Lo sport, come il resto delle attività umane, sta vivendo una fase epocale: per due mesi abbondanti, tra metà maggio e fine luglio dello scorso anno è sostanzialmente sparito, tanto a livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo.
Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che, a partire dall’ambito sportivo, mirano alla lotta contro ogni discriminazione. Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata costantemente e il sistema di aiuti messo in piedi dal governo è risultato insufficiente. Le disuguaglianze già presenti nella nostra società sono aumentate drasticamente: chi era già in una situazione di difficoltà, ora a stento riesce a sopravvivere. La prima parte del webinar si è focalizzata su come le realtà dello sport di base si sono “reinventate”, senza però perdere di vista la propria vocazione naturale, ossia l’attività sportiva. Quando è stato possibile si è cercato di far rivivere i vuoti urbani, di dare dignità ad impianti sportivi abbandonati per poter praticare sport all’aperto.
Nel frattempo, il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità, spinto dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.
Il 4 febbraio 2021 si è svolto il primo webinar, realizzato da Sport alla Rovescia e Radio Sherwood, all’interno del progetto “Odiare non è uno sport”. Esplicito il titolo: “La fase 3 dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”
All’evento hanno partecipato alcune realtà che nel corso della campagna di contro-narrazione sono state intercettate e intervistate, grazie alle trasmissioni radiofoniche andate in onda ogni mese, ai servizi fotografici e agli storytelling video.
Sono intervenuti l’Asd Quadrato Meticcio di Padova, il St. Ambroeus FC di Milano, la polisportiva San Precario di Padova, l’Atletico No Borders di Fabriano, le Criminal Bullets – Roller Derby di Padova, i Briganti Rugby Librino di Catania e gli RFC Lions di Caserta.Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità.
Nell’ultima parte dell’incontro ci si è concentrati su come sarà la ripartenza. Tante realtà dello sport dilettantistico avranno tante difficoltà nel portare avanti tutti i progetti di contrasto all’odio e integrazione che hanno da sempre caratterizzato il loro percorso. Il fare rete tutti insieme sarà il motore sia per ricominciare con tutte le attività sociali, ma anche per creare vertenza nei confronti delle istituzioni sportive per far ripartire il mondo dello sport in una maniera diversa rispetto a prima.
Webinar – Quale futuro per i processi di integrazione?
Quale sarà il futuro dello sport dilettantistico in seguito alla pandemia e quali le prospettive e le azioni concrete da sviluppare per continuare i processi di integrazione? Giovedì 4 febbraio, alle ore 19, saremo online per un Webinar dedicato al tema, a cui sarà possibile partecipare via Zoom e che sarà trasmesso in diretta sulla pagina FB di Odiare non è uno sport.
L’appuntamento, dal titolo “La ‘fase 3’ dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”, coinvolge realtà sportive e atleti intercettati nel corso della campagna di contronarrazione del progetto. Sarà occasione per riflettere sulla situazione che sta vivendo il mondo sportivo, a causa della pandemia. Un contesto dove, con gli stadi chiusi, l’unico serbatoio in cui riversare l’odio sono rimasti i social. Mentre, con lo stop allo sport di base e dilettantistico, è fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione.
Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata, le disuguaglianze si sono acuite, chi era già in una situazione di difficoltà ora a stento riesce a sopravvivere. Il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità: una scelta che ha portato fuori dai campi di gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla situazione sanitaria.
Ne parleremo con Camilla Previati (ASD Quadrato Meticcio – Padova), Stefano Carbone (Polisportiva San Precario – Padova), Jacopo Mazziotti (St. Ambroeus FC – Milano), Federico Dagoli (Atletico No Borders – Fabriano), Teresa Carraro (Criminal Bullets – Roller Derby Padova), Marco Proto (RFC Ska Lions Caserta), Enzo Ardilio (Briganti Librino Catania).
Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità. L’odio nei social network e nello sport si interconnettono costantemente; ad accrescere questa tesi basti pensare che nel mondo dello sport perfino “gli odiatori” hanno bisogno dell’avversario.
Dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 il centro CODER dell’Università di Torino ha monitorato alcuni social network – analizzando 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter – delle cinque principali testate sportive italiane. Ne è uscito un Barometro che, purtroppo, segnala “alta pressione”. Il risultato più rilevante della ricerca è che il linguaggio d’odio è una componente strutturale del linguaggio sportivo, che si può classificare con quattro dimensioni: linguaggio volgare, aggressività verbale, minacce e discriminazione.
In una rivelazione svolta dall’Università di Milano, nel periodo marzo-settembre 2020, sono stati raccolti 1.304.537 tweet dei quali 565.526 negativi, contenti parole d’odio (il 43% circa vs. 57% positivi). Quello che emerge è una decrescita significativa dei tweet negativi rispetto al totale dei tweet raccolti. “Fattore determinante nell’analisi di quest’anno è stato lo scatenarsi della pandemia da Covid-19” osserva la ricerca, secondo la quale “ansie, paure, difficoltà si sono affastellate nel vissuto quotidiano delle persone, contribuendo a creare un tessuto endemico di tensione e polarizzazione dei conflitti”.
Anche lo sport viene da un anno epocale: per due mesi abbondanti tra metà maggio e fine luglio 2020 è sostanzialmente sparito, tanto al livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo. Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che oltre all’attività sportiva, porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione. In questo contesto si inseriscono le realtà di sport popolare e indipendente attive sul nostro territorio, che si sono messe al servizio delle comunità, senza chiedere nulla, spinti dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.
Lo sport italiano sta vivendo una delle sue stagioni più difficili. Soprattutto quello di base. Sì, perché dall’inizio dell’emergenza Covid-19, per quanto tutto il Paese abbia subito ripercussioni difficili da affrontare, uno degli ambiti maggiormente colpiti è stato proprio quello in cui operano le Associazioni sportive dilettantistiche. Realtà che vivono grazie alle rette (spesso popolari) pagate dagli iscritti, che fanno affidamento su personale preparato ma non inquadrato contrattualmente, che si confrontano con il problema degli impianti: se privati, con affitti alti e utenze da pagare a fronte di entrate praticamente nulle, se pubblici, comunque off-limits, in quanto per lo più palestre scolastiche inaccessibili in questa fase a personale esterno.
