Pamela Malvina Noutcho Sawa: sul ring nel rispetto dell’altro

di Ilaria Leccardi

“La boxe mi ha insegnato a guardare negli occhi la persona che ho davanti. Quando ero piccola camminavo sempre a testa bassa. E una delle prime cose che il mio allenatore mi ha detto quando ho iniziato a muovermi sul ring è stato proprio questo: alza la testa, guarda in faccia il tuo avversario. Un insegnamento importante che mi è stato molto utile anche nella vita e sul lavoro. Se guardi negli occhi il paziente, il rapporto cambia, sente davvero che lo stai prendendo in carico, che ti stai occupando della sua persona”.

Pamela Malvina Noutcho Sawa ha 32 anni, gli occhi profondi, e una grande passione nel raccontare la sua quotidianità, vissuta tra le corsie dell’Ospedale Maggiore di Bologna, dove è infermiera al pronto soccorso, e le mura della Bolognina Boxe, palestra popolare che è la sua seconda casa da alcuni anni ormai, e dove si allena seguita da Alessandro Danè. Solo poche settimane fa, il 25 ottobre, è salita sul tetto d’Europa, vincendo il titolo continentale pesi leggeri, battendo la pugile serba Nina Pavlovic, in un match che si è svolto a porte chiuse all’Unipol Arena di Casalecchio, a causa dell’emergenza alluvione.

Un titolo per cui ha lavorato tanto, vinto grazie a un match “duro” di cui si dice “molto orgogliosa”. “Di solito – spiega – affronto avversarie che non fanno male, invece la serba, per dirla nel gergo della boxe, è una pugile pesante con le mani. Ho dovuto costruire i punti round dopo round”. Un titolo talmente significativo da suscitare una dedica collettiva e molteplice: alla sua città ferita dall’inondazione, ai lavoratori della Toyota, dopo la morte di due operai a causa di un’esplosione nello stabilimento di Borgo Panigale, a due colleghi infermieri morti suicidi nel corso dell’ultimo anno e a Vincent Plicchi, 23enne che nel 2023 si è tolto la vita, vittima del cyberbullismo. “Conosciamo il papà, è una storia che ci ha toccati molto”.

Come raccontano le parole e le scelte della pugile azzurra, la boxe non esiste senza dimensione sociale. “Da piccola praticavo atletica, quando ancora vivevo a Perugia. Poi sono arrivata a Bologna per gli studi universitari e, durante la magistrale, ho svolto un tirocinio in un centro per persone senza fissa dimora. Lì era attiva una palestra, dove si praticavano varie discipline, ho provato la boxe e mi si è aperto un mondo”. Era il 2014, l’allenatore notò subito la sua predisposizione per il ring anche se inizialmente lei non si dava degli obiettivi sportivi. “Volevo solo tenermi in forma”. Invece, dieci anni dopo, è arrivata ai vertici internazionali. “Questo sport mi ha insegnato a essere ambiziosa. Per carattere mi sono sempre detta: se riesco a fare una cosa, bene; se non riesco, pazienza. Nella boxe è diverso. Devi avere fame, devi allenarti duramente, darti obiettivi anche piccoli da raggiungere. E quando salgo sul ring tutti mi dicono che riesco a tirare fuori la grinta che ho sempre tenuto nascosta”.

Quella della pugile di origine camerunense è una storia di crescita sportiva, ma anche e soprattutto umana e collettiva, vissuta nella famiglia della Bolognina Boxe, una realtà che oggi conta oltre 400 iscritti tra cui molte donne e un nutrito gruppo di bimbe giovanissime. “La nostra è una palestra popolare, dove lavoriamo per affermare determinati valori: antifascismo, nessuna discriminazione, antisessismo. Non esiste per esempio si dica: io non ‘faccio i guanti’ con quella perché è una donna. Si cerca di rispettare tutti, da ogni punto di vista. Anche se non è semplice. Tra le nostre mura si allenano persone di oltre trenta nazionalità diverse e provenienti da qualsiasi situazione, dal poliziotto all’ex carcerato, dal banchiere alla studentessa. Se sentiamo – ad esempio – commenti sessisti o razzisti, andiamo a parlare con chi li ha pronunciati, preferiamo il confronto, il dialogo, cercando di far passare un messaggio di rispetto”.

