Nulla come lo sport ti fa crescere e conoscere le tue potenzialità
Se è vero che dopo la pioggia e la tempesta torna sempre il sereno, se è vero che anche nelle notti più buie arrivano le stelle a illuminare una porzione di cielo, è anche vero che ci sono luoghi – e persone – in cui la luce non manca mai. Anzi, la si vede brillare a distanza. E quella luce non fa che trasmettere calore. Assunta Legnante è un’icona dello sport azzurro. Tra le migliori interpreti del getto del peso a livello internazionale per tante stagioni, un oro e un argento europei, un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo, una decina di anni fa ha dovuto fare i conti con un problema che si portava dietro dalla nascita, un glaucoma che l’ha condotta alla cecità totale. Ed è così che un giorno è arrivato il buio? No, perché Assunta è una di quelle persone in cui la luce non si spegne, anzi brilla di continuo, e che ha proseguito sulla sua strada affrontando la realtà, senza rimorsi, e con un sogno che l’ha guidata oltre il limite. Oggi è due volte campionessa paralimpica, primatista e pluricampionessa mondiale, capitana delle spedizioni azzurre, amatissima dai fan sul campo e sui social. Un esempio per tutto il mondo dello sport italiano, ma non solo.
Partiamo guardando al passato. Com’è nato in Assunta Legnante l’amore per l’atletica e una disciplina così particolare come il getto del peso?
All’atletica mi sono avvicinata 15enne, a scuola, grazie ai vecchi Giochi della Gioventù, un bellissimo veicolo per avvicinare i ragazzi al mondo sportivo. Fino ad allora praticavo la pallavolo: ero già molto alta, avevo un bel futuro davanti, ma nella mia zona, Napoli, non c’erano squadre di buon livello che mi potessero offrire un futuro brillante. A scuola iniziai a sperimentare diverse discipline, corsa, salti, fino a quando mi misero in mano un peso e i professori notarono che ero portata. Nel giro di poco tempo feci molti progressi e trovai una società di Napoli dove allenarmi in maniera continuativa. L’atletica mi aveva aperto le porte di un futuro straordinario.
Forza, esplosività. Tu sei alta quasi un metro e 90 e hai una notevole potenza fisica. Ma il getto del peso prevede soprattutto una grande tecnica…
La maggior parte delle persone pensa che la mia disciplina si riduca al prendere in mano una palla di ferro e lanciarla più forte possibile. Ma non è così, è tutto un equilibrio di forza, velocità, agilità, si lancia molto anche di gambe, serve tecnica. Un errore nel gesto può portarti a perdere mezzo metro sulla lunghezza del lancio.
Questione di attimi e concentrazione. E poi quell’urlo una volta che il peso si stacca dalla mano. Lo capisci subito quando un lancio è andato bene?
Io sì… L’urlo del lancio ha due sensi. Il primo è liberatorio, perché il gesto lo si compie in apnea, senza respirare, quindi liberi l’aria appena finisci. L’altro è perché quando ti rendi conto che il lancio è uscito bene e hai sentito tutte le sensazioni buone, esplodi di gioia.
La tua carriera è stata fin da subito un crescendo. Medaglie, record italiani, Giochi Olimpici. Poi cos’è successo?
