Consapevolezza, il tempo opportuno per compiere i passi importanti, la fortuna di aver trovato l’allenatore giusto, quello che ti vede prima come persona e poi come atleta e potenziale campionessa da allenare e portare in alto. Sì, più in alto possibile. La storia di Elisa Molinarolo, nata ginnasta, oggi atleta delle Fiamme Oro tra le più forte astiste del mondo, racconta di fatiche, costanza e di un percorso che dovrebbe ideale per ogni sportiva: maturato negli anni senza la fretta di bruciare le tappe, per arrivare, a 30, a conquistare un sesto posto olimpico e la voglia di migliorarsi ancora. Ma la sua storia sportiva è fatta anche di autodeterminazione, quella che la vede combattere contro gli stereotipi legati al corpo delle atlete e il body shaming, e di cui, a seguito di un particolare episodio di hate speech subito, è diventata simbolo e protagonista.
Partiamo dall’apice dei tuoi risultati sportivi: il sesto posto nella finale di Parigi con tanto di record personale (4.70). Un momento storico. Ma non erano le tue prime Olimpiadi. Come le hai vissute e quali sono state le differenze tra le due esperienze?
“La mia prima partecipazione olimpica è stata a Tokyo, dove però non ero ancora un’atleta professionista, mi allenavo dopo 8 ore in ufficio, non avevo mai disputato Mondiali o Europei. Mi sono trovata a vivere la prima esperienza internazionale dall’altra parte del mondo, durante una pandemia e senza il mio allenatore. L’ho interpretata quasi come un regalo alla mia carriera. Mai avrei immaginato cosa avrei potuto fare ancora. Ma dal 2022 le cose sono cambiate: sono entrata nel gruppo sportivo della Polizia di Stato, le Fiamme Oro, ho iniziato a dedicarmi a tempo pieno allo sport e i risultati parlano da soli: finale mondiale nel 2023, finale olimpica con sesto posto 2024. Rispetto a Tokyo, dove sono arrivata diciottesima, ho vissuto Parigi con una consapevolezza diversa, ma anche con la paura di fare peggio di tre anni prima”.
Quella in Francia è stata una finale strana, con 20 astiste ammesse, rispetto alle classiche 12, per degli ex aequo in qualificazione. Una situazione che ha comportato tempi più lunghi e la necessità di non cedere mentalmente. Sapevi di poter arrivare così in alto?
“Il giorno della finale ero tesissima, in riscaldamento ho avuto una piccola défaillance mentale. Mancavano ancora due ore alla gara, ho iniziato ad avere caldo, mi sono messa del ghiaccio nella schiena, ho mangiato una caramella, continuavo a ripetere: voglio andare a casa. Ma quando siamo entrate in campo gara, fin dal primo salto ho capito che volevo essere lì. Sono stata sempre molto concentrata. Alla fine di ogni salto mi toglievo le scarpe, mi mettevo il cappuccio e mi isolavo. Rispetto agli Europei di Roma di giugno, in cui ero reduce da un infortunio, ero molto più preparata. E rispetto ai Mondiali di Budapest di agosto 2023, dove realizzare 4.65 in finale mi ha sorpresa ed emozionata molto, a Parigi sapevo di poter valere il mio primato: 4.70. Era arrivato il momento. Sono stata sostenuta dalla mia tenuta mentale, forse una delle mie migliori caratteristiche, come già quando ero ginnasta”.
Già, la ginnastica artistica. Il tuo primo grande amore. Sei stata una grande interprete di questa disciplina, campionessa italiana junior al volteggio nel 2009 e in diverse stagioni protagonista della Serie A con l’Ardor Padova. Cosa porti con te di quegli anni?