Che poi dovrebbe essere l’obiettivo di ogni pratica sportiva. “Nello sport – prosegue – non deve esserci odio. A volte penso a quanto sarebbe bello poter far sì che i confronti tra potenze mondiali si svolgessero sui campi sportivi invece che facendo le guerre. Lo sport ha il grande potenziale di far emergere il meglio da ciascuno di noi. Sicuramente in chi lo pratica, ma anche in chi lo guarda e lo segue per passione”.

Eppure, anche lo sport non è esente dall’odio, così come dalle polemiche. Restando sulla boxe, lo ha dimostrato durante i Giochi di Parigi 2024 il caso della pugile algerina Imane Khelif e dell’incontro vinto contro l’azzurra Angela Carini che si è ritirata a pochi minuti dall’inizio del match. “È stata una vicenda che mi ha molto rattristata. Nella boxe siamo abituate a cadere, rialzarci e riprendere. Conosco entrambe le sportive coinvolte, sono due atlete molto brave, ma questo è passato completamente in secondo piano, rispetto a una vicenda più grande di loro. Mi dispiace per Angela che stimo molto come pugile, ma che probabilmente si è trovata in una situazione difficile da sostenere. I miei complimenti vanno a Imane per la capacità che ha avuto di andare avanti a testa alta”.

Ma anche la stessa Pamela Malvina ha vissuto il peso dell’hate speech online, non tanto attorno alla sua carriera sportiva, quanto rispetto al tema della cittadinanza italiana, ottenuta finalmente nel 2022 dopo un lungo iter burocratico. “Sulle mie pagine social è difficile che riceva commenti d’odio, cosa che è invece è successa a seguito di articoli che parlano di me su altre pagine. Quando ho fatto un video sul tema della cittadinanza, ne sono scaturiti commenti terribili, razzisti. In generale, i miei allenatori e lo staff della Bolognina Boxe mi dicono di non leggere i commenti agli articoli perché altrimenti, sostengono, la mia felicità passa in secondo piano. I social sono un contesto molto delicato. Non so nemmeno se le persone che scrivono si rendano conto del peso delle proprie azioni, ma ogni volta che si legge un insulto è come se una ferita si riaprisse. E non tutti hanno la forza per sostenere questo dolore”.

Quello che la pugile azzurra e la sua società sportiva fanno ogni giorno è cercare di costruire percorsi diversi, concreti, inclusivi, di reale confronto, a partire dal ring.

La consapevolezza è la chiave contro l’odio: l’attività in classe

Uno degli obiettivi principali di Odiare non è uno sport è incontrare i giovani, dialogare con loro per approfondire e conoscere cosa sia l’hate speech e lavorare insieme per contrastarlo. Ecco perché, nelle sette regioni italiane coinvolte dal progetto, durante l’anno scolastico formatrici e formatori delle ong partner hanno attraversato gli istituti scolastici per svolgere attività a stretto contatto studenti e studentesse e giovani di età compresa tra 11 e 18 anni. Tra loro anche Vittoria Frigerio e Silvia Chiesa, formatrici di Progettomondo che opera nell’area veronese.

La formazione, che si è svolta tra novembre e aprile, è stata realizzata in 16 classi di Verona e provincia. Frigerio e Chiesa hanno incontrato 14 classi delle scuole secondarie di primo grado e 2 classi delle scuole secondarie di secondo grado, lavorando in totale con 411 studenti e studentesse. Sono inoltre stati raggiunti 94 giovani sportivi tra gli 11 e i 17 anni, suddivisi in 7 squadre: 4 squadre di calcio e 3 squadre di rugby.

articolo a cura di Progettomondo

“Le attività che abbiamo svolto hanno confermato ancora una volta che i ragazzi e le ragazze, quando coinvolti e stimolati, riescono sempre a dare spunti e riflessioni arricchenti”, dicono le due formatrici. “Sia nelle scuole medie che nelle superiori, la discriminazione percepita come più forte e diffusa è legata all’aspetto fisico, complice anche il cambiamento di altezza, peso e forme, tipico del periodo adolescenziale. Le differenze si amplificano con le discriminazioni rispetto al colore della pelle, elemento più facilmente esposto a possibili giudizi e discriminazioni.

