Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.
Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.
Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?
In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.
I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?
Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.
Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatore professionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?
Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzo contro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.
Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?
Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.
Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?
Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.
Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.
Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?
Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.
Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.