“Lo sport non può cambiare il mondo, ma può contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato”. Parola di Riccardo Cucchi, una delle più note voci dello sport italiano: otto Olimpiadi, sette Mondiali di Calcio, tra cui quello vinto dall’Italia in Germania nel 2006, oltre 500 partite raccontate in radiocronaca. Giornalista Rai per quasi 40 anni, nome storico di Tutto il Calcio minuto per minuto, oggi Cucchi è impegnato anche sulla tutela del diritti, grazie a una collaborazione con Amnesty Italia. Lo abbiamo intervistato per dare il via alla seconda edizione di Odiare non è uno sport, affidandoci alle sue parole e alla sua storia di grande narratore di sport, ma – oggi – anche di quotidiano fruitore di social network.
Un percorso giornalistico vissuto narrando lo sport con la sola voce. Com’è nata la passione per la Radio e come è riuscito a trasformarla in un lavoro?
Appartengo alla generazione dei nativi radiofonici, una definizione che mi piace usare simpaticamente in contrasto con “nativi digitali”. Era una generazione che ha potuto appassionarsi al calcio esclusivamente grazie alla radio, l’unico mezzo per sapere cosa avveniva sui campi di calcio in diretta. Sono cresciuto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e poi Claudio Ferretti. È stato inevitabile innamorarmi di quel modo di raccontare il calcio e di quelle voci che hanno scritto la storia. Fin da piccolo sognavo di fare questo mestiere e poi la passione si è ampliata quando finalmente sono riuscito a entrare allo stadio per seguire la mia squadra del cuore. Nel 1979 vinsi il concorso in Rai ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che l’azienda decise di preparare al microfono: frequentai corsi di formazione che mi consentirono di esordire in un gruppo di straordinari maestri, imparando accanto a loro, fino a riuscire a prenderne il testimone. Ho vissuto un sogno e sono stato un privilegiato. Ho messo insieme due passioni, trasformandole in lavoro.
Radio mezzo di comunicazione magico. Media che ha saputo sopravvivere al passare del tempo e ad alcuni passaggi storici epocali, l’arrivo dei social network, l’avvento della PayTv, la crisi della carta stampata. Qual è il segreto di questa longevità?
I radiocronisti di oggi usano gli stessi strumenti che usava il loro progenitore, Nicolò Carosio, il primo a raccontare il calcio in radio, negli anni Trenta. Per fare il nostro mestiere servono un microfono, un cronometro, un blocco d’appunti e un binocolo, perché non sempre è possibile avere un monitor anche oggi negli stadi. E soprattutto servono gli occhi per poter vedere. Gli occhi del radiocronista sono le telecamere che vengono usate in tv, con la differenza che la libertà di espressione del radiocronista è direttamente collegata alla sua capacità di sollevare gli occhi dal campo per vedere cosa succedere intorno. E ovviamente alla sua capacità di entrare nell’evento che sta raccontando, sempre consapevole del fatto che chi ascolta non vede.
Quali sono gli elementi chiave per una buona radiocronaca calcistica?
In passato come oggi, prima di tutto i tempi: nel calcio è molto importante misurare le parole e metterle in rapporto con la velocità del pallone. Mai una di troppo, perché altrimenti il pallone va troppo avanti rispetto al racconto, mai una di meno, perché altrimenti si è in ritardo rispetto al movimento del pallone. E poi la cura della voce. Ai nostri tempi la Rai investiva molto nella preparazione al microfono: l’uso della respirazione, il diaframma, la dizione. Prima di andare al microfono eravamo formati anche in recitazione, basti dire che il mio maestro è stato Arnoldo Foa. Il radiocronista bravo è colui che sa raccontare ciò che vede con terzietà e partecipazione. Se si emoziona davvero e sinceramente, saprà emozionare anche chi ascolta.
È un errore pensare che la radio non abbia immagini: le immagini sono quelle che la voce del radiocronista riesce a costruire nella mente di chi ascolta. Ed è questo il segreto del suo successo ancora oggi.
Ma serve anche molta capacità di far fronte agli imprevisti
Mi è successo più volte di dover staccare gli occhi dal campo e raccontare altro, a volte cronaca nera, episodi violenti. Bisogna aver la capacità di dare notizia di tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi, ed è una delle ragioni per cui ho amato la radio fin da piccolo, la convinzione che la voce e la narrazione fossero uno strumento per aprire finestre a vantaggio di chi non poteva farlo.