Dai feedback ricevuti da ragazzi e ragazze, la formazione svolta durante il progetto sembra essere un buon punto di partenza: parlare dei fenomeni discriminatori rappresenta un modo di prendere atto che il problema esiste

“La consapevolezza -proseguono le formatrici – emerge come la chiave reale, visto che la maggior parte della popolazione giovane coinvolta non conosceva o non sapeva descrivere il significato della parola stereotipo. Fornire esempi concreti che aiutino ad avvicinarsi al concetto di stereotipo, che trasportino l’immaginario dei ragazzi e delle ragazze verso situazioni più concrete per immedesimarsi nelle conseguenze quotidiane provocate dalla discriminazione può realmente fare la differenza. Questo passaggio, questa chiave di lettura che scatta, invita a conoscere e poi valutare con la propria testa in che modo sapere agire di fronte alle discriminazioni”. 

Anche la parola empatia risulta poco conosciuta soprattutto nell’età più giovane. “Il termine, e la narrazione su come mettere in pratica il processo empatico, ha incuriosito le classi e andrebbe senza dubbio sviluppato con il supporto dei docenti e delle famiglie”.

“Le classi che abbiamo attraversato in molti casi sono a stretto contatto con quello viene percepito normalmente come bersaglio di pregiudizio. Abbiamo incontrato contesti eterogeni per provenienza di studenti e studentesse, e anche classi con la presenza di persone disabili. Non abbiamo notato pregiudizi razzisti verso compagni e compagne di classe, anzi. Gli studenti e le studentesse incontrati sono abituati a venirsi incontro nelle difficoltà legate alla lingua o nel cercare di comprendere un momento di difficoltà di coetanei e coetanee. Nonostante durante la formazione sia emerso qualche episodio di pregiudizio razzista vissuto in prima persona, gli studenti e le studentesse hanno raccontato con molta più libertà episodi di linguaggio d’odio vissuti dalle loro famiglie o da parenti e amici”.

Parole fuorigioco – il podcast di Odiare non è uno sport

Otto episodi per ragionare sulle possibili discrminazioni di cui la nostra società è teatro in ambito sportivo, ma anche delle storie di chi ha trovato il modo per rispondervi. Si chiama Parole fuorigioco ed è il podcast di Odiare non è uno sport, a cura di Radio Sherwood. Una serie che vedrà al centro tematiche quali razzismo, sessismo, bodyshaming, abilismo e accessibilità agli spazi sportivi, con un focus specifico sull’ambito dilettantistico, di cui ancora non si parla abbastanza e in cui ognuno di noi impara a praticare e rendere lo sport parte della propria vita.

Se il dilettantismo è oggi testimone di atti di discriminazione e odio, esso è allo stesso tempo un grande bacino di aggregazione e inclusione sociale. Le storie che ascolterete vi faranno entrare nell’esperienza diretta delle persone intervistate, per comprendere quali sono le caratteristiche delle discriminazioni in ambito sportivo e trarre degli spunti e gli strumenti per reagire e far crescere una cultura sportiva sempre più inclusiva.

EPISODIO NUMERO 1 | Calcio e razzismo: Ragioniamo sul tema a partire da quanto avvenuto il 19 novembre 2023 nella partita tra le squadre abruzzesi Casalanguida e l’Athletic Lanciano. Ai microfoni, le voci di Michele La Scala (Vicepresidente dell’Athletic Lanciano) e di Marco Iasci (della tifoseria Axa Rebel) che racconteranno la vicenda vista dai loro occhi, le loro opinioni e i loro valori per un calcio antirazzista.

EPISODIO NUMERO 2 | La danza non è una cosa per donne: Nel secondo episodio si esplorano le discriminazioni razziali nella danza, una disciplina spesso femminilizzata e vista più come arte che sport. Nella danza, le micro aggressioni, l’omogeneità bianca e la denigrazione delle danze non europee sono ancora comuni in ambienti amatoriali e professionali. Tuttavia, ci sono anche esempi di resistenza antirazzista, studio di altre culture e sfida ai canoni tradizionali.

EPISODIO NUMERO 3 | Per uno sport al sicuro dal sessismo: Nel terzo episodio parliamo di sessismo, una piaga che, come riporta l’AICS, è largamente riscontrata all’interno dell’attività sportiva dove persistono pregiudizi di genere e di orientamento sessuale. Ne discutiamo con Francesca Masserdotti di Assist (Associazione Nazionale Atlete) e Giulia Borghi della polisportiva Atletico San Lorenzo che ci danno una chiave di lettura femminista dello sport professionistico e popolare. 

