Assist, la lunga battaglia per i diritti delle atlete

L’Italia è un Paese per sportive? Dovrebbe essere scontato dire di sì nel 2021, ma purtroppo ancora troppo grande è il divario tra uomini e donne in tutti gli ambiti dello sport italiano. Se il numero di atleti maschi è maggiore, con una differenza che tuttavia si sta assottigliando, il gap è soprattutto nei ruoli dirigenziali e nel trattamento che alle atlete viene riservato dal mondo sportivo rispetto ai colleghi uomini. Compensi ridicoli, montepremi inferiori, assegnazione delle strutture sportive non sempre paritaria, per non parlare della narrazione che ancora oggi evidenzia la difficoltà di raccontare in modo corretto e con i termini giusti l’universo sportivo femminile.

Eppure negli ultimi decenni tanti passi sono stati compiuti. Ed è soprattutto grazie a chi si è battuta perché qualcosa cambiasse. Luisa Rizzitelli è una pallavolista (mai dire “è stata”, perché non si smette mai di essere sportive) che ha giocato come professionista per 14 anni, diventando testimone sulla propria pelle di tutte le discriminazioni che si potevano vivere sul campo e fuori. E ha deciso che non poteva rimanere in silenzio. E così, nel marzo del 2000, assieme a un gruppo di amiche e colleghe, ha fondato Assist – Associazione Nazionale Atlete, che da allora si è battuta in tutti gli ambiti e i livelli sportivi per ribaltare una situazione inaccettabile. Oggi Assist è una realtà consolidata, interpellata nei più importanti tavoli di lavoro a livello nazionale, ed è stata promotrice nelle ultime settimane di una grande novità, la Carta dei valori per lo sport femminile, approvata dal Comune di Bologna. Un documento importante, volto a dettare le linee guida fondamentali per rendere lo sport veramente paritario.

Di Ilaria Leccardi

Rizzitelli, iniziamo proprio da qui. Qual è il valore dei 14 articoli contenuti nella Carta firmata dal Comune di Bologna?

Da tempo avevamo in mente di stilare una Carta che potesse dare indicazioni pratiche alle istituzioni e alle amministrazioni, per come non diventare complici inconsapevoli di alcune discriminazioni. Abbiamo dunque pensato di mettere nero su bianco le azioni che un Comune dovrebbe mettere in pratica e gli aspetti a cui dovrebbe fare attenzione. Per me si tratta di un piccolo atto d’amore nei confronti dell’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale nessuno deve essere discriminato.

Cosa prevede la Carta sul piano pratico?

Luisa Rizzitelli

Mette in campo diversi strumenti per affermare la parità di genere e per arrivare a concretizzare il compito di trattare nella stessa maniera le Associazioni sportive che sono attive in ambito femminile rispetto a quelle che lavorano in ambito maschile. Il Comune si impegna a dotarsi di un sistema di rilevazione dati sulla partecipazione femminile alla pratica sportiva in città (Art. 5). Inoltre, si impegna a redigere bandi per la concessione di contributi e l’assegnazione d’uso di impianti sportivi, avendo cura di valutare, nell’attribuzione del punteggio, anche l’esperienza del soggetto richiedente in tema di antidiscriminazione e attenzione al genere e quindi le azioni concrete messe in pratica dalle singole realtà in questa direzione (Art. 9). Sappiamo che ancora oggi spesso le donne, nella scala di utilizzo degli impianti sportivi, sono le ultime a essere tenute in considerazione. Ne è un esempio il calcio, dove, nell’assegnazione degli stadi e dei campi, le squadre di Serie A femminili vengono messe dopo i pulcini di una qualsiasi squadra maschile… E ancora, il Comune si impegna a non concedere contributi economici o patrocini a organizzatori di eventi privati o pubblici che non abbiano pari condizioni di accesso e montepremi uguali per uomini e donne (Art. 10). Non ci siamo inventate nulla, sono principi semplici, ma concreti, per riuscire a incidere realmente su un tessuto sociale.

Tessuto che comunque si è rivelato molto ricettivo…

Sì, Bologna è una città che da questo punto di vista è molto sensibile. È una delle città dove Assist ha più socie e la cui amministrazione si è rivelata molto interessata e pronta a lavorare con noi. Devo ringraziare per questo l’assessora Susanna Zaccaria [con deleghe a Educazione, Scuola, Pari opportunità e differenze di genere, ndr] e l’assessore allo Sport Matteo Lepore. Abbiamo trovato da subito grande disponibilità e intuizione. L’amministrazione ha individuato nella Carta uno strumento importante da condividere con tutte le Asd della Città Metropolitana.

Ci sono altri Comuni pronti a recepirla sul territorio?

Abbiamo avuto interessamenti dalla città di Trento e da alcune città della Calabria. Stiamo cercando di promuoverla a Roma, a Milano, Torino. Speriamo che siano in tanti ad aderire.

Ma in generale, quanto è ancora discriminante verso le donne il mondo dello sport?

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Purtroppo molto, a livello micro e ai livelli più alti. E questo anche perché è un mondo ancora quasi completamente gestito e diretto da uomini, oltretutto uomini di una certa età. Il ricambio giovanile e di genere nello sport non è ancora avvenuto. Anche se nella vita quotidiana sportiva tra atleti e atlete non si percepisce molta differenza di genere, nella gestione dei fondi e degli spazi, emerge ancora una cultura fortemente patriarcale che penalizza le donne. Ci sono ancora divari di investimenti, differenze di premi, borse di studio, montepremi. Noi da anni ci battiamo affinché i podi di una disciplina in ambito maschile e femminile vengano trattati nella stessa maniera.

Per quel che riguarda la pratica sportiva, i problemi sono differenti?

Diciamo che, se tra atleti e atlete le differenze si sentono poco, tuttavia ci sono ancora alcune dinamiche da scardinare. Come Assist abbiamo lanciato un progetto europeo dal titolo Fair Coaching, mirato ad abbattere i comportamenti machisti e impropri che ancora ci sono nella cultura dell’allenare. Il mito che l’allenatore duro e cattivo sia bravo è una stupidaggine.

Essere autorevole non vuol dire essere autoritario, per questo bisognerebbe lavorare maggiormente per un cambio culturale importante, che metta in risalto altri aspetti al fianco della bravura tecnica, per esempio l’empatia e l’attenzione alla dimensione psicologica dell’atleta.

Per tornare al cambio di prospettiva soprattutto in ambito dirigenziale. Assist negli ultimi mesi è scesa in prima linea per sostenere la candidatura di Antonella Bellutti alla presidenza del CONI. Due volte oro olimpico nel ciclismo su pista e ma anche olimpica di bob, è la prima donna a tentare la scalata al vertice dello sport azzurro. Cosa rappresenta questo percorso?

