui mio fratello, che ha sempre insegnato a tutti – per prima a me – che le donne vanno rispettate in tutto e per tutto. Magari qualcuna al mio posto avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo, ma io sono sempre stata rispettata e, da qualche ragazzo, anche temuta sul ring. Non è un ambiente chiuso alle donne, anche se le ragazze che praticano il pugilato non sono ancora moltissime.

Veniamo alla situazione attuale, con il blocco di tutte le attività a causa dell’emergenza coronavirus e il rinvio dei Giochi Olimpici. Cosa hai vissuto in queste ultime settimane, passando dal sogno di Tokyo all’obbligo di doversi mettere in attesa?

Aspettavo questo quadriennio da dieci anni, visto che andare alle Olimpiadi era uno dei miei sogni di bambina. E per ottenere il pass per Tokyo mi mancava solo un match. Siamo partiti per Londra, per il Torneo Europeo di Qualificazione, in un momento in cui sapevamo che già altri sport erano fermi per l’emergenza coronavirus. La situazione non era semplice, i nostri genitori erano preoccupati. Il Torneo è cominciato a porte chiuse, noi abbiamo iniziato a combattere, decisi verso i nostri obiettivi. Ma la sera prima del mio match si è tenuta una riunione in cui è stata decisa la sospensione dell’evento. La prima reazione è stata scoppiare in lacrime. Siamo rientrati a casa e ci siamo messi in isolamento. Poi, pochi giorni dopo, è stata ufficializzata la notizia dello spostamento dei Giochi Olimpici e ho capito che era giusto così. Se deve essere un male per me, per gli atleti e per tutti coloro che partecipano all’organizzazione dei Giochi, è giusto fermare tutto. Certo, per noi che attendiamo questo evento da almeno quattro anni è difficile ora pensare come riprogrammare tutta la preparazione. L’avvicinamento ai Giochi per ogni sportivo è fatto di sacrifici enormi, lunghi periodi passati fuori casa, dedizione costante. Ma la vita a volte ti presenta delle sfide più grandi e la cosa migliore è accettare di fermarsi e ringraziare Dio che stiamo bene, sperando che ci dia la forza di compiere di nuovo questi sacrifici, ancora più forti di prima.

Come passi questi giorni in casa? La Federazione Pugilistica Italiana (FPI) la lanciato la campagna social #InFormaConLaBoxe a cui tu hai partecipato.

Rientrata da Londra ho scelto l’isolamento volontario, come tutte le persone che tornano da un Paese straniero in questa situazione. Ho la fortuna di avere un grande terrazzo in cui mi posso allenare. E vicino a me, ma dall’altra parte di un vetro perché non possiamo entrare in contatto, c’è mio papà che mi segue costantemente. Noi atleti non possiamo far altro che allenarci da soli, dare l’esempio e “fare i bravi”, come tutto il resto della popolazione, ciascuno a casa propria ma uniti a distanza. Dobbiamo essere forti anche di testa, non mollare e continuare a inseguire i nostri sogni.

Valentina Quaranta

Credere in un sogno, al di là di ogni confine

Che sotto ai piedi ci sia un prato, curato e rasato al punto giusto, oppure una distesa di terra battuta, di quel color ocra che illumina solo certe parti del globo. Una divisa o un numero sulla schiena, oppure un panno avvolto a coprire a malapena mezza gamba. L’importante è recuperare almeno qualche pallina, va bene anche vecchia e logora, un bastone per colpirla, e iniziare a correre. La storia di Valentina Quaranta per l’hockey su prato inizia quand’era bambina. A Bra, la città del destino, dove questo sport ha una tradizione di lunga data, sia in campo maschile che femminile. La città dove gli allenatori portano mazze e palline a scuola e, se hai del talento, la scalata ai vertici nazionali può diventare realtà. Ma quello di Valentina per l’hockey è un amore andato oltre ogni confine. Confine fisico o dell’immaginazione, arrivando su quella terra battuta e tra le mani dei bambini, delle donne, diventando strumento di unione ed emancipazione.