EPISODIO NUMERO 4 | Sport e Omolesbotransfobia: Nel quarto episodio parliamo di omolesbotransfobia, di transfobia in particolare, forse la contraddizione e la discriminazione più evidente nel mondo dello sport, come testimoniano anche le Olimpiadi di Parigi 2024. Al centro della puntata, l’esperienza della polisportiva milanese “Open”, che da decenni crea spazi per la comunità queer e critica la normatività e le discriminazioni strutturali rispetto al genere nel mondo dello sport e lo fa praticando forme diverse di squadra e aggregazione e interrogandosi su cose spesso prese poco in considerazione, dagli spogliatoi al dibattito sul ruolo degli ormoni e la differenza dei corpi nel valutare le capacità di un atleta.

EPISODIO NUMERO 5 | La gara olimpica dell’inclusività: Nel quinto episodio parliamo di Olimpiadi e di come odio e discriminazioni purtroppo siano presenti anche nel più emblematico dei giochi sportivi. Con Federico Greco, storico dello sport, affrontiamo il modo in cui il Comitato Olimpico sta perseguendo la parità di genere e di come la società e la stampa hanno reagito ai tentativi di organizzare dei giochi più inclusivi. Nella seconda parte emerge come il lavoro fatto sull’inclusività di genere non si sia verificato anche sulla dimensione delle persone marginalizzate. Parliamo in particolare delle gravi conseguenze sociali che hanno avuto i giochi sulle fasce di popolazione più marginalizzate che abitano le banlieu parigine.

EPISODIO NUMERO 6 | Uno sport accessibile a tutte e a tutti: Nel sesto episodio parliamo dell’importanza di uno sport accessibile a tutti e tutte. Insieme a Chiara Maniero, Roberto Madinelli e Andrea Ros raccontiamo quali sono gli ostacoli alla pratica sportiva per le persone con disabilità e come, al tempo stesso, praticare sport può costituire un grande aiuto per sviluppare la propria autonomia. Andrea Ros ci racconta l’esperienza straordinaria della A.S.D. Alta Resa, una società sportiva di Pordenone che da anni porta avanti una squadra di sitting volley dove giocano insieme persone con e senza disabilità.

in aggiornamento -> presto le nuove puntate

Criminal Bullets – Roller Derby Padova

Il roller derby è uno sport di contatto sui pattini a rotelle (quad) in cui due squadre si affrontano su una pista ellittica (track) in una gara di velocità, tecnica e strategia. Nasce come sport prevalentemente femminile ed è regolato dalla WFTDA (Women’s Flat Track Derby Association). Ad oggi, è uno degli sport con crescita più veloce a livello mondiale.

Il roller derby nasce e cresce anche come sport autogestito, autofinanziato e fatto da skaters per skaters. Qui non si conoscono gerarchie, ma soprattutto è l’unico sport dove si può giocare con una squadra femminile, “all genders” o maschile in base al genere cui ci si sente di appartenere e a prescindere dal sesso biologico. Per questa ragione il roller derby promuove per statuto valori come l’inclusione, l’antirazzismo e l’antisessismo e possono partecipare tutte le persone a prescindere da età, corporatura e prestanza fisica.  

Le Criminal Bullets sono la squadra di roller derby che dal 2016 promuove a Padova i valori di questo sport. «Per noi lottare contro il sessismo nello sport è dare l’opportunità a tutt* di praticare un’attività in cui sviluppare coraggio, forza, condivisione e autodeterminazione. Lo sport per noi è uno spazio di libertà, dove poter sovvertire le regole patriarcali dominanti nella società. Un rifugio in cui essere noi stess*, ma anche una palestra dove imparare a portare fuori nuovi modi di agire e pensare. Viviamo ogni giorno lo sport come opportunità di autodeterminazione».

Amicacci Giulianova: il canestro dell’inclusione

Uscire dall’emarginazione, combattere l’indifferenza, fare della propria difficoltà un punto di forza per sperimentare nuove forme di inclusione e autodeterminazione. La palla da basket in mano, un canestro in alto ad aspettarla. Un sogno che si è realizzato, attraverso un percorso di crescita collettiva, che ha portato un cittadina abruzzese ai vertici sportivi europei.