Se dovesse selezionare l’episodio più emozionante tra i tantissimi che ha raccontato, quale sceglierebbe?
Ne sceglierei due. Per il calcio, sicuramente la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, in Germania. Ho potuto gridare ai microfoni “Campioni del Mondo”, un privilegio che prima di me hanno avuto soltanto due grandi: Nicolò Carosio per due volte, nel 1934 e nel 1938, ed Enrico Ameri nel 1982. E poi la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul 1988, la mia seconda edizione dei Giochi seguita come giornalista. Bordin entrò da solo nello stadio olimpico dopo una grande rimonta, una vittoria che arrivava a ottant’anni dalla drammatica vicenda di Dorando Pietri, il maratoneta italiano squalificato dopo aver dominato la gara ai Giochi del 1908, perché, stremato, fu sostenuto sul traguardo dai giudici e relegato per questo in fondo alla classifica. Ottant’anni dopo un altro italiano entrava in testa nello Stadio Olimpico e riscattava quella straordinaria storia di epicità sportiva.
Veniamo ad oggi. Lei da sempre ha dimostrato grande attenzione al tema dei diritti e da alcuni anni presiede la giuria del Premio Sport e Diritti umani promosso da Amnesty Italia e Sport4Society. Quanto è importante valorizzare queste tematiche in relazione allo sport?
Ho sempre ritenuto importante che lo sport sia in grado inviare messaggi e che non debba mai dimenticare i valori fondanti che ha hanno contribuito al suo sviluppo. Lo sport vive in ogni angolo del pianeta, ha un grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica, ma a volte questo potenziale e questa forza comunicativa non vengono indirizzate nella direzione giusta. Ogni protagonista dello sport, dall’atleta al narratore, deve essere consapevole dell’importanza delle proprie parole e dei propri gesti, per favorire la divulgazione di messaggi. Penso che lo sport non possa di per sé cambiare il mondo, ma possa contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato. La mia collaborazione con Amnesty nasce da questa consapevolezza. Ne avevo sempre seguito l’impegno, le battaglie e i valori, e così una volta in pensione ho pensato di poter dare un mio contributo. Sono presidente della giuria del Premio Sport e Diritti Umani da tre anni.
Chi sono i premiati di quest’anno?
Abbiamo scelto Gary Lineker, grande attaccante inglese, che ha saputo esprimere opinioni importanti a favore dei migranti, di fronte a una politica inglese molto restrittiva, rischiando di essere cacciato dalla BBC dove lavora come commentatore. Uno sportivo straordinario che in oltre 500 partite giocate, non ha mai ricevuto un cartellino giallo né rosso. E poi Natali Shaheen, calciatrice palestinese, molto coraggiosa a promuovere il calcio nel suo contesto di provenienza, dove le donne che fanno sport sono viste con grande criticità e dove forti sono gli effetti dell’occupazione israeliana. Prima è stata capitana della sua Nazionale, poi è stata la prima palestinese a venire a giocare in Europa, in particolare in Italia, in Sardegna, e anche qui sta portando avanti grandi battaglie per la promozione del calcio femminile.
Lo sport nel corso della storia è stato protagonista e veicolo di analisi, denunce, rivendicazioni politiche e sociali. Pensiamo a Messico ‘68 ovviamente, con il pugno chiuso degli atleti Neri sul podio della 200 metri, ma anche più di recente alla protesta in ginocchio di Colin Kaepernick nel football americano, o la voce anti Trump della capitana della squadra di calcio statunitense Megan Rapinoe. Eppure, poi ci troviamo ad assistere a un Mondiale di calcio in uno dei Paesi dove meno vengono rispettati i diritti umani, come il Qatar. Vede una maggiore consapevolezza negli sportivi oggi?