La candidatura di Antonella Bellutti si sta rivelando un percorso entusiasmante. Lei è una persona coraggiosa, che non ha nessuna resistenza o preoccupazione nel dire ciò che pensa. E la sua proposta va nella stessa direzione in cui da ventuno anni Assist lavora. Per noi è straordinario vedere che una donna del suo calibro, Commendatrice della Repubblica, stimata in tutto il mondo per il suo valore, porta avanti da candidata presidente del CONI tutti quei temi su cui noi come Associazione atlete abbiamo puntato da anni in assoluta solitudine. Abbiamo dovuto combattere, per tanto tempo nessuno ci ha dato credito, abbiamo affrontato l’ostruzionismo, siamo state ridicolizzate. E vedere che oggi i nostri temi sono gli stessi del programma della candidata alla presidenza del CONI è importante.

Tuttavia, alle elezioni in programma il prossimo 13 maggio, non sarà semplice vedersela con il presidente uscente Giovanni Malagò. Quali sono i riscontri che avete rilevato per ora?

Abbiamo ricevuto tantissimi contatti da responsabili di Asd, tecnici, atleti, che chiedono di partecipare al percorso che Antonella sta conducendo. Diciamo che la partecipazione è fortissima. Io credo tuttavia che i grandi elettori (74 in tutto, tra cui 44 presidenti federali tutti uomini! ndr), non saranno chiamati a fare una scelta tra due persone, Bellutti e Malagò, tra le quali c’è una grande stima reciproca, ma tra due modi diversi di gestire lo sport italiano e immaginare il suo futuro.

L’ultimo anno è stato importante per il mondo istituzionale sportivo, principalmente per il dibattito sulla Riforma dello sport. Assist è stata anche protagonista nei lavori delle commissioni parlamentari. Una Riforma – ancora da approvare – che ha toccato vari aspetti, ma che ancora non vi soddisfa. Perché?

La nostra critica va soprattutto nella direzione del mancato riconoscimento dei diritti elementari a chi fa dello sport il proprio lavoro. La Riforma aggiunge delle tipologie di inquadramento lavorativo, autonomo, subordinato, occasionale, ma questo non cambia nulla, perché viene lasciata al datore di lavoro la decisione su come inquadrare l’atleta. È stato un timido tentativo, ma per noi del tutto insufficiente. Pensiamo invece che sia necessario partire dal fatto che il lavoro sportivo esiste, ha una sua dignità e non può subire discriminazioni. Di certo però è necessario che venga dato sostegno alle Asd nel complesso passaggio dell’emersione del lavoro professionistico. Le Associazioni sportive non possono essere lasciate sole. E a chi chiede: dove trovare i soldi? Be’, ad esempio, noi sosteniamo che si debba ridimensionare il ruolo dato ai gruppi sportivi militari, un’anomalia tutta italiana che costa allo Stato 36 milioni di euro. E troppe volte per gli sportivi e le sportive questa è l’unica possibilità per mantenersi, ma ricordiamo che non tutte e tutti debbano volere per forza vestire una divisa. Quei fondi potrebbero invece essere investiti a sostegno delle Asd, dei centri universitari sportivi, dei vivai.

Ci sono stati negli ultimi anni esempi particolarmente positivi in ambito sportivo che vanno nella direzione della parità di genere?

Per lo più iniziative individuali. L’ultima in ordine di tempo è stata la decisione della squadra di ciclismo Trek Segafredo che ha introdotto il minimo salariale per le donne, pari a quello degli uomini. La FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) ha compiuto un grande lavoro per eguagliare i montepremi delle gare di donne e uomini. Da anni possiamo inoltre testimoniare che la Lega Volley Femminile sta cercando di strutturare al meglio possibile le questioni riguardanti i diritti delle atlete. Ma il caso di Carli Lloyd, palleggiatrice della Vbc Casalmaggiore, costretta a rescindere il contratto dopo aver scoperto di essere incinta, ci riporta alla triste realtà. Ci sono contesti sportivi e realtà dove si tenta fare qualche passo in più, ma se questo viene affidato solo a chi rappresenta i datori di lavoro, ossia le società sportive, è ovvio che verrà fatto il loro interesse. Per quel che riguarda nello specifico il diritto a diventare madri, lo Stato ha creato un fondo maternità per le sportive. Una novità positiva, ma si tratta comunque di un palliativo.

Altro aspetto molto delicato in ambito sportivo sono gli episodi di discriminazioni e abusi. Assist come si è mossa in questi anni?

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Abbiamo lanciato campagne contro il linguaggio sessista e lesbofobico, ancora molto diffuso purtroppo. Siamo state inserite nel tavolo antidiscriminazioni dell’Unar, con la stessa dignità delle Federazioni nazionali, e questo ci fa grande onore. E poi, come ultima iniziativa, volta in particolare a contrastare il fenomeno degli abusi e delle molestie, abbiamo lanciato SAVE, acronimo di Sport Abuse and Violence Elimination. Si tratta di un servizio nato in collaborazione con la ong Differenza Donna, da anni attiva nel contrasto alla violenza di genere e gestore del numero verde antiviolenza 1522 del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, con cui conduciamo una campagna di sensibilizzazione e forniamo supporto concreto alle ragazze e alle donne che potrebbero essere vittime di abusi. A partire da questa esperienza, la Regione Lazio ha voluto lanciare una campagna contro gli abusi e le molestie nello sport che prenderà via a marzo 2021, toccando Asd e scuole.

A ventuno anni ormai dalla nascita di Assist, se si guarda indietro cosa vede?

Vedo ancora ciò che mi ha spinto a fondare questa realtà, l’amore infinito che ho per lo sport e per la giustizia. Io sono stata un’atleta professionista nella pallavolo, ho vissuto le stesse cose per cui combatto adesso. Ho dato il via a questa realtà con un gruppo di amiche meravigliose con cui lavoro ancora, a cui poi si sono unite lungo la strada molte altre persone. Vedo ancora discriminazioni in un mondo che amo immensamente. E continuerò a battermi, perché ricordo le lacrime mie e delle mie compagne, quando quelle discriminazioni le subivamo, quando venivamo vendute con il nostro cartellino, come se fossimo al mercato delle vacche. E vorrei un mondo diverso per le ragazze di domani.

Criminal Bullets – Roller Derby Padova

Il roller derby è uno sport di contatto sui pattini a rotelle (quad) in cui due squadre si affrontano su una pista ellittica (track) in una gara di velocità, tecnica e strategia. Nasce come sport prevalentemente femminile ed è regolato dalla WFTDA (Women’s Flat Track Derby Association). Ad oggi, è uno degli sport con crescita più veloce a livello mondiale.

Il roller derby nasce e cresce anche come sport autogestito, autofinanziato e fatto da skaters per skaters. Qui non si conoscono gerarchie, ma soprattutto è l’unico sport dove si può giocare con una squadra femminile, “all genders” o maschile in base al genere cui ci si sente di appartenere e a prescindere dal sesso biologico. Per questa ragione il roller derby promuove per statuto valori come l’inclusione, l’antirazzismo e l’antisessismo e possono partecipare tutte le persone a prescindere da età, corporatura e prestanza fisica.  