Ho gareggiato per tanti anni con i normodotati, ho vinto medaglie agli Europei indoor, ai Giochi del Mediterraneo, ho avuto una carriera importante. Ma il sogno è sempre stato quello Olimpico. Nel 2004, nonostante avessi strappato il pass per Atene, il medico oculista del CONI mi fermò a causa di un problema oculare congenito, per cui – mi disse – rischiavo di rimanere cieca. Quattro anni dopo, però, fui io a non volermi fermare. Sapevo che il problema persisteva e continuare a quei livelli avrebbe comportato un rischio ancora maggiore. Ma decisi di affrontarlo, pur di vivere l’esperienza a cinque cerchi. Diciamo che sono andata incontro al buio di mia spontanea volontà. Volevo arrivare a quella gara, altrimenti non mi sarei sentita un’atleta realizzata. Ci sono riuscita e dopo due anni ho smesso, perché poi la malattia si è fatta sentire concretamente. Nel 2009 ho affrontato il mio ultimo anno da atleta normodotata, vincendo l’altro l’argento ai Giochi del Mediterraneo di Pescara, e il campo visivo iniziava a restringersi, me ne accorgevo nelle cose di tutti i giorni. Anche quando dovevo riprendere il peso dopo il lancio, facevo fatica a trovare l’attrezzo. Poi i problemi sono aumentati. Mi è caduta la retina, ho affrontato visite e interventi e con il passare del tempo la vista si è spenta.
Come hai vissuto questa situazione?
In realtà devo ancora realizzare, anche se sono passati diversi anni. Non ne ho avuto il tempo. Ho avuto la certezza di essere diventata cieca totale a marzo 2012. Ma dopo appena un mese ci fu chi nell’ambiente dell’atletica mi propose: Assunta, cosa ne dici di partecipare alle Paralimpiadi di Londra? E io: Siete pazzi? Non conoscevo nulla del mondo paralimpico e per me era impossibile immaginare che una persona non vedente potesse partecipare a una gara di getto del peso. Conoscevo i casi di persone amputate che correvano, o di chi si faceva accompagnare dalla guida, ma poco di più. Allora ne parlai con Nadia Checchini, tecnica che ancora oggi mi fa da guida in Nazionale, le feci una domanda per avere le prime informazioni. E poi, la mia seconda domanda è stata: quant’è il record del mondo? Un mese dopo, il 13 maggio, ho disputato la mia prima gara paralimpica a Torino, il campionato italiano, con l’obiettivo di realizzare la misura per ottenere il pass per Londra: feci 13,22 metri, pass e record del mondo superato di oltre 2 metri. Da allora non ho fatto altro che continuare ad allenarmi. Purtroppo quell’anno, a giugno, mancò mia madre, e poi poco dopo partii per le Paralimpiadi… E fu subito oro. La mia vita non si è mai fermata.
Cosa è cambiato dal punto di vista sportivo e delle sensazioni in pedana di gara?
Per me nulla, se non nel momento in cui mi accompagnano in pedana. Il momento del lancio è pura concentrazione. Sono sola con me stessa e le mie sensazioni.
E nella vita di tutti i giorni?
Sono sempre stata abituata a essere autonoma. Andai via di casa a 18 anni, trasferendomi ad Ascoli Piceno per allenarmi, subito dopo il diploma. Ho viaggiato tanto grazie all’atletica, ho conosciuto l’Italia e il mondo. E ho voluto anche in questa situazione mantenere la mia autonomia. Certo, però, ci sono cose che da sola non riesco più a fare come prima: la spesa da sola, una passeggiata. E allora sapete cosa faccio?
Uso la scusa di non avere né un bastone né un cane guida per coinvolgere altre persone, per creare momenti di socialità, per portare coloro che la vista ce l’hanno a vivere la mia vita, a comprendere le difficoltà di una persona non vedente.
Hai quasi 42 anni, hai ancora voglia di allenarti e puntare in alto?
Il mio obiettivo immediato ora è Tokyo 2020. Le difficoltà della vita agonistica di alto livello ci sono, l’età avanza, i dolori aumentano. Lo sport fa bene, ma quando si gareggia ad alti livelli per anni, allenandosi 12 o 13 volte a settimana, i problemini emergono per forza, la schiena, le articolazioni. Il sogno? Diciamo che nella mia vita non sono mai stata in America… e festeggiare i 50 anni a Los Angeles 2028 potrebbe essere un bel traguardo ambizioso, ma non impossibile. Fino a quando arrivi sul gradino più alto del podio gli stimoli ci sono.
Quanto è aumentata in questi anni l’attenzione al mondo paralimpico?