Ne abbiamo parlato con Andrea Bruni, responsabile nazionale CSEN Progetti. Lo CSEN, ente di promozione sportiva, è tra i partner del progetto Odiare non è uno sport e da sempre è impegnato nella promozione dello sport di base e dello sport integrato.
di Ilaria Leccardi
Andrea, come sta vivendo lo sport di base la situazione attuale e le decisioni prese dal governo in seguito all’emergenza Covid-19?
Sembra che nella gestione della situazione sanitaria non ci sia stata attenzione all’importanza che l’attività sportiva ha nella vita delle persone. E in Italia questo è prima di tutto un problema culturale. Invece sappiamo che alcune attività possono essere portate avanti in sicurezza, senza rischi di contagio, nel pieno rispetto delle regole sanitarie. Sia in piscina sia in palestra, ma anche negli sport di contatto. A partire da marzo le associazioni sportive hanno compiuto sforzi notevoli, spesso con costi importanti, per adeguarsi alle disposizioni. Ma tutto questo non è stato sufficiente.
La chiusura è stata un errore?
Dobbiamo dividere tra le imprese sportive commerciali e le Asd, Associazioni sportive dilettantistiche, sono due approcci molto differenti. Per come è stato affrontato il problema, si sarebbe potuto fare più attenzione alle specifiche situazioni e non chiudere tutte le attività in modo uniforme. Sarebbe stato necessario puntare sulla responsabilità individuale con adeguati controlli. Ricordiamoci che le attività sportive di base non sono solo movimento fisico finalizzato al benessere individuale.
Pensiamo ad esempio allo sport integrato, su cui noi come CSEN abbiamo fortemente investito negli ultimi anni e che permette la condivisione, anche sociale, tra persone disabili e non disabili. Ma questa situazione chiude tutto, anche le possibilità rivolte alle persone socialmente più fragili.
Come hanno risposto alla situazione le associazioni affiliate allo CSEN?
Hanno cercato di portare avanti delle attività online. Dal punto di vista meramente sportivo lo puoi fare, ma manca tutta la dimensione psicofisica, di relazione sociale. Un’esigenza reale che non si recupera in alcun modo. Anche tra le fasce di ragazzi più giovani, la mancanza di confronto su questo piano rischia di far crescere delle difficoltà sociali che andranno affrontate. In l’Italia siamo culturalmente più adeguati nella gestione delle emergenze che nella programmazione delle soluzioni e in queste occasioni il nostro limite emerge con chiarezza.
Su cosa si sarebbe potuto puntare per mantenere viva anche in una situazione fortemente critica una qualche forma di attività in presenza?
C’è chi ha proposto soluzioni innovative, senza ricevere ancora troppo ascolto. Ma continuiamo ad insistere per esempio puntando su spazi esterni alle aule scolastiche come i cortili, i parchi, le sedi del terzo settore, gli spazi urbani, le biblioteche, dove poter svolgere attività scolastiche in ambiente esterno anche su argomenti che favoriscono la crescita delle soft skill e delle competenze trasversali. In questo percorso gli Enti del terzo settore potrebbero essere un forte alleato.
Sono in molti a dire che questa situazione avrà ripercussioni drammatiche a livello di relazioni.
Diciamo che se a marzo-aprile poteva esserci l’elemento di novità e quindi lo stare in casa e trovare soluzioni via web poteva essere positivo, ed era comunque una fase in cui prevaleva psicologicamente la necessità di non uscire per garantire la sicurezza, ora il rischio è che si incorra in una depressione collettiva, un senso di demotivazione generalizzato. Se si era già in una condizione di marginalità, si rischia un aggravamento. Se si viveva in una situazione di povertà educativa, questa diventerà ancora più drammatica.
Potrebbe tuttavia essere un buon momento per tornare a ragionare su alcuni temi chiave dell’universo sportivo?
Sì. Anche perché proprio quest’anno si discute della Riforma dello Sport proposta dal governo. Purtroppo la dialettica per ora si è arenata sulle governance delle presidenze federali. Un potere che parla di se stesso. Ed è un peccato, perché i temi da affrontare sarebbero tanti, tutti molti più interessanti e aderenti alla realtà. Non ultimo l’hate speech, al centro del progetto Odiare non è uno sport, o tutti gli argomenti sociali che stanno dentro alla tematica sportiva più generale, come la violenza, le forme di aggregazione sociale…
Si deve lavorare con una politica chiara per sostenere lo sport in quanto attività educativa e sociale. Non è scontato e non si può pensare di lasciare l’iniziativa al singolo tecnico.
Sembra prevalere uno sguardo attento ai vertici…
Sì, anche in merito alla pratica sportiva. In Italia l’attenzione va sempre molto all’élite, quasi che fare sport a livello amatoriale non sia importante. Come se lo sport non di eccellenza fosse una perdita di tempo. Ma sappiamo che non è così e se le persone stanno bene, fisicamente e mentalmente, è anche perché riescono a seguire una preparazione sportiva completa e continuativa. In Italia ci sono 14 enti di promozione sportiva che sono attivi e a cui deve essere garantito di poter continuare a operare. Sia in termini di agonismo, per consentire a giovani e meno giovani di accedere ai rispettivi circuiti di gare, sia nella pratica sportiva quotidiana finalizzata al benessere individuale. Se si guarda alla curva dell’attività sportiva e motoria in Italia si nota un calo incredibile tra gli adolescenti, perché manca la motivazione se non si fanno le gare. L’idea dominante è che o diventi un’eccellenza o perdi tempo.
E che riconoscimento ha chi ogni giorno lavora nelle palestre?
Quella dell’operatore sportivo è uno delle poche categorie a non avere un contratto di lavoro nazionale. Ora, grazie alla possibilità di richiedere il bonus, Sport e Salute [la società di servizi a cui è affidato il compito di occuparsi dello sviluppo dello sport in Italia, ndr] sa potenzialmente quanti sono i tecnici sportivi nel nostro Paese e a loro andrebbe garantita la possibilità di godere di un contratto stabile. Questo, tuttavia, comporterebbe per le piccole associazioni sportive un aumento dei costi e si tratta di un problema che va affrontato a livello nazionale. La piccola Asd, per poter garantire degli inquadramenti corretti, deve essere sostenuta, altrimenti si aggiusta una falla nel sistema ma se ne crea un’altra.