Le Criminal Bullets sono la squadra di roller derby che dal 2016 promuove a Padova i valori di questo sport. «Per noi lottare contro il sessismo nello sport è dare l’opportunità a tutt* di praticare un’attività in cui sviluppare coraggio, forza, condivisione e autodeterminazione. Lo sport per noi è uno spazio di libertà, dove poter sovvertire le regole patriarcali dominanti nella società. Un rifugio in cui essere noi stess*, ma anche una palestra dove imparare a portare fuori nuovi modi di agire e pensare. Viviamo ogni giorno lo sport come opportunità di autodeterminazione».

I Maratonabili

Tanti cuori e una spinta, per correre insieme verso il traguardo

Correre e sentire il vento sul viso. Consumare chilometri di asfalto, con il caldo del sole o l’odore della pioggia. E poi i colori, i sorrisi, la fatica allegra, le urla di gioia, gli abbracci. Il traguardo. E non importa se non lo si fa con le proprie gambe, perché la corsa, la maratona – lo sport solitario per eccellenza, dove il corpo deve vedersela prima di tutto con la testa – può trasformarsi in un’esperienza collettiva. Un’esperienza di solidarietà e di inclusione, che diventa accessibile anche a chi non ha la possibilità di correre in autonomia. Ed è possibile grazie ai Maratonabili, una realtà nata da un’idea semplice, ma al tempo stesso geniale. Chi corre con le proprie gambe può essere anche la spinta per chi non ha la possibilità di farlo in autonomia.

Di Ilaria Leccardi

I Maratonabili non si muovono mai in silenzio. Ma lo fanno accompagnandosi da cori, canti, parrucche colorate, con l’urlo di battaglia “Uacca uacca” e quell’allegra fatica che solo lo sport ti permette di vivere. La Onlus nasce nel 2009, grazie a Franco Zomer, osteopata e ultramaratoneta toscano, che assieme a un gruppo di amici si lasciò ispirare dalle imprese di Dick e Rick Hoyt, padre e figlio statunitensi che hanno completato in coppia oltre mille competizioni sportive tra maratone, gare di triathlon e duathlon. Rick era disabile a causa di una paralisi cerebrale infantile e Dick – che prima di iniziare quest’avventura non aveva mai corso in vita sua e ora ha più di 80 anni – lo ha spinto sulla sedia a rotelle durante le gare di corsa o trasportato su una bicicletta o un canotto speciali durante le altre prove. E insieme sono diventati un’icona dello sport statunitense.

Carlotta Agosta è torinese. Ama correre e ha un bimbo, Leo, conosciuto anche come “Sorriso contagioso”. Fa parte dei Maratonabili ormai da cinque anni e nelle sue parole c’è molto delle motivazioni che l’hanno spinta a unirsi a questa realtà.

“Amavo correre e li ho conosciuti durante una mezza maratona. Vedevo un gruppo di ragazzi, molto rumorosi e colorati e ho scoperto così di cosa si trattava. Ho iniziato a partecipare alle iniziative del gruppo invitata da un amico, prima spingendo altri ragazzi, in primis il mio amico Fabietto, ora con l’obiettivo – appena si potrà – di spingere anche il mio piccolo Leo. Avrebbe dovuto debuttare come Maratonabile nel 2020 in una gara a marzo, ma purtroppo a causa dell’emergenza sanitaria abbiamo dovuto rimandare. Speriamo che il 2021 sia più clemente da questo punto di vista”.

Ma cosa vuol dire correre spingendo un’altra persona sulla sedia a rotelle? E farlo per 42 km? Perché i Maratonibili nascono proprio per affrontare la maratona, anche se poi nel calendario annuale prendendo parte anche a competizioni più brevi. Prima di tutto bisogna avere gli strumenti giusti: delle sedie speciali che possono arrivare a costare fino a 4.000 euro, del cui acquisto di occupa l’Associazione. Sono ammortizzate e ottimizzate per la corsa, da una parte per essere il più possibile confortevoli per chi le utilizza, dall’altra per rendere più agevole il compito di chi invece deve spingere. Poi vuol dire correre in team, collaborando e stando sempre vicini. Un team composto dalla persona in sedia a rotelle, da una “maglia nera” – runner esperto, con tanti chilometri nelle gambe – a cui viene affidato il ragazzo e che deve iniziare la corsa ma soprattutto tagliare il traguardo spingendo la carrozzina, e almeno due “maglie bianche”, sempre runner dell’Associazione che proteggono la persona trasportata e danno il cambio alla maglia nera nella spinta durante la gara. 

“Non è semplice correre spingendo un’altra persona, anche perché – spiega Carlotta – la corsa è un movimento che coinvolge molto le braccia. E qui invece le mani e la braccia sono salde per la spinta. Ma la forza viene da dentro. E vi assicuro che non facciamo passeggiate, le nostre performance toccano circa i 6 minuti al km! Siamo persone che vivono in diverse zone d’Italia. Ovviamente in Toscana, dove l’esperienza è nata, il gruppo è molto forte, ma anche in Piemonte e in Nord Italia siamo già tanti e tante. Ognuno con la sua storia di corsa e di asfalto consumato sotto le suole. Io personalmente mi alleno alla NeXt di Torino, grazie a cui ho preparato la mia prima maratona, proprio nella mia città. Un’impresa affrontata quella volta in solitaria e dedicata a Leo.

Carlotta Agosta con il marito e il figlio Leo

La NeXt, realtà sportiva torinese di running, ha creato un vero e proprio connubio con i Maratonabili e per inizio marzo 2021 ha organizzato un evento benefico a loro favore, la 4X Virtual Marathon, una maratona virtuale a cui potranno partecipare squadre miste da 4 persone in cui ciascuno dovrà correre in autonomia, tra il 5 e il 7 marzo, una tappa da 10,5 km.

“Io sono una delle poche mamme che corre con il proprio figlio, anche se Leo deve ancora debuttare in una gara ufficiale”.

Generalmente le famiglie affidano i propri figli ai runner che li conducono per tanti chilometri di corsa. Questo significa grande fiducia, anche perché alcuni dei ragazzi hanno disabilità complesse, ma soprattutto significa consapevolezza che il proprio figlio o la propria figlia potranno vivere un’esperienza indimenticabile. 

“Una delle prime protagoniste in sedia a rotelle delle corse con i Maratonabili – continua Carlotta – è stata Margherita Mugnai, tra le fondatrici dell’Associazione. Proprio a Torino alla fine di una gara fu lei a darmi la forza di arrivare al traguardo; anche se le gambe che correvano sull’asfalto erano le mie, era Margherita a spingermi in realtà. Come scrive nel libro che racconta la sua storia, Io sono ancora qua: “Mi sento tremare le gambe come se la fatica l’avessi fatta io”.

Ma nel 2020, in cui tutto si è fermato, non è stato semplice. “Chi fa parte di questa Associazione, sia i runner che i ragazzi e le loro famiglie, è unito da un grande affetto. Siamo una vera squadra. Abbiamo cercato di condurre comunque attività a distanza, coinvolgendo i ragazzi. E quindi abbiamo inventato dei giochi, delle situazioni a cui potessero partecipare mantenendo il legame che la corsa ha creato e rafforzato. Anche perché – inutile nasconderlo – chi ha un figlio con una disabilità ha sentito molto la difficoltà della chiusura dovuta al lockdown”.