Di Ilaria Leccardi

Valentina, l’hockey ti ha presa sotto braccio quando eri bambina e non ti ha ancora lasciata…

L’ho conosciuto alle elementari, grazie ad alcuni allenatori che venivano a scuola per insegnarlo. Mi è piaciuto, è stato amore a prima vista. E ho continuato affrontando tutte le categorie di età, arrivando in Serie A nella squadra maggiore quando frequentavo la terza media, e poi approdando anche in Nazionale, dove sono stata titolare diversi anni, fino al 2010. Con la Lorenzoni – la squadra femminile di Bra – ho vinto diversi scudetti, l’ultimo poche settimane fa, nel campionato indoor. Io ero in rosa anche se ormai passo più tempo all’estero che in Italia per lavoro. E comunque sono “vecchia” ormai e non più tanto in forma, per cui c’è gente più brava di me… ma sono riuscita a giocare qualche partita e a godermi il successo con le mie compagne.

Nel 2010 lasciavi la Nazionale, anche perché ti aspettava un’importante esperienza all’estero.

Dopo la laurea in Psicologia e l’esame di Stato mi sono presa un anno per svolgere il Servizio Civile, optando per l’estero. Ho scelto l’opportunità che meglio si combinava con le mie attitudini e competenze ed era quella offerta dal COPE (Cooperazione Paesi Emergenti), che cercava una figura con profilo socio-psico-pedagogico che supportasse un progetto sull’educazione dei bambini in età prescolare in Tanzania. Sono partita nel gennaio 2011 e sono rimasta tutto l’anno, in una zona del sud abbastanza sperduta, a sostegno di questo e di un altro progetto, dedicato all’empowerment economico delle donne, nel settore dell’artigianato tessile.

Ma poco prima di ripartire è successo qualcosa di assolutamente inaspettato…

Nell’ultima settimana mi sono trasferita, come gli altri volontari del Servizio Civile, a Dar es Salaam, la città più importante del Paese. Per un weekend con altri ragazzi avevo in programma di andare a Bagamoyo, meta turistica della zona. Eravamo su un bus, fermi nel traffico, come spesso succede nella grande città, quando a un certo punto il ragazzo che era con me mi disse: “Guarda! Stanno giocando a hockey!” Io non ci volevo credere, pensavo mi prendesse in giro. Mi sono girata e ho visto un gruppo di ragazzi che si stava allenando su un campo sterrato. Il mio amico mi ha convinta a scendere dal bus e ad andare a incontrarli. Da lì è partito tutto. Il gruppo era in realtà la squadra dell’esercito nazionale, allenata da Mnonda Magani. Mi sono presentata. I ragazzi e l’allenatore mi hanno accolta molto calorosamente, mi hanno prestato un paio di scarpe e una mazza, mi hanno fatto allenare con loro. Alla fine, l’allenatore mi disse: “Tra pochi giorni giochiamo in campionato, vieni!” E io: “Certo, sarebbe bello venire a vedervi giocare”. La sua risposta fu chiara: “No! Tu vieni e giochi con noi!”. Lì per lì non mi spiegavo come fosse possibile che una donna, per lo più straniera, potesse giocare in un campionato maschile, entrando in squadra così, da un giorno all’altro. Ma tant’è. La domenica mi presentai e giocai con loro.

Ma poco prima di ripartire è successo qualcosa di assolutamente inaspettato…

Nelle ultime settimane mi sono trasferita, come gli altri volontari del Servizio Civile, nella capitale Dar es Salaam. Per un weekend con altri ragazzi avevo in programma di andare a Bagamoyo, meta turistica della zona. Eravamo su un bus, fermi nel traffico, come spesso succede nella grande città, quando a un certo punto il ragazzo che era con me mi disse: “Guarda! Stanno giocando a hockey!” Io non ci volevo credere, mi sono girata e ho visto un gruppo di ragazzi che si stava allenando su un campo sterrato. Il mio amico mi ha convinta a scendere dal bus e ad andare a incontrarli. Da lì è partito tutto. Il gruppo era in realtà la squadra dell’esercito nazionale, allenata da Mnonda Magani. Mi sono presentata, mi hanno prestato un paio di scarpe e una mazza, mi hanno fatto allenare con loro. Alla fine, l’allenatore mi disse: “Tra pochi giorni giochiamo in campionato, vieni!” E io: “Certo, sarebbe bello venire a vedervi giocare”. La sua risposta fu chiara: “No! Tu vieni e giochi con noi!”. Lì per lì non mi spiegavo come fosse possibile che una donna potesse giocare in un campionato maschile, tra l’altro entrando in squadra così, da un giorno all’altro. Ma tant’è. La domenica mi presentai e giocai con loro.