Sappiamo che a settembre, anche prima della chiusura forzata, molte Asd hanno dovuto confrontarsi con un calo delle iscrizioni. Un po’ per paura, un po’ per soldi, le famiglie hanno anticipato il governo nella decisione di non iscrivere i propri figli all’attività sportiva. E molte realtà rischiano la chiusura per l’impossibilità di far fronte ai costi, soprattutto degli impianti. Quando si potrà fare una valutazione concreta sulle ripercussioni di questa annata?
Sul livello dei tesseramenti ad oggi abbiamo delle cifre che non danno dei riscontri reali, perché molte persone si sono iscritte a inizio anno, ma non è detto che abbiano poi mantenuto una frequenza nelle rispettive realtà. La valutazione sarà da fare nel primo trimestre del 2021. Le associazioni sportive per poter lavorare devono essere inserite nell’albo nazionale gestito dal Coni e se il prossimo anno ci saranno meno richieste di affiliazione dovremo purtroppo constatare che alcune avranno chiuso.
Perché in strada non si imponga la regola del più forte
L’emergenza Covid-19 ha stravolto le nostre quotidianità, imponendo nuovi ritmi e nuove esigenze, creando un’emergenza anche dal punto di vista sociale ed economico. Durante gli oltre due mesi di chiusura di gran parte delle attività e dei centri urbani si è assistito a una “liberazione” o meglio a uno svuotamento delle strade, evidente soprattutto nelle grandi città, che ha portato anche al miglioramento della qualità dell’aria. Tuttavia ora si pone il problema di come affrontare la ripresa tanto attesa, anche dal punto di vista della mobilità, tenendo in considerazione che sarà necessario mantenere distanze di sicurezza in ambiente pubblico e quindi in ogni spostamento. L’alternativa sarà solo l’auto? Oppure si preferirà puntare sulle due ruote, con una scelta orientata anche alla tutela ambientale? E i mezzi pubblici che ruolo avranno?
Marco Scarponi è presidente della Fondazione Michele Scarponi, nata in onore del fratello, il grande ciclista vincitore del Giro d’Italia 2011, ucciso da un uomo alla guida di un furgone che non gli diede la precedenza svoltando a sinistra e lo colpì in pieno durante un allenamento mattutino in strada il 22 aprile 2017. La Fondazione, che si occupa di promuovere la cultura della mobilità sostenibile e di contrastare la violenza stradale, è tra i firmatari della lettera che alcune settimane fa diverse realtà italiane hanno inviato al governo per chiedere maggiore attenzione al tema della mobilità sostenibile e misure adeguate ad affrontare il post-emergenza. L’ultimo decreto emesso dal governo in parte risponde a queste richieste, ma c’è ancora moto da fare.
“Soprattutto perché – spiega Marco Scarponi – non si tratta solo di una risposta alla situazione che vivremo nei prossimi mesi, ma della necessità di iniziare finalmente anche in Italia a promuovere una cultura e un modo diverso di pensare la strada che non deve essere il luogo dove vige la regola del più forte. Perché la strada è di tutti“.
Noi siamo cresciuti in collina e la bici è sempre stata uno strumento per fare sport. Una grande passione ma anche un grande sacrificio. Nostro padre regalò a Michele una bici da corsa per la prima Comunione e lui cominciò presto a vincere. A un certo punto in casa avevamo tante di quelle coppe che mia madre iniziò a regalarle perché non sapeva più dove metterle. Michele è sempre rimasto legato alla sua famiglia e alla sua terra, tanto che, anche quando andò a vivere in Veneto per il ciclismo, non ha mai cambiato residenza. I nostri genitori andavano a trovarlo ogni fine settimana. In carriera ha vinto tanto, dalla categoria juniores fino al professionismo. Ma il ciclismo è duro, a vincere è sempre e solo uno, gli altri perdono tutti. E negli anni Michele ha subito anche molte sconfitte.
Ciclismo sport di gambe, ma anche sport di testa.
Certo, soprattutto quando – come è successo a lui – dopo anni in cui ricopri il ruolo di capitano, ti trovi a essere gregario. Una sfida difficile da accettare, ma che ha richiesto tutta la maturità e la tenacia che facevano di Michele un grande uomo. Lui, che non voleva mai perdere, si è trovato a cedere il passo per aiutare un’altra persona a vincere, il suo capitano, Vincenzo Nibali.
C’è chi lo ha definito “il gregario più forte del mondo”. E a rappresentarlo c’è un episodio molto iconico, rimasto nella memoria di tanti, la tappa del Giro del 2016 Pinerolo-Risoul.
Era il 27 maggio, Michele era in testa e passò in solitaria la cima Coppi, in mezzo a muri di neve. Poi però in discesa, su richiesta della sua squadra – la Astana – si fermò, piede a terra, per attendere Nibali e lanciarlo verso la vittoria di tappa, preludio della vittoria del Giro. Una scena antica e mitica: fermarsi e aspettare, sacrificando la propria vittoria. Un gesto non scontato, una decisione forte.
Quel piede a terra significa molto, ha un valore anche altamente simbolico
Abbiamo deciso di utilizzare quell’immagine per il logo della Fondazione. Il piede a terra significa proprio questo.
La tua vittoria personale non è la cosa più importante. Fermarsi, aspettare gli altri non è un gesto di debolezza, ma un gesto di forza. E così dovrebbe essere sempre, nella vita, sulla strada, tutti i giorni.
Il nostro impegno come Fondazione ora è chiedere al più forte, l’automobile, di mettere il piede a terra per aiutare l’altro, nell’interesse di tutti.
Quello della mobilità sostenibile è un tema complesso e in Italia sembra non riuscire ancora a trovare il giusto spazio e la giusta rilevanza. Perché?