Dalla corsa sono nate tante altre opportunità, il confronto, il fatto di sentirsi meno soli con i propri problemi quotidiani.

Ci sono dei requisiti per unirsi ai Maratonabili? “Per chi vuole diventare un cosiddetto spingitore, bisogna ovviamente avere una passione per la corsa. Per diventare maglia nera – spiega ancora Carlotta – devi essere un runner esperto, nelle nostre fila ci sono diversi ultramaratoneti. Per la maglia bianca basta avere un po’ di voglia di faticare e di farsi coinvolgere in questo percorso”. La motivazione più grande? “Il sorriso dei ragazzi durante le gare, la loro felicità al traguardo. Sono impagabili”.   

Nicolò Toscano, rugby senza barriere

Atleta padovano classe 1990 Nicolò Toscano ha iniziato a praticare il rugby in carrozzina nel 2011 (anno dell’introduzione in Italia dello sport) a seguito di un infortunio sul lavoro. Dal 2016 è presidente della società Padova Rugby Onlus con la quale ha vinto nel 2017, nel 2018 e nel 2019 il “Campionato Italiano di rugby in carrozzina”. Dal 2012 è vice-capitano della Nazionale Italiana di Wheelchair rugby con la quale ha partecipato a ben 3 Europei ottenendo come miglior piazzamento un settimo posto ad Anversa (Belgio) nel 2013. Oltre al rugby, Nicolò pratica regolarmente, sin dal 2013, anche il basket in carrozzina nella società CUS Padova. Nel novembre 2017 è stato eletto “Rappresentante Atleti” in giunta Cip Veneto per il quadriennio 2017/2020.

Attualmente pratica regolarmente sia il rugby che il basket, convive con Francesca e ha deciso di rimettersi in gioco, tornando sui libri, Nicolò è infatti iscritto alla facoltà di Educazione Professionale dell’Università di Padova.

Guarda la video intervista di Nicolò

Non affossiamo lo sport di base

Lo sport italiano sta vivendo una delle sue stagioni più difficili. Soprattutto quello di base. Sì, perché dall’inizio dell’emergenza Covid-19, per quanto tutto il Paese abbia subito ripercussioni difficili da affrontare, uno degli ambiti maggiormente colpiti è stato proprio quello in cui operano le Associazioni sportive dilettantistiche. Realtà che vivono grazie alle rette (spesso popolari) pagate dagli iscritti, che fanno affidamento su personale preparato ma non inquadrato contrattualmente, che si confrontano con il problema degli impianti: se privati, con affitti alti e utenze da pagare a fronte di entrate praticamente nulle, se pubblici, comunque off-limits, in quanto per lo più palestre scolastiche inaccessibili in questa fase a personale esterno.

Ne abbiamo parlato con Andrea Bruni, responsabile nazionale CSEN Progetti. Lo CSEN, ente di promozione sportiva, è tra i partner del progetto Odiare non è uno sport e da sempre è impegnato nella promozione dello sport di base e dello sport integrato.

di Ilaria Leccardi

Andrea, come sta vivendo lo sport di base la situazione attuale e le decisioni prese dal governo in seguito all’emergenza Covid-19?

Sembra che nella gestione della situazione sanitaria non ci sia stata attenzione all’importanza che l’attività sportiva ha nella vita delle persone. E in Italia questo è prima di tutto un problema culturale. Invece sappiamo che alcune attività possono essere portate avanti in sicurezza, senza rischi di contagio, nel pieno rispetto delle regole sanitarie. Sia in piscina sia in palestra, ma anche negli sport di contatto. A partire da marzo le associazioni sportive hanno compiuto sforzi notevoli, spesso con costi importanti, per adeguarsi alle disposizioni. Ma tutto questo non è stato sufficiente.

La chiusura è stata un errore?

Dobbiamo dividere tra le imprese sportive commerciali e le Asd, Associazioni sportive dilettantistiche, sono due approcci molto differenti. Per come è stato affrontato il problema, si sarebbe potuto fare più attenzione alle specifiche situazioni e non chiudere tutte le attività in modo uniforme. Sarebbe stato necessario puntare sulla responsabilità individuale con adeguati controlli. Ricordiamoci che le attività sportive di base non sono solo movimento fisico finalizzato al benessere individuale.

Pensiamo ad esempio allo sport integrato, su cui noi come CSEN abbiamo fortemente investito negli ultimi anni e che permette la condivisione, anche sociale, tra persone disabili e non disabili. Ma questa situazione chiude tutto, anche le possibilità rivolte alle persone socialmente più fragili.

Come hanno risposto alla situazione le associazioni affiliate allo CSEN?

Hanno cercato di portare avanti delle attività online. Dal punto di vista meramente sportivo lo puoi fare, ma manca tutta la dimensione psicofisica, di relazione sociale. Un’esigenza reale che non si recupera in alcun modo. Anche tra le fasce di ragazzi più giovani, la mancanza di confronto su questo piano rischia di far crescere delle difficoltà sociali che andranno affrontate. In l’Italia siamo culturalmente più adeguati nella gestione delle emergenze che nella programmazione delle soluzioni e in queste occasioni il nostro limite emerge con chiarezza.

Su cosa si sarebbe potuto puntare per mantenere viva anche in una situazione fortemente critica una qualche forma di attività in presenza?

C’è chi ha proposto soluzioni innovative, senza ricevere ancora troppo ascolto. Ma continuiamo ad insistere per esempio puntando su spazi esterni alle aule scolastiche come i cortili, i parchi, le sedi del terzo settore, gli spazi urbani, le biblioteche, dove poter svolgere attività scolastiche in ambiente esterno anche su argomenti che favoriscono la crescita delle soft skill e delle competenze trasversali. In questo percorso gli Enti del terzo settore potrebbero essere un forte alleato. 

Sono in molti a dire che questa situazione avrà ripercussioni drammatiche a livello di relazioni.

Diciamo che se a marzo-aprile poteva esserci l’elemento di novità e quindi lo stare in casa e trovare soluzioni via web poteva essere positivo, ed era comunque una fase in cui prevaleva psicologicamente la necessità di non uscire per garantire la sicurezza, ora il rischio è che si incorra in una depressione collettiva, un senso di demotivazione generalizzato. Se si era già in una condizione di marginalità, si rischia un aggravamento. Se si viveva in una situazione di povertà educativa, questa diventerà ancora più drammatica.

Potrebbe tuttavia essere un buon momento per tornare a ragionare su alcuni temi chiave dell’universo sportivo?

Sì. Anche perché proprio quest’anno si discute della Riforma dello Sport proposta dal governo. Purtroppo la dialettica per ora si è arenata sulle governance delle presidenze federali. Un potere che parla di se stesso. Ed è un peccato, perché i temi da affrontare sarebbero tanti, tutti molti più interessanti e aderenti alla realtà. Non ultimo l’hate speech, al centro del progetto Odiare non è uno sport, o tutti gli argomenti sociali che stanno dentro alla tematica sportiva più generale, come la violenza, le forme di aggregazione sociale…

Si deve lavorare con una politica chiara per sostenere lo sport in quanto attività educativa e sociale. Non è scontato e non si può pensare di lasciare l’iniziativa al singolo tecnico.