La consapevolezza sta crescendo nelle ultime generazioni di calciatori. Non è facile per loro parlare, a volte sono costretti al silenzio. Pensiamo al Mondiale in Qatar, dove un giocatore della Germania voleva scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBT, ma è stato censurato dagli organizzatori. In risposta la squadra ha posato per una delle foto prepartita con la mano davanti alla bocca, uno scatto che ha fatto il giro del mondo. Quella foto denuncia la censura del mondo del calcio. Con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro Qatar 2022. I Mondiali dello sfruttamento, ho girato l’Italia per spiegare perché tenere i Mondiali in Qatar era sbagliato. Poi ci sono anche figure che non hanno paura di esporsi, pensiamo a Claudio Marchisio che si è sempre battuto per i diritti degli ultimi, anche attraverso i suoi canali social, dove ha raccolto non pochi attacchi per le sue posizioni.
Una volta terminata la carriera in Rai, lei ha deciso di rivelare quale fosse la sua squadra del cuore, la Lazio. Ha suscitato dissapori?
In realtà le principali reazioni sono state di sorpresa, perché nella mia lunga carriera tutti mi avevano attribuito altre fedi sportive, ma pochi pensavano fossi laziale. E questo mi ha fatto piacere, vuol dire che ho saputo celare la mia passione. Ed è un valore che nel mio mestiere si sta un po’ perdendo. Credo che sia ancora valida la definizione di Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà, deve essere attendibile, suscitare la fiducia dei lettori e degli ascoltatori. Su questo elemento la nostra categoria deve riflettere molto.
Che rapporto ha con i social network? I suoi profili sono molto seguiti
Sono un grande fruitore di social, mi diverto a utilizzarli, soprattutto ora che ho smesso di lavorare. Nei miei ultimi dieci anni in Rai sono stato responsabile dello sport in radio e ho dovuto occuparmi dei social, pur non avendo la formazione adatta. Questo mi ha portato a conoscere meglio il mezzo. Della televisione il filosofo Karl Popper scriveva: in sé non è né buona né cattiva, dipende da come la si usa. Penso che questo si possa ben applicare ai social che sono un grande strumento di comunicazione, ma possono diventare strumento di odio e di assalti nei confronti di chi esprime le proprie opinioni.
La sua posizione sembra molto chiara. Dal suo profilo Twitter leggiamo: “Migliaia di radiocronache e tre libri. Senza mai fare a meno di Puccini e di Wagner. Parlo di partite, non di episodi arbitrali. E di vita. Blocco i maleducati”.
Twitter mi piace molto perché consente una dinamica molto diretta con tutti. È uno strumento che mi ha permesso di raggiungere migliaia di persone anche lontane, di stringere amicizie virtuali o reali con personaggi che non avrei mai potuto incontrare. È una grande opportunità di incontro e scambio, ma purtroppo anche di odio. Succede anche a me di essere colpito da attacchi, soprattutto quando esprimo opinioni, sportive, culturali e politiche. Cerco di rispondere sempre, in alcuni casi funziona e in altri meno, quindi si deve ricorrere inevitabilmente al blocco.
Quanto si discostano i social dalla realtà?
Direi poco, li ritengo una sorta di piazza virtuale. Pensare che quello che accade sui social succeda solo lì è un errore. Sono una cartina tornasole di quello che sta succedendo attorno a noi: la società in cui viviamo è pervasa dall’odio e questo si riflette sui social. Di sicuro però i social facilitano certi tipi di attacchi perché nascondono chi li compie, fanno cadere le barriere che molti di noi utilizzano nelle relazioni interpersonali reali.
Che consiglio darebbe ai fruitori di social, anche quelli più aggressivi?
Di seguire una regola: non attaccare mai direttamente la persona, anche se non condividi le sue idee. Prima confrontati con le sue idee. Invece ciò che succede spesso è che non si apre un dibattito sul tema, ma si passa subito all’attacco personale.
Oltre a raccontarlo, lei pratica sport?
Ho praticato tanti sport, calcio, ciclismo, atletica leggera e continuo ancora oggi, vado in bici, in mountain bike, in palestra. Credo che la pratica dello sport sia un diritto, che dovrebbe essere sancita dalle costituzioni.
Ma soprattutto lo sport è una grande possibilità di confronto con sé stessi, sui propri limiti, le proprie capacità, è una crescita costante: conoscere noi stessi per imparare poi a confrontarci con gli altri.
Puoi seguire Riccardo Cucchi sui suoi canali social: Twitter – Facebook – Instagram