Pochi giorni dopo sei tornata in Italia. Sei rimasta in contatto con la Tanzania?

Con Magan [come Valentina chiama Mnonda Magani, ndr] era stata intesa fin dal primo momento. Non potevamo perderci. Siamo rimasti in contatto, lui mi ha illustrato la situazione sportiva del Paese, le difficoltà di lavorare con i giovani e le donne, l’assenza di attività nelle scuole. Tornata in Italia ho ripreso a lavorare, ma il cuore era là. Iniziai una piccola campagna per raccogliere fondi e materiale sportivo da portare in Tanzania e quando il COPE mi offrì un’opportunità di un lavoro con base a Dar es Salaam, partii senza pensarci un attimo. Il contratto era di un anno, ma finii per restarci sette anni.

Sette anni in cui, oltre al tuo lavoro, hai creato un vero e proprio movimento legato all’hockey…

Nel febbraio 2013 mi imbarcai con due borse, una con i miei effetti personali, l’altra che conteneva solo bastoni, palle e materiale per giocare a hockey. Iniziai quasi subito, con l’aiuto di Magan, a tenere i primi allenamenti. Dopo appena un mese mi convocò Kaushik Doshi, segretario della Federazione di Hockey Tanzaniana, e mi disse: “Vorremmo mettere in piedi una squadra nazionale femminile, per partecipare all’African Cup of Nation, il campionato continentale per Nazioni”.

Non ci potevo credere… Accettai con entusiasmo, anche se sul momento non mi rendevo bene conto di cosa avrebbe comportato diventare allenatrice della squadra nazionale femminile della Tanzania. Anche perché non c’erano soldi, non c’erano campi di allenamento e… non c’erano nemmeno le giocatrici!

Come avete fatto?

Con Magan sono andata a contattare le ragazze con cui cinque o sei anni prima la Federazione aveva lanciato un primo tentativo di squadra nazionale, poi arenato. Un po’ erano militari, un po’ civili. Non fu semplice, ma nel giro di qualche settimana riuscimmo a mettere insieme 13/14 ragazze. Avevano una preparazione sportiva di base, ma facevano fatica anche solo a trovare il tempo per allenarsi.Molte non avevano nemmeno i soldi per prendere il bus, la maggior parte era sposata con figli… Ci vedevamo dalle 6 alle 9 del mattino, un po’ per il caldo, un po’ perché tutte (io compresa) dovevamo poi andare a lavorare. Ciononostante siamo riuscite a creare una squadra, siamo andate all’estero, giocando in African Cup, anche se la prima trasferta è stata sfortunata perché arrivammo a Nairobi in Kenya proprio il giorno dell’attentato al centro commerciale Westgate e la competizione venne annullata… Poi siamo state in Uganda e Zimbabwe per i campionati per club, in Sudafrica nel 2015 per tentare la qualificazione per i Giochi di Rio 2016. E nel 2017 anche in Namibia con l’Under 21 maschile e femminile, un viaggio lunghissimo, ma un’esperienza molto gratificante.

In questi anni il tuo intervento sul mondo dell’hockey locale è andato ben al di là delle competizioni e delle partite…

Diciamo di sì, perché parallelamente, sempre assieme ai miei collaboratori locali, ho lavorato per portare questo sport nelle scuole e creare un movimento capace di andare avanti con le proprie gambe. Abbiamo formato alcune delle ragazze della Nazionale come allenatrici in modo che potessero essere loro in prima persona a insegnare nelle scuole e far conoscere l’hockey.

Avete ricevuto aiuti in questa impresa?

Abbiamo sempre collaborato con la Federazione Nazionale della Tanzania, abbiamo avuto un sostegno importante dal mondo italiano dell’hockey, ma anche dall’Olanda, dove il mio sport è molto popolare. In particolare nel 2014 è venuta in Tanzania una squadra olandese per uno scambio interculturale attraverso lo sport. È nato un forte legame con loro che ci ha poi portati a dar vita a una Fondazione, la Twende Hockey, con lo scopo di raccogliere fondi e sostenere lo sviluppo di questo sport nelle scuole e tra i giovani. Il presidente è Nick Isbouts, amico e tecnico preparatissimo.