È la storia dell’Amicacci Giulianova, una Polisportiva che ha al centro della propria attività il basket in carrozzina, una disciplina sportiva basata sull’inclusione, in cui non esiste spazio per alcuna forma di discriminazione, in cui nelle squadre di club le donne possono giocare con gli uomini e in cui il regolamento è pensato ad hoc per accogliere persone con disabilità differenti, tutte in campo con l’obiettivo di fare canestro.

L’Amicacci è la società sportiva a cui appartiene Beatrice Ion, la giocatrice azzurra di origine romena salita alle cronache per il vergognoso attacco razzista subito vicino a casa, in un villaggio di Tor San Lorenzo, ad Ardea, alle porte di Roma, dove vive con la famiglia. Un episodio inqualificabile. Dopo aver lamentato l’occupazione costante del proprio posto auto disabili riservato vicino a casa, il padre di lei è stato aggredito fisicamente ed è finito in ospedale con uno zigomo rotto, e la ragazza è stata insultata in quanto disabile e straniera. Tutto il mondo sportivo e non solo si è stretto attorno a Beatrice e alla sua famiglia. Ma questo episodio, così come le assurde code polemiche alimentate via social a cui la stessa Beatrice ha risposto, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per sensibilizzare la cittadinanza contro ogni forma di discriminazione, favorendo invece percorsi di inclusione. Ed è un lavoro lungo, proprio come raccontano la storia dell’Amicacci e del movimento del basket in carrozzina. Ne abbiamo parlato con Ozcan Gemi, ex giocatore e allenatore della squadra e di Beatrice, di origine turca, che dal 2002 fa parte della realtà abruzzese.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dagli inizi. Come è nata l’Amicacci e perché proprio il basket in carrozzina?

La società è nata nel 1982, grazie all’attenzione di un gruppo di genitori – tra cui Giuseppe Marchionni, Edoardo D’Angelo, Ronald Costantini – che, accompagnando i figli costantemente in centri di medicina e fisioterapia per problematiche legate a diverse patologie, sono venuti a conoscenza del mondo sportivo paralimpico. E hanno capito che la disabilità non poteva essere un freno alla vita ma che, anzi, i ragazzi avevano bisogno di svolgere un’attività fisica come possibilità di riabilitazione e socialità. Il primo torneo venne organizzato nel 1984 e all’epoca la cittadinanza ancora non sembrava pronta a comprendere l’importanza di un percorso di questo tipo. Ma poco per volta, con l’impegno costante di tanti volontari e famiglie, il sogno è diventato realtà. Negli anni ’90 addirittura Giulianova è divenuta il centro di un torneo internazionale estivo, organizzato all’aperto, che ha permesso un avvicinamento di tutta la città a questo straordinario sport.

Presto è arrivato l’alto livello, com’è stata la scalata ai vertici?

Dagli anni ’90 l’Amicacci si è iscritta al campionato nazionale. Dopo alcune stagioni in A2, 2007 siamo stati promossi nella massima serie e da allora non siamo più retrocessi, confermandoci sempre ai vertici del campionato italiano. Il risultato migliore a livello nazionale è stato il secondo posto nel 2018, quando siamo sconfitti in finale playoff.

Avete però un nome anche a livello europeo.

Attualmente siamo la nona squadra nel ranking continentale su circa 300 formazioni. Negli anni passati abbiamo ottenuto importanti risultati come la vittoria della Challenge Cup nel 2011 e della André Vergauwen Cup nel 2012, il secondo più importante torneo europeo. Nel 2018 siamo arrivati ai quarti di finale di Champions.

Siete un’eccellenza, ma vivete ancora degli sforzi dei volontari. Quanto è importante il lavoro con i giovani e l’attività rivolta allo sport di base?