Sembra prevalere uno sguardo attento ai vertici…

Sì, anche in merito alla pratica sportiva. In Italia l’attenzione va sempre molto all’élite, quasi che fare sport a livello amatoriale non sia importante. Come se lo sport non di eccellenza fosse una perdita di tempo. Ma sappiamo che non è così e se le persone stanno bene, fisicamente e mentalmente, è anche perché riescono a seguire una preparazione sportiva completa e continuativa. In Italia ci sono 14 enti di promozione sportiva che sono attivi e a cui deve essere garantito di poter continuare a operare. Sia in termini di agonismo, per consentire a giovani e meno giovani di accedere ai rispettivi circuiti di gare, sia nella pratica sportiva quotidiana finalizzata al benessere individuale. Se si guarda alla curva dell’attività sportiva e motoria in Italia si nota un calo incredibile tra gli adolescenti, perché manca la motivazione se non si fanno le gare. L’idea dominante è che o diventi un’eccellenza o perdi tempo.

E che riconoscimento ha chi ogni giorno lavora nelle palestre?

Quella dell’operatore sportivo è uno delle poche categorie a non avere un contratto di lavoro nazionale. Ora, grazie alla possibilità di richiedere il bonus, Sport e Salute [la società di servizi a cui è affidato il compito di occuparsi dello sviluppo dello sport in Italia, ndr] sa potenzialmente quanti sono i tecnici sportivi nel nostro Paese e a loro andrebbe garantita la possibilità di godere di un contratto stabile. Questo, tuttavia, comporterebbe per le piccole associazioni sportive un aumento dei costi e si tratta di un problema che va affrontato a livello nazionale. La piccola Asd, per poter garantire degli inquadramenti corretti, deve essere sostenuta, altrimenti si aggiusta una falla nel sistema ma se ne crea un’altra.

Sappiamo che a settembre, anche prima della chiusura forzata, molte Asd hanno dovuto confrontarsi con un calo delle iscrizioni. Un po’ per paura, un po’ per soldi, le famiglie hanno anticipato il governo nella decisione di non iscrivere i propri figli all’attività sportiva. E molte realtà rischiano la chiusura per l’impossibilità di far fronte ai costi, soprattutto degli impianti. Quando si potrà fare una valutazione concreta sulle ripercussioni di questa annata?

Sul livello dei tesseramenti ad oggi abbiamo delle cifre che non danno dei riscontri reali, perché molte persone si sono iscritte a inizio anno, ma non è detto che abbiano poi mantenuto una frequenza nelle rispettive realtà. La valutazione sarà da fare nel primo trimestre del 2021. Le associazioni sportive per poter lavorare devono essere inserite nell’albo nazionale gestito dal Coni e se il prossimo anno ci saranno meno richieste di affiliazione dovremo purtroppo constatare che alcune avranno chiuso.

St Ambroeus e il calcio senza confini

La St. Ambroeus FC, squadra di calcio milanese nata nel 2018 dalla fusione di varie società, è stata la prima squadra interamente composta da rifugiati e richiedenti asilo a esordire in un campionato FIGC, Federazione Italiana Gioco Calcio, aggirando l’annoso problema legato ai tesseramenti per i quali, stando ai regolamenti federali, è necessario avere permesso di soggiorno in corso di validità oppure l’appuntamento per il rinnovo.

Attualmente la squadra milita in Terza Categoria Milano Girone D in Lombardia ed ha al suo interno calciatori di 14 nazionalità diverse. Un progetto non solo di integrazione, ma di vero e proprio meticciato, che ambisce a modificare le rigide regole della burocrazia sportiva italiana, che ancora impediscono a tanti e tante di non praticare lo sport a livello agonistico.

Nel video l’intervista a Muhamad (calciatore), Jacopo e Camilla (dirigenti) della St. Ambroeus FC e Tommaso, esponente di Armata Pirata, gruppo di supporters della squadra. 

ChangeTheGame contro gli abusi nello sport

Dal Cavallo Rosa a ChangeTheGame, una call to action per difendere bambini e donne nello sport

Quanto vale la vita di un bambino? Si può rispondere al dolore, alla paura, alla violenza solo con il silenzio? Perché il mondo dello sport, che dovrebbe essere vincolato in modo inscindibile a principi di probità, lealtà e correttezza, come stabilito dal Coni, quando si parla di abusi e molestie sessuali fa ancora troppa fatica a prendere in mano le proprie responsabilità?

Mentre il mondo intero ha seguito con apprensione e orrore lo scandalo abusi che ha travolto Usa Gymnastics e l’intero sistema sportivo statunitense, sono ancora pochi in Italia coloro che decidono di alzare la voce e aprire gli occhi su quanto avviene nel mondo dello sport.

Daniela Simonetti è una giornalista sportiva dell’Ansa. Circa due anni e mezzo fa ha iniziato ad approfondire il fenomeno delle molestie sessuali e degli abusi sui minori in ambito sportivo. Un impegno partito da una storia incrociata sulla propria strada, che non l’ha lasciata indifferente. Un impegno che si è trasformato in un’azione concreta ed è sfociato nella costituzione de Il Cavallo Rosa, un’associazione di volontariato che ha proprio in queste tematiche il suo focus. Una realtà che nel giro di poco tempo è cresciuta fino ad assumere una dimensione europea, con la nuova denominazione “ChangeTheGame”.

di Ilaria Leccardi

Daniela Simonetti, presidente del Cavallo Rosa/ChangeTheGame

“Il nostro lavoro – spiega Simonetti – è iniziato un paio d’anni fa. Ho deciso di occuparmi in modo approfondito e strutturato di questa tematica dopo aver trattato la storia di una ragazzina vittima di abusi. Poi ne è seguita un’altra e un’altra ancora. Ho scelto di non girare la testa dall’altra parte come fanno tanti, troppi. Grazie anche al sostegno e al grande lavoro di un magistrato del Tribunale di Milano, ho studiato, mi sono informata, ho indagato e ho potuto constatare quanto ancora sia indietro e arretrato il mondo italiano dello sport rispetto a queste tematiche che restano scabrose e nascoste”.

Argomenti che saranno centrali nell’importante appuntamento organizzato per sabato 24 ottobre all’Arena di Monza, dal titolo “Lo sport vale una vita?”. Un evento durante il quale interverranno atlete del calibro di Khalida Popal, ex capitana della squadra della Nazionale femminile afghana, icona dell’emporwerment femminile, Anne Kursinski, due volte argento olimpico nell’equitazione, e la campionessa di pattinaggio artistico su ghiaccio Sarah Abitbol. Tutte e tre hanno denunciato abusi e molestie nel grande sport.

Interverrà Roberto Samaden, direttore del settore giovanile di FC Internazionale, il primo club in Italia ad adottare un protocollo antipedofilia, mentre la FIGC presenta la propria piattaforma in tema di tutela dei minori nel calcio, in accoglimento delle direttive UEFA.