“Ho iniziato a 3 anni e a 12 ho lasciato la mia città, Soave, per trasferirmi a vivere a Padova, lontana dalla famiglia. È stata una vita dura, vivevo nella foresteria della palestra, facevo doppi allenamenti tutti i giorni, con i professori che venivano a farci lezione private nel pomeriggio. Passando alle superiori ho ripreso a frequentare la scuola statale, ma con orari ridotti per poter continuare a seguire il programma di allenamenti. È stato un periodo importante per me, ma anche molto complesso. Vivevamo in un clima di costante controllo. Gli ultimi anni di allenamento sono stati pesantissimi, mi allenavo 7 ore al giorno, senza bere acqua perché – ci dicevano – altrimenti saremmo ingrassate. Mi pesavano due volte al giorno. Quello del peso con la mia crescita diventò un problema, un’ossessione”.
La tua potenza cresceva, così come la tua altezza, anomala nella media delle ginnaste che praticano ginnastica artistica, generalmente più piccoline. È stato anche questo a farti guardare attorno e immaginare di poter praticare uno sport diverso?
“Un giorno vidi in televisione una campagna di un noto marchio sportivo dal claim ‘Impossibile is nothing’. La testimonial era Yelena Isinbaeva, pluricampionessa di salto con l’asta, che si disegnava come una ginnasta che diventava troppo alta e sbatteva con i piedi contro gli staggi delle parallele. E allora decise di provare a il salto con l’asta. Mi rividi in quella dinamica, ma pensare di dire ai miei genitori che avrei voluto provare a cambiare sport mi terrorizzava. Avevano fatto grandi sacrifici, dalle trasferte, ai body, ai materiali utili alla ginnastica. Ogni cosa aveva un costo. Dopo due anni, però, fu mia mamma ad accompagnarmi a provare, in un campo proprio vicino alla palestra di ginnastica. Era l’estate del 2011 e fui accolta dal Gruppo Asta Padova. Lo scegliemmo a caso, per comodità, ma sono stata fortunata: ho trovato un ambiente splendido, molto specializzato e di grandi appassionati, con un centinaio di saltatori di tutte le età, dai bambini di 7 anni ai master di 70 anni. Tante aste a disposizione, il che non è scontato. E soprattutto, la fortuna più grande, un allenatore come Marco Chiarello, che veniva a sua volta dalla ginnastica e mi ha subito capita”.
Avevi 17 anni, eri giovanissima, ma per la ginnastica – dove si diventa senior a 16 – eri già un “adulta”, con una carriera definita. Com’è cambiato il tuo approccio allo sport?
“Nell’atletica mi ritrovai nella categoria allieve, con la possibilità di costruirmi una carriera, mentre nella ginnastica si è allieve a 8 anni. Per diverso tempo ho portato avanti entrambe le attività. Nel 2015, ad Ancona nella stessa domenica ho disputato i campionati italiani di entrambe le discipline, uno al mattino e uno al pomeriggio. Amavo la ginnastica come sport, ma il suo ambiente mi stava diventando troppo stretto, soprattutto dopo aver capito che si poteva fare sport in maniera diversa, essere felici. Ho disputato l’ultima Serie A con l’Ardor Padova nel 2016. Poi ho lasciato la ginnastica e l’anno successivo sono diventata campionessa assoluta di salto con l’asta. Puntavamo in alto, perché le potenzialità le avevo, ma insieme a Marco ci rendemmo conto che mancava qualcosa. Nell’ottobre del 2020, a seguito dello spostamento dei Giochi Olimpici di Tokyo al 2021, abbiamo provato a fare il salto di qualità, introducendo nel team tre figure fondamentali: la nutrizionista con cui ho fatto un percorso incredibile, che mi ha fatto cambiare il difficile rapporto con il cibo, senza mai puntarmi contro il dito; il fisioterapista una volta a settimana, per prevenire prima che curare, e la psicologa, per un sostegno all’occorrenza. Da quel momento, anche se ancora lavoravo in ufficio otto ore, ho iniziato a comportarmi come una vera atleta professionista.”.
Dopo Tokyo sei entrata a far parte delle Fiamme Oro, uno dei gruppi sportivi militari che in Italia sostiene gli atleti e le atlete che praticano sport dilettantistici e che, in questo modo, percepiscono uno stipendio statale e possono allenarsi a tempo pieno. Cos’è cambiato per te?