Noi siamo una Fondazione giovane, nata due anni fa. In questo breve lasso di tempo abbiamo girato molto, conosciuto tante realtà che portano avanti una missione importante, associazioni che si battono per una mobilità a misura d’uomo. Però purtroppo la visibilità è ancora scarsa. L’Italia vive una paradosso: è uno dei Paesi che ama di più il ciclismo al mondo e che annovera campioni straordinari nel passato e nel presente, insieme a Francia, Belgio, Spagna. Eppure da noi è quasi impossibile trasmettere l’amore per la bicicletta in strada. Basti pensare a quante pubblicità vediamo in televisione relative alle auto e a quante – nessuna – che vediamo legate al mondo delle due ruote. E invece siamo proprio in una fase storica in cui, per motivi anche ambientali, bisognerebbe incentivare l’uso della bicicletta.
L’auto sembra essere qualcosa di intoccabile.
Sì, anche nel racconto mediatico, non esiste ironia sull’automobile. L’auto non si può mettere in discussione. È uno status symbol. Eppure in strada è l’auto che uccide. Ogni anni si registrano oltre 3.000 vittime sulla strada, ma per la maggior parte non si tratta di ciclisti o pedoni – che comunque pagano un grande prezzo – bensì degli stessi automobilisti, motociclisti, camionisti.
È proprio come se in strada vigesse la legge del più forte?
Io faccio spesso un esempio, che nasce dal mio impegno come educatore di ragazzi disabili. Ricordo che quando facevo con loro dei laboratori di teatro, questi ragazzi dovevano salire sul palco e ogni volta dovevamo prenderli in braccio sulla carrozzina e sollevarli per farli salire, provocando anche umiliazioni. Solo perché il palco non aveva una pedana che permettesse loro di muoversi in autonomia. Sulla strada manca proprio quella “pedana”. Le piste ciclabili sono poche e spesso costruite male, la strada è progettata a misura d’auto e non favorisce l’autonomia del soggetto più fragile.
Avere strade che tutelano il più debole garantirebbe una vita migliore per tutti, anche per il più forte .
Ora nell’ultimo decreto seguito all’emergenza coronavirus, il governo ha varato una serie di misure a favore della mobilità sostenibile. Il come vivere il tempo fuori casa – di conseguenza – la mobilità, saranno temi chiave da affrontare?
Sì, c’è voluta la pandemia per avere delle piste ciclabili o un incentivo all’acquisto delle bici. Diciamo che quello che sta succedendo è abbastanza rivoluzionario, ma al tempo stesso pericoloso. Mentre altrove i mezzi pubblici sono incentivati, da noi il messaggio è: “Meglio che non li prendiate”. Negli anni le politiche non si sono mosse a favore dell’utilizzo dei mezzi pubblici: basta pensare a quanto fatto sui treni dove, al di là dell’alta velocità, il trasporto su rotaia è stato molto penalizzato. Ora, pensare di risolvere la situazione puntando solo sulla bicicletta come alternativa all’auto è difficile. È necessario invece affiancare ad essa l’investimento sui mezzi pubblici, componente fondamentale per la mobilità sostenibile. Bisognerebbe aumentare il numero di treni, le corse degli autobus. Ripensare completamente la nostra mobilità nel complesso.
Al centro, Marco Scarponi, fratello di Michele
Con i più giovani si riesce a parlare di questi temi? Che sensibilità hanno?
Nel 2019 ho incontrato quasi 7.000 ragazzi, dalle scuole dell’infanzia fino all’università. E il problema non sono loro, ma gli adulti. I più giovani sarebbero subito pronti a imbracciare la bicicletta, il monopattino, anche perché nelle nuove generazioni c’è una maggiore sensibilità al tema ambientale. Tuttavia, quando incontrano noi non sono una tabula rasa, ma si portano dietro insegnamenti spesso errati e hanno già un’esperienza di violenza nei comportamenti: genitori che guidano guardando il telefono, che non rispettano i limiti di velocità. Gli interventi sulla sicurezza stradale a scuola non dovrebbero essere “eventi” come ora, senza una visione e una continuità, ma dei percorsi strutturati e condotti da professionisti.
In quest’ottica voi avete anche prodotto un documentario.
Si chiama “Gambe”. Con le prime manifestazioni in memoria di Michele, chiesi a un gruppo di amici di fare delle riprese, per fissare la memoria di quanto stavamo vivendo. E poi ci abbiamo lavorato sopra e abbiamo raccolto interviste a figure che potessero affrontare vari temi, dal ciclismo vissuto sotto diversi punti di vista alla violenza stradale. Ci sono campioni amici di Michele, ma anche familiari delle vittime o una figura straordinaria come l’architetto Matteo Dondè, esperto in pianificazione della mobilità ciclistica, moderazione del traffico e riqualificazione degli spazi pubblici.
Quanto è difficile far passare i messaggi che portate avanti?
Spesso durante gli incontri a cui partecipiamo si pronuncia la parola “rispetto”, in frasi come “anche i ciclisti devono avere rispetto dei pedoni”, “i ciclisti devono rispettare le regole”. Vero. Ma il problema concreto è che il nostro codice della strada è stato pensato e concepito per creare fluidità nel traffico automobilistico e che in Italia l’auto ancora è considerato un bene necessario, le statistiche ci dicono che abbiamo quasi 70 auto ogni 100 abitanti. E purtroppo, anche in casi di episodi mortali, si tende a non attribuire colpe e responsabilità. C’è addirittura chi fa campagne contro gli autovelox, come se fosse qualcosa di inaccettabile chiedere di rallentare, diminuire la velocità, sanzionare perché si va troppo veloce.
E anche se si fa fatica a usare il verbo “uccidere” quando si parla di episodi avvenuti in strada, la verità è che la velocità uccide.
Qual è la speranza per il futuro?
La storia di Michele vogliamo che serva a innescare una serie di spinte positive. Tra queste, trasmettere l’idea dello sport come strumento per imparare a stare insieme agli altri nel rispetto delle regole comuni; promuovere la bicicletta come mezzo di locomozione giusto, sano e pulito; l’importanza di muoversi a tutela dei più fragili, sia sulla strada che in altri contesti sociali; ricordarsi delle vittime della violenza stradale e sostenere i loro familiari. E per questo ci muoviamo guardando al futuro. Il nostro sogno è avere delle città a misura d’uomo e non di auto, anche dal punto di vista urbanistico. E poi ricordarsi che l’imposizione della regola del più forte non può essere la scelta di una società sana.