A fare gli onori di casa Alessandra Marzari, presidente del Consorzio Vero Volley e cofondatrice dell’Associazione Il Cavallo Rosa/ChangeTheGame. Presenti un folto gruppo di esperti dell’ambito giudiziario: avvocati, magistrati, criminologi.

“Il punto di riferimento della nostra azione – spiega Daniela Simonetti – è prima di tutto il codice penale che disciplina i reati di violenza sessuale e atti sessuali con minorenni agli articoli 609 bis e 609 quater. Spesso i bambini e gli adolescenti vengono manipolati da una figura carismatica come il proprio allenatore. E si lasciano intrappolare in relazioni definite sentimentali, in realtà abusanti. Relazioni severamente punite dalla giustizia ordinaria che considera nullo il consenso di un minore quando l’abusante è una figura di garanzia. La giustizia sportiva non agisce con necessario rigore e altrettanta fermezza. Inoltre, la potremmo definire a ‘macchia di leopardo’: quarantaquattro federazioni, altrettanti regolamenti, ognuno diverso dall’altro nell’indicare gli illeciti da perseguire. Inoltre, non è previsto un illecito disciplinare legato alle violenze e agli abusi sui minori che rappresentano il 60% dei tesserati. Illecito da collegare alla esclusiva sanzione della radiazione”.

Daniela Simonetti (a destra) con Laura Rogora, campionessa del mondo di arrampicata sportiva, che parteciperò ai Giochi Olimpici di Tokyo.

Solo la Federazione Italiana Arrampicata Sportiva ha accolto la proposta formulata dal Cavallo Rosa, prevedendo nel suo Regolamento di Giustizia che il colpevole di violenza sessuale e di atti sessuali con minori venga radiato. In sostanza, le altre Federazioni sportive lasciano alla discrezionalità degli organi di giustizia l’individuazione della sanzione da applicare all’incolpato. Tecnici, istruttori e coach possono essere condannati in sede penale senza che le Federazioni di appartenenza lo sappiano. I collaboratori sportivi – il 90% degli operatori del mondo dello sport – nel 2014 sono stati esentati dal presentare i certificati penali e dei carichi pendenti, i cosiddetti certificati antipedofilia.

“Il paradosso – dice la presidente del Cavallo Rosa/ChangeTheGame – è che i colpevoli di reati odiosi che usufruiscono della sospensione della pena, continuano a esercitare la professione di allenatore con ripercussioni terribili per le vittime. La denuncia può portare a stigmatizzazioni o linciaggi anche pubblici.

Il primo passo da fare è chiedere anche ai collaboratori sportivi i certificati penali e dei carichi pendenti. Chi si macchia di reati a sfondo sessuale deve essere escluso dalla professione di allenatore. Istruttori e coach sono maestri ed educatori che devono aiutare i giovani a crescere forti e sereni. Troppo spesso abusano impunemente del loro ruolo”.

Attualmente il Cavallo Rosa conduce una battaglia perché siano richiesti i certificati penali, poi si batte perché sia prevista una formazione obbligatoria sui temi legati agli abusi sessuali per i coach di tutte le discipline sportive. Un altro punto è quello di portare avanti una campagna di sensibilizzazione che includa sempre più soggetti.

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“In questi anni – continua Simonetti – abbiamo assistito a casi insostenibili. Come quello di un allenatore di calcio che ha subito la prima condanna nel 2002 e che ha potuto esercitare fino al 2016. Era considerato un bravo allenatore dal punto di vista tecnico. Nessuno gli ha mai chiesto nulla”.

Il fenomeno sta deflagrando nel mondo: negli Stati Uniti, ad esempio, dove l’esplosione del caso Larry Nassar (osteopata e medico della Nazionale di Ginnastica colpevole di aver violentato 500 bambine e ginnaste, per lo più minorenni, con le prime accuse risalenti all’inizio degli anni Novanta) ha portato al crollo delle istituzioni sportive, all’azzeramento dei vertici federali e alla creazione di un organismo autonomo che giudica i casi di violenza sessuale e abusi nello sport, lo US Center for Safe Sport. Inoltre, appena un mese fa il Senato Usa ha approvato una proposta di legge – ancora da confermare alla Camera – che dà maggiori responsabilità al Comitato Olimpico e Paralimpico degli Stati Uniti nel monitorare gli abusi sugli sportivi e chiede al Comitato stesso di attribuire più poteri e fondi a SafeSport.

In Francia, invece, dove è scoppiato uno scandalo abusi a partire dal pattinaggio artistico, la ministra dello Sport, l’ex campionessa di nuoto Roxana Maracineanu, si è schierata al fianco delle ragazze, ha creato una commissione d’inchiesta e ha chiesto a gran voce le dimissioni – arrivate poi, seppur tardivamente – del presidente della Federazione degli Sport del ghiaccio, Didier Gailhaguet.

“Troppo spesso – continua Simonetti – rimaniamo sconvolti da quanto avviene al di là dei nostri confini, ma non ci preoccupiamo di analizzare i fenomeni che avvengono in casa nostra e di fare tesoro di quanto sta avvenendo in altri paesi come la Francia. In Italia, nessun caso ha riguardato grandi campionesse e questo ha reso il fenomeno invisibile. Ogni anno si celebra una trentina di processi a carico di coach e tecnici. Le vittime sono solo semplici bambine e bambini che amano lo sport al centro di vicende le cui conseguenze resteranno per tutta la vita. Ma la vita di ogni bambino dovrebbe avere un valore inestimabile in un mondo normale”.

In questi anni l’azione del Cavallo Rosa ha portato, oltre a una maggiore consapevolezza sul tema e alla stesura di un approfondito vademecum dal titolo “ChangeTheGame. Educare alla consapevolezza contro gli abusi sessuali nello Sport”. Ma anche ad azioni sul campo con la radiazione di due tecnici condannati per abusi e alla sospensione di un terzo.

“Purtroppo – aggiunge Simonetti – a fronte dei progressi del codice penale nella direzione della maggiore tutela delle vittime di abusi e violenze non è seguita altrettanta consapevolezza e lungimiranza nel mondo sportivo. Troppo spesso le risposte sono solo di facciata, come l’adozione di codici etici che restano carta straccia senza un sistema sanzionatorio in caso di inosservanza”.

L’inadeguatezza della giustizia sportiva, il legame con i consigli federali che nominano i componenti, gli scarsi mezzi delle procure federali che non riescono a sostenere i costi di inchieste complesse dovrebbero spingere a una riflessione profonda e di sistema: secondo la presidente del Cavallo Rosa, il punto d’arrivo migliore in questo momento dovrebbe essere un tribunale autonomo, sul modello di quello antidoping, che possa indagare in modo libero sui casi di abusi.