L’attenzione c’è quando arrivano le medaglie. I tifosi si riconoscono nei propri campioni, ne condividono la storia, i successi fanno appassionare tante persone. E il movimento italiano paralimpico è molto cresciuto, cercando di avvicinarsi sempre di più allo sport olimpico, con una maggiore professionalità e ciclicità negli allenamenti.
Tu però non ti accontenti mai e sei tornata anche a gareggiare nel circuito non paralimpico.
Sì, ogni anno faccio le mie due o tre gare con le normodotate e le mie soddisfazioni me le tolgo… E poi ho allargato un po’ le attività in ambito paralimpico. Dal 2012 gareggio anche nel lancio del disco, benché rispetto al peso sia una disciplina differente. Per me ormai lanciare il peso è un gesto meccanico, per cui il mio cervello ha un automatismo assodato. Imparare a lanciare il disco non vedendo è stato molto difficile.
Eppure anche qui ti sei tolta delle soddisfazioni perché agli ultimi Mondiali di Dubai oltre all’oro nel peso è arrivato quello nel lancio del disco con record europeo. Con una mascherina particolare…
Sì, dopo aver usato per un periodo la mascherina di Diabolik, ho deciso di far scegliere sui social ai miei tifosi la nuova mascherina per i Mondiali… E loro hanno scelto quella dell’Uomo Tigre!
Questa è l’anima buona dei social. Se spesso rischiano di diventare terreno di astio e aggressività, possono anche essere un veicolo positivo di coinvolgimento.
Assolutamente sì. Io con i social ho un ottimo rapporto. Non sono una fissata, ma gestisco il mio profilo e ho una grande risposta dai miei fan che cerco di coinvolgere il più possibile. Per una persona che mi segue vedermi vincere due medaglie mondiali indossando una mascherina che lei stessa ha contribuito a scegliere penso sia una bella soddisfazione. È un modo per sentirsi vicini, fare parte di una comunità, contribuire con un piccolo gesto di sostegno a un successo sportivo in cui tutti si possono riconoscere.
Hai mai vissuto invece episodi spiacevoli?
In realtà no, né sui social né quando ero ragazzina e – lo dico ora con certezza – per fortuna allora Facebook e i telefonini ancora non c’erano. Sono sempre stata una ragazza isolata, un po’ sulle mie. Ed è grazie allo sport che sono fiorita e ho imparato ad aprirmi.
Cosa può insegnare lo sport da questo punto di vista?
Io consiglio a tutti i ragazzi di fare attività sportiva, non per puntare a una vittoria o a una medaglia, perché lo sport ti fa crescere. Io quando ero piccola avevo vergogna di tutto, vivevo le interrogazioni tremando, non avevo sicurezza in me stessa.
Lo sport ti permette di conoscere gli altri e confrontarti con loro, con il mondo, sentire gli accenti delle diverse regioni italiane. Se ti va bene inizi a viaggiare e spostarti, entri in contatto con qualcosa al di fuori della tua stretta cerchia. E questo ti aiuta a rafforzare la tua autostima, ti fa riconoscere nell’altro. Ti dà la possibilità di conoscere i tuoi mezzi e le tue potenzialità, di metterle in marcia. E se non stiamo bene con noi stessi non possiamo pensare di stare bene con gli altri.
Se dovesse leggere questa intervista un ragazzo e una ragazza che ha subito episodi di bullismo, che consiglio daresti?
Prima di tutto di non restare in silenzio e, se ci riesce, di parlarne con i genitori, con i professori se la cosa è successa a scuola, o anche solo con un amico. La forza va trovata in sé, ma anche nell’aiuto degli altri. La cattiverie vanno fatte scivolare addosso anche se, il più delle volte, non è semplice. Purtroppo chi commette atti di bullismo è perché spesso si porta dietro qualche ferita che poi riversa sugli altri. Dovremmo tutti tornare a parlarci, trovare un equilibrio nelle nostre capacità e cercare di inseguire i nostri sogni.