E i risultati si sono visti?

Abbiamo una decina di ragazzi e ragazze che lavorano come allenatori. E ben 1.500 ragazzini in quattro diverse Regioni del Paese che giocano a hockey. Il tutto coordinato da Alice Ongoro, allenatrice kenyota che vive in Tanzania da anni. Grazie a questo sistema abbiamo inaugurato anche quattro centri di allenamento dedicati all’hockey, in diverse zone di Dar es Salaam, per far sì che i ragazzi possano allenarsi anche dopo l’orario scolastico. Non sono come i campi che conosciamo qui in Europa, anzi, a dire il vero sono abbastanza “scassati”, ma è già un inizio.

Cosa può insegnare uno sport come il tuo in queste situazioni?

Come ogni gioco di squadra, aiuta a capire che bisogna lavorare tutti verso lo stesso obiettivo, mettersi in gioco e sacrificarsi per puntare al risultato comune.

Nel gioco le differenze sociali, culturali o economiche vengono messe da parte, per creare un’identità nuova, che è quella di gruppo.

Tu non hai abbandonato l’hockey giocato, qual è la differenza di ritrovarsi sul campo qua in Italia, con la Lorenzoni, e là in Tanzania?

Quando gioco in Italia, la sensazione è la stessa di quando avevo dieci anni, quando iniziavo a giocare le prime partite, come se tornassi ragazzina, anche se gli acciacchi fisici si fanno sentire… In Tanzania il mio ruolo è diverso, così come le sensazioni. Quando sei tu l’allenatrice tutte le emozioni sono amplificate, sia la gioia che la rabbia. La gioia di vedere la tua squadra esultare per un gol fatto, la gioia di vedere che i tuoi giocatori o le tue giocatrici si divertono, la gioia di vedere dei miglioramenti nel livello tecnico dopo ore di allenamento. Dall’altra la rabbia per ogni gol subito o mancato, o perché durante la partita sei fuori dal campo e ti senti “impotente” o non puoi sviluppare a pieno le potenzialità dei giocatori perché purtroppo ci sono sempre delle barriere sociali, economiche e culturali difficili da superare.

Il tuo intervento a livello sportivo ha avuto un ruolo prima di tutto sociale. Nei confronti dei bambini e dei giovani in generale. Ma soprattutto nei confronti delle donne…

Sì, non è così scontato in un Paese come la Tanzania far sì che le donne intraprendano un’attività sportiva. Sono contesti in cui, nonostante siano stati fatti grandi passi in avanti nell’emancipazione femminile, il ruolo della donna ancora oggi è socialmente emarginato, soprattutto nella presa delle decisioni. Le ragazze che si sono unite al gruppo della Nazionale e poi sono diventate allenatrici hanno vissuto un cambiamento nella percezione di sé, nell’autostima. Per la prima volta hanno sperimentato qualcosa di nuovo rispetto al percorso di vita che spesso per molte è già segnato. Hanno avuto l’opportunità di viaggiare, vedere posti nuovi, conoscere persone nuove, mettersi alla prova. Io ho cercato di spronarle, di incoraggiarle, uscire dalla passività che spesso la società patriarcale impone loro.

Da un paio di anni hai lasciato la Tanzania per seguire nuovi percorsi. Un master in Management of Development a Torino e un progetto da seguire in Sud Sudan. Pensi di portare l’hockey anche lì?

In Sud Sudan sono stata impegnata in progetti di cooperazione sempre legati all’empowerment della donna. A breve ritornerò per lavorare con una ONG di Torino, (CCM – Comitato Collaborazione Medica) che si occupa di salute materno-infantile e malnutrizione come coordinatrice dei progetti. Il Sud Sudan una squadra di hockey ancora non ce l’ha… Ma rispetto alla Tanzania le condizioni sono ancora più difficili. Tuttavia, non si sa mai, anche perché lo sport e la passione sportiva non hanno confini!