Anche se i nostri campionati prevedono grandi investimenti, sia per le trasferte sia per il mercato dei giocatori che ormai ha un respiro internazionale (nell’ultima stagione su 12 giocatori in rosa, ben 5 erano stranieri), il sostegno dei volontari è fondamentale. Anche perché abbiamo una finalità sociale molto spiccata e lavoriamo per promuovere lo sport di base e tra i giovani. Da alcuni anni ormai portiamo avanti il progetto Amicuccioli, ossia una squadra giovanile di basket in carrozzina, che partecipa al campionato nazionale. E poi abbiamo avviato il progetto Èsportabile: incontriamo le scuole mostrando loro un documentario che racconta la storia di tre ragazzi con disabilità differenti, e alimentando il dibattito e il confronto sul tema. Vogliamo sensibilizzare, far conoscere quali sono gli aspetti della vita di un ragazzo disabile a chi non vive tutti i giorni questa condizione.

Quali sono le caratteristiche principali del basket in carrozzina?

Innanzitutto bisogna ricordare che è uno dei principali sport paralimpici, uno sport molto completo, si gioca su campi regolamentari di basket, con la stessa palla e il canestro posto alla stessa altezza della pallacanestro classica. La carrozzina è personale, realizzata su misura con le ruote inclinate per dare maggior stabilità (insieme alle rotelle anti-ribaltamento poste sul retro) e per difendere il giocatore durante i contrasti che sono frequenti nel corso delle partite.

E qual è il criterio per comporre le squadre? Visto che le disabilità, e di conseguenza la mobilità dei giocatori, possono essere differenti…

Ad ogni giocatore, in base alla propria disabilità, viene assegnato un punteggio. Il totale della squadra non deve superare 14,5 punti. Questo porta le formazioni a essere composte da persone con disabilità più e meno gravi. Più la disabilità è importante più il punteggio del singolo giocatore è basso. L’inclusività del nostro sport si basa proprio su questo. Un meccanismo che consente alle ragazze di giocare con i ragazzi, perché anche in questo caso si può andare a compensare il punteggio portato dalla giocatrice (che ha un abbattimento di 1,5 punti) con quello degli altri componenti della squadra. Stesso discorso per i normodotati senza alcuna disabilità, che nel minibasket e nel campionato di serie B possono essere inseriti in squadra, portando con sé un punteggio più alto.

Cos’ha comportato per la vostra realtà e il movimento italiano del basket in carrozzina l’emergenza COVID19?

L’annullamento di tutti i campionati… Lo scudetto quest’anno non sarà assegnato. E anche la “dispersione” dei giocatori, molti dei quali nel nostro caso non sono originari di Giulianova, ma vengono da altre città italiane o dall’estero, e sono tornati a casa. Quindi ora non ci stiamo allenando come gruppo. Per l’attività di base è stato altrettanto difficile, perché per molti mesi non si è potuti tornare in palestra.

Raccontaci qualcosa di Beatrice Ion. Quanto vi ha colpito il terribile episodio di cui è stata vittima?

Beatrice è una giocatrice dell’Amicacci da due anni. L’ho conosciuta durante un campo di minibasket che organizziamo ogni anno, a cui partecipano bimbi e ragazzi di diverse età per una settimana di sport e divertimento. Lei giocava al Santa Lucia di Roma ed era già molto brava. Due anni fa le ho proposto di venire a giocare nella nostra squadra e ha accettato, si è trasferita in zona e si è iscritta all’università di Teramo.

Quello che è successo a Beatrice è inaccettabile e indescrivibile ed è lo specchio di quanto razzismo e scarsa cultura del rispetto ci sia nella nostra società.

L’abbiamo sentita particolarmente sconvolta, soprattutto per l’aggressione fisica subita dal padre.

Beatrice Ion in una fotografia di Daniele Capone

Al di là dell’episodio singolo, quanto lavoro c’è ancora da fare per stimolare una cultura del rispetto e dell’attenzione alle persone con disabilità?

Molto. Diciamo che la società sta crescendo, ma ancora bisogna lavorare. Ad esempio nella nostra regione, l’Abruzzo, abbiamo grandi differenze tra la zona costiera dove le città sono a misura di tutti, mentre nell’interno non è ancora così. E lo vediamo girando per le strade tutti i giorni, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ma non è un’attenzione che si deve avere solo nei confronti delle persone con disabilità, ma verso tutti, gli anziani, una madre o un padre che spingono un passeggino. Spesso noi andiamo nelle scuole per incontrare i ragazzi, grazie al nostro progetto di sensibilizzazione, e portiamo un bagaglio di esperienza. Spieghiamo l’importanza degli scivoli e dei parcheggi per disabili, soprattutto per garantire l’autonomia alle persone. Certe cose non sono scontate. Faccio un esempio: a me non serve che il posto auto riservato sia davanti all’ingresso del luogo dove devo andare, ma mi serve che abbia dello spazio attorno per aprire completamente la portiera della mia macchina, appoggiare la carrozzina per terra, uscire dall’auto, sedermi sulla carrozzina e muovermi in autonomia. Sono cose a cui una persona che non vive queste difficoltà a volte non arriva neanche a pensare.