Nello sport come nella vita, la squadra è l’elemento fondamentale
“Per affrontare il presente che stiamo vivendo, l’emergenza sanitaria, dobbiamo essere capaci di immaginare nuove forme di condivisione, nuove modi per stare insieme. Non bastano discorsi generici, il telefonino, i social. Servono proposte concrete, anche per i più giovani, quegli adolescenti che si trovano confinati in casa in un momento della loro vita in cui avrebbero bisogno di spazi propri”. Julio Velasco è un uomo di grande esperienza. Una vita passata sui campi della pallavolo, dall’Argentina all’Italia, passando per l’Iran, la Repubblica Ceca, la Spagna, e altri angoli di mondo. Una vita ad allenare e coordinare gruppi, facendo dell’attenzione alla dimensione psicologica, sul campo e fuori, una delle chiavi della propria conduzione. Ha guidato l’Italia della “generazione dei fenomeni”, portandola ai vertici del mondo, ma è soprattutto stato – e ancora continua a essere – una guida per i giocatori e i tecnici, non solo nel suo sport. Dallo scorso anno, chiusa la carriera di allenatore, è stato nominato direttore tecnico del settore giovanile della FIPAV, la Federazione Italiana Pallavolo. E ora, a causa dell’emergenza coronavirus, si trova – come tutto la staff della Nazionale, come il mondo intero – ad affrontare una situazione senza precedenti che ha portato addirittura al rinvio dei Giochi Olimpici di Tokyo.
Velasco, questa situazione ha portato uno shock al mondo sportivo?
Credo che lo shock vero fino ad ora sia stato un altro, quello legato ai morti, alla malattia che ha colpito tante persone con sintomi terribili, ai rischi con cui tutti abbiamo dovuto confrontarci. Un trauma talmente forte che ha tenuto lo shock sociale in secondo piano. Ma adesso stiamo entrando nella fase in cui rimane la paura e inizia a farsi sentire il peso per la chiusura e l’isolamento. Il rischio è che si molli e non dobbiamo farlo. È nel momento critico che si vede chi sa “giocare” davvero. Se dovessi paragonare questa situazione a una prova sportiva penserei più a una maratona o a una gara di triathlon che non a una partita di pallavolo…
Lo stare chiusi in casa come prova di resistenza.
Io personalmente mi considero un privilegiato, vivo in campagna, ho una casa con il giardino, non mi manca nulla. Ma non sopporto chi fa dei ragionamenti generali senza mettersi nei panni degli altri. È facile dire che questa può essere una situazione comunque positiva, perché abbiamo tempo di fare tante cose, leggere, coltivare le nostre passioni… Sappiamo benissimo che ci sono famiglie che vivono in appartamenti piccoli, non hanno il computer, con bambini che devono seguire le lezioni a distanza ma non hanno gli strumenti adeguati. Oppure famiglie dove il marito è operaio, abituato a lavorare tante ore fuori casa, e che ora la moglie si ritrova tutto il giorno tra i piedi, tra quattro mura e due stanze. La convivenza può diventare difficile e non abbiamo tutti le stesse condizioni. Dobbiamo esserne consapevoli quando parliamo di ciò che stiamo vivendo.
Secondo lei sono passati dei messaggi troppo ottimistici?
Io ho una nipotina di cinque anni e una di tre. Loro hanno disegnato l’arcobaleno con la frase “Andrà tutto bene” e lo hanno appeso ai balconi. Penso che sia un’ottima iniziativa per bambini di quell’età. Ma a quelli un po’ più grandi – e soprattutto a noi stessi – il messaggio dovrebbe essere diverso: “Andrà tutto bene, o forse no… Andrà tutto bene, solo se saremo noi a farla andare bene”. Pensiamo che il primo giugno potremo davvero uscire e che sarà tutto finito? No, dovremo preparare i giovani, e io parlo anche dei giovani sportivi, al fatto che vivremo ancora momenti molto difficili, in cui l’aggregazione sarà progressiva, non immediata. Non sapremo quando e come effettivamente si potrà tornare ad allenarsi secondo le modalità che conosciamo. Come in ogni situazione della vita, anche da questa usciremo, ma bisogna capire a che prezzo.
Quale potrebbe essere dunque la chiave per affrontare questa fase?
Soprattutto con i giovani, non bisogna lasciarsi andare a discorsi generali, bisogna avanzare delle proposte concrete.
Il tema chiave è: come faccio a stare con gli altri, ma a distanza? Bisogna organizzarsi per provare a portare avanti delle attività comuni, insieme.
Chi ama lo sport, ad esempio, può pensare di farlo con i propri amici a distanza, anche piccole attività, un programma fisico da condividere, a una stessa ora e in un giorno fisso. Oppure leggere lo stesso libro e poi commentarlo. O ancora, ci sono delle piattaforme su internet che permettono di vedere un film in contemporanea con gli amici e commentarlo insieme. Non è certo la stessa cosa che andare al cinema, ma in questo momento è ciò che possiamo fare. Di sicuro ora non serve esortare troppo i ragazzi a guardarsi dentro, all’introspezione, lo fanno già abbastanza…
Giornata di formazione a Monterotondo, Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV
Dare attenzione alla dimensione psicologica è fondamentale per gestire la situazione.
Ne ho parlato anche con il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Gli ho detto: non servono solo medici e virologi, ma servono degli psicologi. Se con i bambini più piccoli è giusto che i genitori organizzino delle attività per stare tanto tempo insieme, agli adolescenti è necessario garantire uno spazio proprio. Tanto più adesso che siamo chiusi in casa 24 ore al giorno.
I giovani non devono sentirsi invasi, bisogna cercare per quanto possibile di garantire a tutti loro uno spazio di libertà e autonomia.
Lo sport, anche a distanza, può essere un modo per conquistarsi o portare avanti questa autonomia?
Sicuramente. Noi come Federazione abbiamo cercato di muoverci in questa direzione. Io settimanalmente tengo diverse riunioni con i tecnici e con i preparatori fisici per aggiornamento, studio, condivisione. Inizialmente abbiamo pubblicato sul nostro canale YouTube dei tutorial per tutti i giocatori, invitandoli ad allenarsi da casa. Adesso siamo passati a dei veri e propri allenamenti seguiti in diretta dai tecnici.
In che modo?