“Il doping a livello internazionale è diventato importante quando non si poteva più nascondere, quando è diventato deflagrante. Dobbiamo aspettare che avvenga lo stesso anche per gli abusi? O forse è già avvenuto proprio in un ambito, come quello sportivo, che dovrebbe essere guidato dai principi di probità, lealtà e correttezza. Quando penso al percorso che porto avanti, ricordo sempre una frase che mi disse una giovane vittima: Ne parlo a te perché il Cavallo Rosa è contro le ingiustizie nello sport”. Non servirebbero altre parole.

Polisportiva San Papier, lo sport senza confini

La Polisportiva Sans Papier A.S.D. di Schio (VI) nasce nel 2014 su decisione dell’assemblea del Centro Sociale Arcadia, per iniziare un percorso che diffonda lo sport popolare nell’Alto Vicentino.

L’intento di base è promuovere un’idea di sport libero ed indipendente, lontano dalle logiche di business e dell’agonismo esasperato della vittoria a tutti i costi, che trovi
nell’autogestione e nella democrazia dal basso il proprio metodo di organizzazione. La pratica sportiva diventa così strumento di inclusione sociale, capace di superare ogni barriera di genere, etnica, economica, e di orientamento sessuale.

La Polisportiva Sans Papier presta particolare attenzione alla popolazione migrante, spesso fortemente esclusa dallo sport agonistico, sia per questioni di difficoltà economiche o linguistiche, sia a causa di regolamenti delle Federazioni Sportive che, attraverso macchinosi passaggi burocratici, limitano l’accesso alla pratica sportiva anche ai figli dei migranti nati in Italia.

Assieme ad altre realtà sportive, nel 2017 ha partecipato alla campagna #WeWantToPlay, ottenendo dalla F.I.G.C. la modifica dell’articolo 40 comma 11 del NOIF (le norme organizzative intere), permettendo così ai minori extra-comunitari arrivati in Italia di poter essere tesserati con la stessa modalità dei loro coetanei italiani.

Dal 2014 ad oggi la Polisportiva Sans Papier ha organizzato vari tornei di cricket, calcio a 5, pallavolo e basket, coinvolgendo la popolazione migrante ed i richiedenti asilo. Attualmente gioca nei campionati amatoriali della provincia con una squadra di Calcio a 5 e una squadra di basket.

Le autrici delle foto contenute nella gallery sono Alexandra Boni e Chiara Furlan

Amicacci Giulianova: il canestro dell’inclusione

Uscire dall’emarginazione, combattere l’indifferenza, fare della propria difficoltà un punto di forza per sperimentare nuove forme di inclusione e autodeterminazione. La palla da basket in mano, un canestro in alto ad aspettarla. Un sogno che si è realizzato, attraverso un percorso di crescita collettiva, che ha portato un cittadina abruzzese ai vertici sportivi europei.

È la storia dell’Amicacci Giulianova, una Polisportiva che ha al centro della propria attività il basket in carrozzina, una disciplina sportiva basata sull’inclusione, in cui non esiste spazio per alcuna forma di discriminazione, in cui nelle squadre di club le donne possono giocare con gli uomini e in cui il regolamento è pensato ad hoc per accogliere persone con disabilità differenti, tutte in campo con l’obiettivo di fare canestro.

L’Amicacci è la società sportiva a cui appartiene Beatrice Ion, la giocatrice azzurra di origine romena salita alle cronache per il vergognoso attacco razzista subito vicino a casa, in un villaggio di Tor San Lorenzo, ad Ardea, alle porte di Roma, dove vive con la famiglia. Un episodio inqualificabile. Dopo aver lamentato l’occupazione costante del proprio posto auto disabili riservato vicino a casa, il padre di lei è stato aggredito fisicamente ed è finito in ospedale con uno zigomo rotto, e la ragazza è stata insultata in quanto disabile e straniera. Tutto il mondo sportivo e non solo si è stretto attorno a Beatrice e alla sua famiglia. Ma questo episodio, così come le assurde code polemiche alimentate via social a cui la stessa Beatrice ha risposto, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per sensibilizzare la cittadinanza contro ogni forma di discriminazione, favorendo invece percorsi di inclusione. Ed è un lavoro lungo, proprio come raccontano la storia dell’Amicacci e del movimento del basket in carrozzina. Ne abbiamo parlato con Ozcan Gemi, ex giocatore e allenatore della squadra e di Beatrice, di origine turca, che dal 2002 fa parte della realtà abruzzese.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dagli inizi. Come è nata l’Amicacci e perché proprio il basket in carrozzina?

La società è nata nel 1982, grazie all’attenzione di un gruppo di genitori – tra cui Giuseppe Marchionni, Edoardo D’Angelo, Ronald Costantini – che, accompagnando i figli costantemente in centri di medicina e fisioterapia per problematiche legate a diverse patologie, sono venuti a conoscenza del mondo sportivo paralimpico. E hanno capito che la disabilità non poteva essere un freno alla vita ma che, anzi, i ragazzi avevano bisogno di svolgere un’attività fisica come possibilità di riabilitazione e socialità. Il primo torneo venne organizzato nel 1984 e all’epoca la cittadinanza ancora non sembrava pronta a comprendere l’importanza di un percorso di questo tipo. Ma poco per volta, con l’impegno costante di tanti volontari e famiglie, il sogno è diventato realtà. Negli anni ’90 addirittura Giulianova è divenuta il centro di un torneo internazionale estivo, organizzato all’aperto, che ha permesso un avvicinamento di tutta la città a questo straordinario sport.

Presto è arrivato l’alto livello, com’è stata la scalata ai vertici?

Dagli anni ’90 l’Amicacci si è iscritta al campionato nazionale. Dopo alcune stagioni in A2, 2007 siamo stati promossi nella massima serie e da allora non siamo più retrocessi, confermandoci sempre ai vertici del campionato italiano. Il risultato migliore a livello nazionale è stato il secondo posto nel 2018, quando siamo sconfitti in finale playoff.

Avete però un nome anche a livello europeo.

Attualmente siamo la nona squadra nel ranking continentale su circa 300 formazioni. Negli anni passati abbiamo ottenuto importanti risultati come la vittoria della Challenge Cup nel 2011 e della André Vergauwen Cup nel 2012, il secondo più importante torneo europeo. Nel 2018 siamo arrivati ai quarti di finale di Champions.

Siete un’eccellenza, ma vivete ancora degli sforzi dei volontari. Quanto è importante il lavoro con i giovani e l’attività rivolta allo sport di base?

Anche se i nostri campionati prevedono grandi investimenti, sia per le trasferte sia per il mercato dei giocatori che ormai ha un respiro internazionale (nell’ultima stagione su 12 giocatori in rosa, ben 5 erano stranieri), il sostegno dei volontari è fondamentale. Anche perché abbiamo una finalità sociale molto spiccata e lavoriamo per promuovere lo sport di base e tra i giovani. Da alcuni anni ormai portiamo avanti il progetto Amicuccioli, ossia una squadra giovanile di basket in carrozzina, che partecipa al campionato nazionale. E poi abbiamo avviato il progetto Èsportabile: incontriamo le scuole mostrando loro un documentario che racconta la storia di tre ragazzi con disabilità differenti, e alimentando il dibattito e il confronto sul tema. Vogliamo sensibilizzare, far conoscere quali sono gli aspetti della vita di un ragazzo disabile a chi non vive tutti i giorni questa condizione.