“Il 31 gennaio 2022 ho lasciato il mio vecchio lavoro. E il primo mese ho riposato tutte le ore che non avevo mai dormito. La mia vita è cambiata di colpo, mi sono trovata un po’ spiazzata. Il primo anno è stato di assestamento, ma per fortuna il mio allenatore, il Gruppo Sportivo e i tecnici federali non mi hanno messo fretta, sapevano che avevo bisogno di tempo per adattarmi. E così è stato. Ai Mondiali del 2023 indoor sono stata la prima esclusa dalla fine, poi ho conquistato la finale ai Mondiali estivi ed è stato un crescendo fino a Parigi. A dimostrazione del fatto che gli atleti vanno anche aspettati e compresi”.
A Parigi tutta Italia ti ha ammirata e tifata, per un sesto posto storico. Ma purtroppo c’è stato chi – attraverso i social – ti ha attaccata con parole d’odio prendendo di mira il tuo corpo. Un orribile commento di hate speech poco dopo la tua finale. Ma tu hai deciso di non stare zitta e denunciare, farlo prima attraverso i social e poi per vie legali. Perché?
“Tornata da Parigi ho iniziato a scorrere i messaggi sui social, tantissimi. Tra le ‘richieste di messaggi’ ne ho notata una, inviatami appena 7 minuti dopo il termine della finale. Mi insultava, additando al mio fisico la mancata medaglia, non ci ho più visto. Portavo su di me una storia di offese e privazioni. Fin da bambina, sono stata quella troppo grassa, troppo alta, tutti hanno sempre avuto da dire sul mio corpo. Addirittura, dopo Tokyo era uscito un articolo su un giornale locale, firmato da un mio vecchio professore, in cui si sosteneva che non fossi entrata in finale perché il mio fisico era troppo robusto. Questa volta ho deciso di non stare zitta. Prima ho denunciato il messaggio attraverso i social. La Gazzetta dello Sport è stata la prima testata a riprendere la mia story e a far diventare l’episodio un caso che è rimbalzato ovunque. L’autore del messaggio ha poi continuato a scrivermi, rincarando la dose, dicendo che – essendo stipendiata dallo Stato – devo prestare attenzione al mio fisico. Alla fine, ho deciso di presentare denuncia anche per via legale”.
E come si è conclusa la vicenda?
“Dopo un mese e mezzo è arrivata la richiesta di archiviazione. Forse è questo che mi lascia più amaro in bocca. Cosa significa? Che tutti sono liberi di insultarci senza problemi attraverso i social? Chi ci tutela? Io non lo dico per me, che ho la fortuna di avere un gruppo di supporto, un team e una famiglia forti alle mie spalle. Lo dico per tutte quelle persone, soprattutto giovani, che possono trovarsi sole, disarmate, fragili. Ricordo che durante un incontro pubblico sul tema dissi: ‘Comunque, questa persona non ha ammazzato nessuno’. Un pedagogista presente è intervenuto ribattendo: ‘Per il momento, perché la settimana scorsa si è ammazzato un ragazzo’ per cyberbullismo. Questo fa capire la delicatezza di certi meccanismi e il peso che possono avere le parole”.
Noi atleti, anche per il nostro ruolo pubblico, abbiamo il dovere di batterci affinché non avvenga più
A seguito di questo episodio, sei diventata un punto di riferimento per tante persone che hanno vissuto la stessa situazione.
“Ricevo messaggi bellissimi sia da parte di ragazze sia da parte di genitori, ma anche qualcuno che dice: un’atleta come te, non deve nemmeno considerarla una persona che scrive questi insulti. E questo non penso sia giusto. Quando si scrive sui social, non sai mai chi hai dall’altra parte, come la persona può reagire a un insulto, come può vivere un’offesa. Tutti spesso si limitano a vedere l’Elisa atleta in pedana, sorridente, in forma. Ma non sanno cosa c’è dietro, la guerra interiore che ciascuno di noi può vivere. Ed è proprio questo che cerco di trasmettere ai ragazzi quando li incontro nelle scuole. Pensare alle conseguenze delle nostre parole”.