Non avendo potuto fare la classica selezione dei migliori giocatori Under 17, Under 19 e Under 21 per il lavoro estivo, abbiamo deciso di tenere dentro a questo programma tutti i giocatori della preselezione. Gli allenamenti si svolgono in gruppi da venti ragazzi, per un totale di 130. Abbiamo deciso di non lasciare fuori nessuno. Ogni allenatore tiene mezz’ora di discorso tecnico e insegnamento teorico della pallavolo, come si fa già normalmente, e poi il preparatore allena per un’ora-un’ora e mezza guardando in diretta i ragazzi, per correggerli, dopo aver dato loro tutorial e filmati da studiare. I gruppi degli Under 17 e 19 si allenano in questo momento tre volte a settimana, i più grandi tutti i giorni. I ragazzi sono entusiasti di poter portare avanti l’attività.
Anche in questo caso emerge quanto sia importante mantenere vivi dei gruppi.
Certo e anche la mia storia con la pallavolo testimonia come alla base di una passione che arriva e rimane ci sia l’importanza del gruppo.
Ce la vuole raccontare?
Prima di conoscere la pallavolo avevo praticato vari sport, il calcio, il rugby, il nuoto. Poi un giorno al club dove passavo l’estate si è presentato un allenatore di pallavolo che ci ha fatto provare. Mi è piaciuto ma soprattutto si è formato un gruppo che poi ha continuato a vedersi e giocare anche finita la stagione estiva. È diventato il mio gruppo di riferimento.
Bisogna sapere che il motivo numero uno dell’abbandono degli sport è proprio la mancanza del gruppo, anche se si tratta di uno sport individuale.
Quando la situazione non risponde alle aspettative sociali, è facile che si arrivi a un abbandono. In una seconda fase, subentra un altro meccanismo, che è quello del miglioramento individuale, riuscire ad andare sempre un passo più in là. Ovviamente nei giochi sportivi c’è anche una grande dose di divertimento, ma la volontà di migliorarsi dà una motivazione enorme a continuare.
Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV
Lei è riconosciuto da tutti come un grande “conduttore” di gruppi che ben funzionano. Quali sono le regole chiave che trasmette quando gestisce un gruppo?
Io parto dall’assunto che lo sport tende a essere inclusivo, ma ci sono alcune dinamiche da combattere. In primis non permetto ai componenti del gruppo di parlare male di un altro di loro. Questo sia tra i ragazzi sia nel mio staff. È un meccanismo negativo e che, inoltre, ci toglie delle responsabilità. In secondo luogo, non permetto alcun tipo di vessazione, neanche in nome della goliardia. Cose come il “battesimo” dei nuovi arrivati. È un’abitudine che nasce tra i gruppi dell’esercito, nei gruppi di educazione fisica legati all’ambito militare con i cadetti del primo anno. Nelle mie squadre non ho mai permesso un “battesimo”. È solo un modo per dire: tu vali meno di noi perché sei appena entrato. Non si tratta soltanto di proteggere il singolo che subisce la vessazione, ma soprattutto di non sviluppare una cultura che non ci deve appartenere.
E da parte degli allenatori, quali sono le regole d’oro per essere buoni punti di riferimento?
Primo rispettare tutti allo stesso modo, sia la stella della squadra che il giocatore più scarso. Ovviamente chi è più forte giocherà di più e questo dipende anche dal livello della squadra, dagli obiettivi e dalla fascia di età. L’importante è che l’allenatore mantenga un comportamento uguale con tutti, non deve fare l’accondiscendente con i forti e il duro con i deboli. Le vulnerabilità non sono un ostacolo al funzionamento del gruppo, anzi. Se il gruppo funziona bene di solito sono gli stessi compagni ad aiutare un ragazzo più fragile, a volte anche contro l’autorità, ossia contro noi allenatori. Questo è ottimo, quando succede.
E poi?
L’altra cosa che insegno agli allenatori è che non possono pretendere di controllare tutto. I gruppi di giovani ci accettano nei nostri ruoli di guide, nell’ordine: prima gli allenatori, poi i professori, poi – per ultimi – i genitori. Noi non dobbiamo pretendere di controllare tutto, il gruppo deve essere libero di sviluppare delle proprie dinamiche.
Una brava guida deve sapere equilibrare tra questi aspetti: dare al gruppo alcune linee e regole molto precise, ma al tempo stesso far sì che esso sviluppi le proprie dinamiche.
Di generazioni ne ha viste passare tante. È cambiato qualcosa nella gestione dei gruppi e nell’approccio con i ragazzi in questi anni?
Il mondo cambia continuamente. Lo ha sempre fatto. Ma la caratteristica di oggi è che lo fa a velocità sempre maggiore. Io non sopporto che si dica che le generazioni di una volta erano migliori di quelle di adesso o che i giovani di oggi fanno le cose e si allenano senza entusiasmo. Sono confronti ridicoli. I giovani stanno sempre al telefono? Perché, noi adulti no? A volte credo che sia necessario guardare le cose da una prospettiva diversa. Spesso sono gli adulti ad avere dei problemi di adattamento. Io da questo punto di vista sono molto dalla parte dei giovani, non si può pensare di mantenere l’entusiasmo con metodi di insegnamento obsoleti e anacronistici. Penso ad esempio ai programmi scolastici, molti dei quali sono fermi a decenni fa… I docenti, i professori, gli allenatori che sanno adattarsi ed entrare in sintonia con i ragazzi sono molto amati. E di conseguenza i loro allievi saranno entusiasti.
La sfida costante sembra essere dunque più quella degli allenatori.
I giovani da una parte vogliono fare le stesse cose dei coetanei, quindi sentirsi parte di un gruppo, dall’altra però vogliono che venga riconosciuta la propria individualità. Ed ecco l’importanza di immaginare programmi individualizzati, anche a livello sportivo. È vero che ci si allena in gruppo, ma io allenatore devo essere in grado di comprendere i problemi individuali. Non dire: “Tu non sai fare questa cosa”, ma “Tu non sai ancora fare questa cosa”. La chiave della crescita sta in questa parola: “ancora”. È un messaggio fondamentale. Inoltre, soprattutto, all’allenatore devono piacere i propri giocatori. E quanto meno i giocatori sono “fenomeni” tanto più l’allenatore dovrebbe essere contento, perché davanti a sé ha una sfida, la possibilità di imparare di più. Negli sport di squadra, bisogna stimolare molto il fatto che il primo grande traguardo è superare se stessi. Un ragazzo può anche essere il più scarso del gruppo, ma se migliora bisogna farglielo notare. Magari non è migliorato in maniera sufficiente per giocare titolare, ma è migliorato ed è questa la cosa importante.