Chi vive la disabilità quotidianamente non ha bisogno di essere compatito, ma di essere rispettato e tenuto in considerazione. Una società attenta ai diritti dei più deboli non può che essere una società avanzata e che lavora per il benessere di tutti.

La panchina “bianca”

A quasi un mese di distanza dall’8 giugno le parole di Raheem Sterling e Sol Bamba, sembrano aver fatto breccia nella federazione inglese. Sterling, attaccante del Manchester City e della nazionale inglese, aveva lamentato la scarsità di allenatori, manager, preparatori appartenenti a minoranze etniche nel professionismo inglese.

di Luca School – un articolo di sportallarovescia.it

Nel campionato inglese, su poco più di 500 giocatori, i Colored sono circa un terzo, ma la cifra è molto più misera se si guarda ai settori tecnici. Sulle panchine dei 98 club dei 5 top campionati europei, sono solo due gli allenatori neri: Patrick Vieira per il Nizza e Nuno Espírito Santos per il Wolverhampton. Vi è una sorta di barriera etnica che tende ad accettare solo i bianchi.

Sir Alex Ferguson è da sempre una figura paterna per me. Deciso a diventare allenatore, sono andato da lui e gli ho detto quello che avevo intenzione di fare. Lui mi ha dato alcuni consigli e mi ha sempre detto che avrebbe garantito per me, nel caso in cui avessi avuto bisogno di una raccomandazione per allenare ed è così ancora oggi, ma malgrado il suo aiuto, non riesco a fare nemmeno un colloquio.

Dwight Yorke

Da alcuni anni la lega inglese cerca con varie iniziative di invertire questa tendenza. ma fino ad oggi è rimasto tutto un buco nell’acqua fino. Ed ecco quindi che il calcio inglese professionistico decide di prendere petto la questione e istituisce nei propri corsi di formazione e inserimento lavorativo dei posti riservati a cittadini BAME (Black, Asian and Minority Ethnic), dimostrazione di come si possa almeno a livello federale affrontare seriamente un problema. Attenzione non si pensi che questo risolva la questione o che possa essere una soluzione definitiva, cosa palesemente dimostrata dalla disfatta totale delle campagne UEFA contro il razzismo negli stadi, ancora oggi infestati da scene indegne. Ma il calcio inglese si è reso conto che è un problema di natura sociale: finché i giovani calciatori membri di minoranze non avranno figure di riferimento ulteriori ai giocatori non cambierà nulla o quasi, servono modelli, persone a cui ispirarsi che siano oltre il grande campione sul campo, più adulte e mature, rispettate per la loro intelligenza e il loro carattere, più che per prestanza fisica e doti tecniche.

Quando la gente dubita dell’intelligenza di un’etnia, la situazione diventa impossibile. È normale che ci siano tanti giocatori di colore, perché la gente pensa che siano grandi atleti con buone capacità fisiche, ma per essere allenatore servono intelligenza e disciplina. In campo va tutto bene, ma fuori è complicato perché c’è gente che dubita che la gente nera sia capace.

Lilian Thuram

Un giovane calciatore, quale sia la sua etnia, sa di dover pensare al proprio futuro dopo i 35- 40 anni di età. Ai calciatori membri di minoranze mancano figure cui ispirarsi e ambire. Se un ragazzino nero non ha nessun esempio di leader nero nel calcio, come allenatore, dirigente, presidente, come potrà immaginare di essere lui stesso in futuro qualcosa del genere? Su questo problema le federazioni possono agire immediatamente attraverso programmi e incentivi. La disparità di trattamento che subiscono i tecnici neri nel mondo del calcio è un dato di fatto nei campionati inglesi, ma anche a livello globale.