Quali sono le caratteristiche principali del basket in carrozzina?

Innanzitutto bisogna ricordare che è uno dei principali sport paralimpici, uno sport molto completo, si gioca su campi regolamentari di basket, con la stessa palla e il canestro posto alla stessa altezza della pallacanestro classica. La carrozzina è personale, realizzata su misura con le ruote inclinate per dare maggior stabilità (insieme alle rotelle anti-ribaltamento poste sul retro) e per difendere il giocatore durante i contrasti che sono frequenti nel corso delle partite.

E qual è il criterio per comporre le squadre? Visto che le disabilità, e di conseguenza la mobilità dei giocatori, possono essere differenti…

Ad ogni giocatore, in base alla propria disabilità, viene assegnato un punteggio. Il totale della squadra non deve superare 14,5 punti. Questo porta le formazioni a essere composte da persone con disabilità più e meno gravi. Più la disabilità è importante più il punteggio del singolo giocatore è basso. L’inclusività del nostro sport si basa proprio su questo. Un meccanismo che consente alle ragazze di giocare con i ragazzi, perché anche in questo caso si può andare a compensare il punteggio portato dalla giocatrice (che ha un abbattimento di 1,5 punti) con quello degli altri componenti della squadra. Stesso discorso per i normodotati senza alcuna disabilità, che nel minibasket e nel campionato di serie B possono essere inseriti in squadra, portando con sé un punteggio più alto.

Cos’ha comportato per la vostra realtà e il movimento italiano del basket in carrozzina l’emergenza COVID19?

L’annullamento di tutti i campionati… Lo scudetto quest’anno non sarà assegnato. E anche la “dispersione” dei giocatori, molti dei quali nel nostro caso non sono originari di Giulianova, ma vengono da altre città italiane o dall’estero, e sono tornati a casa. Quindi ora non ci stiamo allenando come gruppo. Per l’attività di base è stato altrettanto difficile, perché per molti mesi non si è potuti tornare in palestra.

Raccontaci qualcosa di Beatrice Ion. Quanto vi ha colpito il terribile episodio di cui è stata vittima?

Beatrice è una giocatrice dell’Amicacci da due anni. L’ho conosciuta durante un campo di minibasket che organizziamo ogni anno, a cui partecipano bimbi e ragazzi di diverse età per una settimana di sport e divertimento. Lei giocava al Santa Lucia di Roma ed era già molto brava. Due anni fa le ho proposto di venire a giocare nella nostra squadra e ha accettato, si è trasferita in zona e si è iscritta all’università di Teramo.

Quello che è successo a Beatrice è inaccettabile e indescrivibile ed è lo specchio di quanto razzismo e scarsa cultura del rispetto ci sia nella nostra società.

L’abbiamo sentita particolarmente sconvolta, soprattutto per l’aggressione fisica subita dal padre.

Beatrice Ion in una fotografia di Daniele Capone

Al di là dell’episodio singolo, quanto lavoro c’è ancora da fare per stimolare una cultura del rispetto e dell’attenzione alle persone con disabilità?

Molto. Diciamo che la società sta crescendo, ma ancora bisogna lavorare. Ad esempio nella nostra regione, l’Abruzzo, abbiamo grandi differenze tra la zona costiera dove le città sono a misura di tutti, mentre nell’interno non è ancora così. E lo vediamo girando per le strade tutti i giorni, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ma non è un’attenzione che si deve avere solo nei confronti delle persone con disabilità, ma verso tutti, gli anziani, una madre o un padre che spingono un passeggino. Spesso noi andiamo nelle scuole per incontrare i ragazzi, grazie al nostro progetto di sensibilizzazione, e portiamo un bagaglio di esperienza. Spieghiamo l’importanza degli scivoli e dei parcheggi per disabili, soprattutto per garantire l’autonomia alle persone. Certe cose non sono scontate. Faccio un esempio: a me non serve che il posto auto riservato sia davanti all’ingresso del luogo dove devo andare, ma mi serve che abbia dello spazio attorno per aprire completamente la portiera della mia macchina, appoggiare la carrozzina per terra, uscire dall’auto, sedermi sulla carrozzina e muovermi in autonomia. Sono cose a cui una persona che non vive queste difficoltà a volte non arriva neanche a pensare.

Chi vive la disabilità quotidianamente non ha bisogno di essere compatito, ma di essere rispettato e tenuto in considerazione. Una società attenta ai diritti dei più deboli non può che essere una società avanzata e che lavora per il benessere di tutti.

Luca Panichi, lo scalatore in carrozzina

Scalare le vette guardando verso l’alto. Anche se – e forse proprio perché – la vita ti ha posto di fronte a una sfida enorme. Luca Panichi è un ciclista la cui storia in sella alla bicicletta inizia all’età di otto anni, sulle orme dell’idolo Francesco Moser, e si interrompe bruscamente e drammaticamente il 18 luglio 1994, quando viene investito da un’auto durante il cronoprologo del Giro dell’Umbria Internazionale dilettanti.

La paura, lo sgomento, aggrapparsi alla vita. Da allora Luca non può più camminare. Ma lui sa cosa voglia dire affrontare una sfida, si porta dentro un bagaglio di energia fisica e mentale che nasce dall’esperienza sportiva di anni, la voglia di migliorarsi ogni giorno. Il limite per Luca non è un ostacolo, ma il punto di ripartenza. Ed è così che decide di riprendersi le sue salite, non più in sella alla bici, ma a bordo della sua carrozzina. A testimoniare che l’unico limite vero sta dentro di noi.

Dal 2009 le sue imprese vanno a braccetto con il Giro d’Italia professionisti. In ogni edizione Luca ha affrontato una salita, conquistando una serie di cime storiche, dal Block House al Passo del Tonale, dal Ghiacciaio del Grossglockner al Passo dello Stelvio, dalle Tre cime di Lavaredo allo Zoncolan, dal Colle delle finestre alla Cima Oropa. Tra le sue partecipazioni anche a quella alla Granfondo Terre dei Varano.

Le sue non sono solo imprese sportive, ma sono diventate la metafora di una forza che Luca incarna in ogni metro macinato. Una forza che porta su di sé i nomi di Fabio Casartelli, di Michele Scarponi, di Marco Pantani, ma anche gli incontri con tanti giovani appassionati di sport e studenti a cui Luca si rivolge raccontando la propria storia e portando un messaggio positivo.

Per il progetto Odiare non è uno sport lo abbiamo intervistato, per ascoltare la sua sua storia e la sua forza, le sue riflessioni sullo sport paralimpico e, in quanto referente Csen per lo Sport Integrato, il suo appello a una narrazione sportiva che punti non a scatenare l’aggressività ma a proporre modelli positivi, campioni che sappiano trasmettere un senso di condivisione. Perché – spiega Luca – “a prescindere dai risultati, lo sport ci serve per amare la vita, noi stessi e gli altri”

L’intervista a Luca Panichi