È nella vulnerabilità che si possono individuare una sfida e un motivo di crescita, per il singolo, per il suo allenatore, per il gruppo intero.
Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV
Il pugilato mi ha fatto diventare la donna che sono. I Giochi di Tokyo slittati al 2021? L’obiettivo medaglia resta lo stesso.
“Sognavo questa Olimpiade da anni e mi mancava solo un match per ottenere il pass. Ma l’emergenza coronavirus ha bloccato tutto. Dopo un primo momento di scoramento e pianto ho capito che era giusto così: la vita a volte ci presenta delle sfide enormi. La cosa migliore è accettare di fermarsi e far sì che la nostra Italia resti unita e che la salute di tutti possa essere salvaguardata. Non posso che ringraziare Dio di stare bene e sono sicura che troverò la forza per tornare a compiere i sacrifici necessari ancora più di prima. E quando tornerò sul ring scatenerò tutta la forza che ho dentro”. Angela Carini ha 21 anni, è pugile ed è una delle speranze azzurre per i prossimi Giochi Olimpici, quelli che avrebbero dovuto riportare quest’estate i cinque cerchi a Tokyo, a 56 anni dall’edizione del 1964, a 80 anni dall’edizione cancellata a causa della seconda guerra mondiale. Ma, come tutti gli atleti in preparazione per l’evento più importante del quadriennio, anche Angela ha dovuto confrontarsi con un’emergenza più grande. Eppure lei non è tipa da arrendersi: è una ragazza forte, nelle braccia e nella testa, ha ben chiaro quale sia il suo obiettivo sportivo. E così, rientrata da Londra, dopo l’interruzione del Torneo Europeo di Qualificazione Olimpica, è chiusa in isolamento e si allena a casa con il papà – il suo “eroe” – che la guarda attraverso un vetro. Per non perdere neanche un minuto, per continuare a coltivare un sogno.
Angela, sei giovanissima, compirai 22 anni a ottobre, ma ti porti dietro già tante medaglie e tanta esperienza. Come è nata la tua passione per i guantoni e il ring?
Ho iniziato con il tiro al piattello, seguendo le orme di mio fratello Antonio, e arrivando a ottimi livelli nazionali. Ma a un certo punto lui smise e passò al pugilato, anche per seguire le orme di nostro papà che in gioventù aveva praticato questo sport. Vedevo che il loro rapporto diventata sempre più intenso e questa cosa mi rendeva gelosa… Anche perché lo sono sempre stata molto di mio papà. Avevo 14 anni e un fisico da bambina, non ero certo in forma e soprattutto non sapevo niente di boxe. Eppure quando mio fratello tornava a casa dagli allenamenti lo sfidavo, volevo emularlo. Mi misi d’impegno, persi peso. E un giorno mio papà mi disse: “Forza, dai, tirami un sinistro sul palmo della mano”. Io lo feci e fu – come disse lui – un “bel cazzotto!”. Avevo deciso, volevo anch’io praticare quello sport. Mio papà mi portò in palestra, il maestro notò subito che ero portata, poco tempo tempo disputai il mio primo campionato italiano e, a nove mesi dal mio ingresso in palestra, il mio primo Campionato Europeo. Nel 2014 ho vinto il primo titolo Europeo, seguito poi da quelli nel 2015 e 2016. Sempre nel 2015 – a 17 anni – ho vinto l’oro ai Campionati del Mondo nella categoria Youth.
Una carriera rapidissima, sempre al fianco del papà…
Sì lui è il mio eroe. È un poliziotto, vittima di un incidente in servizio e costretto sulla sedia a rotelle. Sono molto legata a lui, mi ha insegnato che nella vita non bisogna mai arrendersi. E quando sono sul ring e la situazione si fa difficile, sento il suo esempio, non mi arrendo mai. Quando è rimasto paralizzato io avevo solo due anni, sono cresciuta sulle sue gambe, non mi ha mai fatto mancare niente. Non l’ho mai visto come un papà diverso dagli altri, la sedia su cui lui è seduto non ci ha mai divisi, anzi. Ancora oggi lo guardo con occhi da innamorata.
È stato anche lui che ti ha aiutata a inquadrare i tuoi sogni?
Sì, assolutamente. Fin da bambina i miei sogni sono sempre stati due. Da una parte andare alle Olimpiadi, e spero di realizzarlo presto. Dall’altra entrare in Polizia ed è stato possibile grazie allo sport, dopo la vittoria dei Mondiali del 2015, per cui ora faccio pare del Gruppo Sportivo delle Fiamme Oro. Se non ci fossi arrivata così, sono sicura che avrei seguito la strada dei concorsi.
La tua carriera sportiva è stata brillante, rapida, ma ti ha costretta anche ad affrontare momenti non semplici.
A 18 anni sono entrata nel mondo delle “grandi” della Nazionale. Nuovi confronti, nuova vita. Ma all’inizio del 2018 ho subito un grave infortunio: la rottura del legamento crociato anteriore, che mi ha costretto a subire un intervento e a saltare al mio primo Europeo nella categoria Elite (over 19, ndr). I Mondiali erano in programma nove mesi dopo e nessuno dei medici credeva che potessi riprendermi per quell’appuntamento. Ma io non ho mollato: in tre mesi ho recuperato, con il programma di fisioterapia seguito passo passo, la riabilitazione tutte le mattine in piscina, grazie come sempre all’aiuto di mio papà. A giugno sono rientrata in Nazionale e ho rivisto la luce. Ho recuperato il peso gara, mi sono rimessa in riga e sono stata convocata per i Mondiali Elite in India, a novembre. Lì però è arrivata la seconda batosta: sono stata eliminata al secondo turno. Era la prima volta che mi capitava di uscire in quel modo.
Mi ero sempre vista sul gradino più alto e mi sono trovata ad affrontare la sconfitta. Poi, anche grazie al confronto con i miei genitori, ho capito che la vera vittoria in quella fase era stata tornare sul ring dopo l’infortunio che avevo subito.