Alcuni vecchi giocatori di colore, non prendono il titolo da allenatore anche se magari lo vorrebbero. Naturalmente ci sono molti allenatori africani che hanno il tesserino da allenatore, ma semplicemente non esiste quella fiducia, che, invece, c’è nei confronti degli altri allenatori. I tecnici di colore sono sfiduciati perché visti come esseri di seconda classe.

Samuel Eto’o

In Italia come siamo messi?

In Italia abbiamo avuto tre allenatori BAME: Jarbas Faustinho, meglio noto come Cané, Fabio Liverani e Clarence Seedorf. Il mondo del calcio italiano sotto il profilo amministrativo è eccentrico, questioni come la piazza, i tifosi, gli sponsor, influiscono moltissimo nelle scelte aziendali dei grandi club e suppliscono a fattori come l’esperienza e la professionalità, non solo nella fase del mercato e gestione dei calciatori, ma anche in quello della gestione aziendale dei manager. Ad esempio, nel settore allenatori è sempre più in uso, specie nei momenti di crisi, puntare su un grande nome anche privo di esperienza almeno per calmare la pancia dei tifosi; pensiamo ai vari avvicendamenti sulla panchina del Milan: Brocchi, Gattuso, Inzaghi, Seedorf. Grossi nomi, bei palmares, poca o nessuna esperienza, la possibilità di guardare qualcosa di straniero, magari qualche allenatore che si è fatto le ossa nei campionati fuori Uefa, ma scherziamo (qui facciamo un’eccezione per alcuni tecnici sudamericani i quali comunque prima fanno esperienza in squadre medio piccole). Difficilmente un club nostrano assumerebbe un tecnico di formazione africana o asiatica e incorrerebbe in critiche furiose anche da una certa quota degli opinionisti, i quali ricorderebbero statistiche varie per giustificare le loro sicure castronerie. In Italia esiste tutt’ora una fetta fin troppo ampia di sedicenti tifosi che sostiene la non capacità dei portieri di origine africana. Dei vari tecnici del Milan l’unico che è stato accusato di non capir nulla di calcio è Seedorf ed è l’unico che fatica a trovare un impiego come tecnico, eppure la sua media di vittorie era la più alta tra i nominati. Fabio Liverani dopo la brevissima panchina al Genoa ha dovuto fare tutto il percorso dalla serie C, attraverso anche l’esperienza al Leyton Orient.

Gli allenatori di colore sono un tabù. Il motivo non lo so ma è un dato di fatto. C’è Seedorf che ha avuto un discreto successo in mondi diversi, ci sono diversi tecnici sudamericani neri, ma gli allenatori di colore dovrebbero essere di più.

Sven-Göran Eriksson

Se allarghiamo lo sguardo fuori dalla Uefa dove le percentuali di atleti BAME salgono, c’è da restare basiti e due dati su tutti saltano agli occhi. Primo che in Brasile, Paese in cui il 60% della popolazione si identifica con l’etnia nera o meticcia, vi sono solo due tecnici di colore, gli allenatori Marcão della Fluminense FC e Roger Machado dell’EC Bahia. Secondo, che il senegalese Aliou Cissé era l’unico allenatore nero ai Mondiali di Russia nel 2018. Inutile dire che non ci siamo. Un triste esempio giunge proprio dalle federazioni africane dove si preferisce affidare le selezioni nazionali a tecnici europei, a fronte sia di grandi allenatori locali, sia di grandi ex giocatori locali di scuola europea. Tutti e tre i tecnici nominati hanno lamentato negli anni questa discriminazione de facto. Il progetto della lega inglese se portato a termine è un buon inizio, un esempio che le altre federazioni nazionali dovrebbero adottare, integrandolo a finanziamenti reali e strutturali per tutte quelle realtà sportive di basse che utilizzano lo sport come strumento di lotta al razzismo e alle discriminazioni.

Ripensando alla mia carriera, ci sono state delle volte in cui non ho volutamente detto quello che pensavo perché ho avuto paura delle possibili ripercussioni e di come sarei stato giudicato dalla gente. Se sei in uno sport dominato dai bianchi e le persone ai vertici sono prevalentemente maschi bianchi, l’ultima cosa che vuoi è dire qualcosa di inappropriato. Spesso mi sono trovato ad agire in un determinato modo per adattarmi agli altri e non essere giudicato solo perché ero nero.

Micah Richards