Qual è stato il cambiamento in te?
Fino a quando ti confronti con le giovani, sei abituata a trovarti davanti della ragazzine. Con il passaggio all’Elite invece hai di fronte delle vere e proprie donne, pronte al combattimento. E per risposta devi imparare ad avere un carattere forte. Lì è iniziato il mio cambiamento vero. Dopo un paio di mesi ho vinto l’argento agli Europei Under 22, l’argento europeo Elite a Madrid e a ottobre scorso, a Ulan-Udè, in Russia, anche l’argento Mondiale. Non sono ori, ma sono comunque arrivata sempre in finale, tra le migliori. Quei momenti di buio mi sono serviti a farmi crescere a farmi diventare la donna che sono adesso.
Angela Carini, la prima a destra, con le compagne di Nazionale agli Europei Under 22 del 2019
Sei indulgente con te stessa?
No, sono molto critica. Anche in allenamento, quando qualcosa non va, difficilmente mi perdono.
Quanto dedichi allo sport ogni giorno?
Mi alleno in due sessioni: due ore al mattino, dedicate alla preparazione fisica, due ore e mezzo al pomeriggio, dedicate interamente al pugilato. Mi alleno a Casoria, assieme al mio ragazzo Gianluca, a sua volta pugile e fratello di Vincenzo Picardi, bronzo Olimpico a Pechino 2008. E questo è possibile grazie alla Polizia e alle Fiamme Oro, che mi concedono di stare a casa, vicino ai miei affetti. Anche se spesso mi trasferisco ad Assisi, per allenarmi al Centro Nazionale Federale.
Che rapporto hai con i social e il mondo del web?
Sono sempre stata “molto social”, ma fino a poco tempo fa i miei profili erano privati. Ultimamente, con la crescita sportiva, li ho resi pubblici e i contatti tra i follower sono molto aumentati. Quello dei social è un mondo in cui da una parte devi stare attenta, perché non sai mai cosa ti aspetta, dall’altra ti permette di conoscere realtà e persone nuove, anche appassionati del mio sport.
Hai mai avuto esperienze spiacevoli? Hai subito attacchi di qualche tipo?
Personalmente no, però sono stata testimone – sia sui social sia nella vita reale – di situazioni di razzismo, cattiverie, gelosie. E non posso che pensare che le persone razziste siano ignoranti. Chi ancora compie atti di razzismo non ha neanche bisogno di essere descritto, è inqualificabile. Così come chi compie atti di bullismo. Una persona che diventa vittima di queste azioni non significa che sia debole.
La persona veramente debole è colei che compie attacchi di bullismo per sentirsi forte, perché non ha altre forme per emergere.
Angela Carini insignita del premio Giuliano Gemma 2020
A occhi inesperti, il pugilato può sembrare uno sport violento…
Sì, ma non è così. È uno sport che ti insegna ad avere rispetto per il tuo avversario, a stare in mezzo ad altre persone. Il combattimento è fatto di regole, della capacità di amare se stessi e il prossimo. Il pugilato – è vero – nella vita può essere un’arma, ma solo di difesa. Non può e non deve diventare un abuso. Come ogni sport, può invece diventare un veicolo per sfogare la rabbia, il dolore.
Essere donna in un ambiente come quello pugilistico è difficile?
No, almeno dal mio punto di vista. È vero che, soprattutto all’inizio, mi sono trovata ad allenarmi con quasi solo dei maschi, tra cui mio fratello, che ha sempre insegnato a tutti – per prima a me – che le donne vanno rispettate in tutto e per tutto. Magari qualcuna al mio posto avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo, ma io sono sempre stata rispettata e, da qualche ragazzo, anche temuta sul ring. Non è un ambiente chiuso alle donne, anche se le ragazze che praticano il pugilato non sono ancora moltissime.
Veniamo alla situazione attuale, con il blocco di tutte le attività a causa dell’emergenza coronavirus e il rinvio dei Giochi Olimpici. Cosa hai vissuto in queste ultime settimane, passando dal sogno di Tokyo all’obbligo di doversi mettere in attesa?
Aspettavo questo quadriennio da dieci anni, visto che andare alle Olimpiadi era uno dei miei sogni di bambina. E per ottenere il pass per Tokyo mi mancava solo un match. Siamo partiti per Londra, per il Torneo Europeo di Qualificazione, in un momento in cui sapevamo che già altri sport erano fermi per l’emergenza coronavirus. La situazione non era semplice, i nostri genitori erano preoccupati. Il Torneo è cominciato a porte chiuse, noi abbiamo iniziato a combattere, decisi verso i nostri obiettivi. Ma la sera prima del mio match si è tenuta una riunione in cui è stata decisa la sospensione dell’evento. La prima reazione è stata scoppiare in lacrime. Siamo rientrati a casa e ci siamo messi in isolamento. Poi, pochi giorni dopo, è stata ufficializzata la notizia dello spostamento dei Giochi Olimpici e ho capito che era giusto così. Se deve essere un male per me, per gli atleti e per tutti coloro che partecipano all’organizzazione dei Giochi, è giusto fermare tutto. Certo, per noi che attendiamo questo evento da almeno quattro anni è difficile ora pensare come riprogrammare tutta la preparazione. L’avvicinamento ai Giochi per ogni sportivo è fatto di sacrifici enormi, lunghi periodi passati fuori casa, dedizione costante. Ma la vita a volte ti presenta delle sfide più grandi e la cosa migliore è accettare di fermarsi e ringraziare Dio che stiamo bene, sperando che ci dia la forza di compiere di nuovo questi sacrifici, ancora più forti di prima.
Rientrata da Londra ho scelto l’isolamento volontario, come tutte le persone che tornano da un Paese straniero in questa situazione. Ho la fortuna di avere un grande terrazzo in cui mi posso allenare. E vicino a me, ma dall’altra parte di un vetro perché non possiamo entrare in contatto, c’è mio papà che mi segue costantemente. Noi atleti non possiamo far altro che allenarci da soli, dare l’esempio e “fare i bravi”, come tutto il resto della popolazione, ciascuno a casa propria ma uniti a distanza. Dobbiamo essere forti anche di testa, non mollare e continuare a inseguire i nostri sogni.
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