Quali sono gli ostacoli alla pratica sportiva per persone con disabilità? E com’è che lo sport può diventare uno strumento utile a sviluppare e costruire una propria autonomia?
Nella sesta puntata di Parole Fuorigioco parliamo dell’importanza di uno sport accessibile a tutti e tutte, grazie al dialogo con Chiara Maniero, allenatrice di volley della Polisportiva San Precariodi Padova, Andrea Ros, che ci racconta l’esperienza dell’ ASD Alta Resa, società sportiva di Pordenone che portava avanti una squadra di sitting volley dove giocano assieme persone con e senza disabilità, e Roberto Madinelli, atleta disabile che ha praticato negli anni il sitting volley con l’Alta Resa e oggi si dedica al basket in carrozzina nell’Olympic Basket Verona e nell’Albatros Trento.
A Parigi Valentina Petrillo ha scritto la storia. Correndo nella categoria T12 i 400 metri e i 200 metri, dove ha raggiunto le semifinali senza poi riuscire ad accedere all’atto conclusivo per le medaglie, l’azzurra è diventata la prima atleta transgender a gareggiare in una Paralimpiade. L’avevamo intervistata nella prima edizione di Odiare non è uno sport, approfondendo la sua storia umana e sportiva, quando ancora in pochi parlavano di lei.
di Ilaria Leccardi
Gli anni di allenamento per arrivare a Parigi sono stati duri e impegnativi, per l’atleta napoletana che oggi vive e si allena a Bologna e che gareggia in ambito paralimpico in quanto fin da adolescente ha la malattia di Stargardt che comporta una grave ipovisione. Lo scorso anno era stata bronzo mondiale sui 200 e 400 metri e la partecipazione ai Giochi Paralimpici di Parigi è un grande risultato. La sua, che è senza dubbio una storia di inclusione importante, di ispirazione per tante e tanti giovani che vivono nell’ombra, ha però scatenato critiche e commenti d’odio. Non si parla del merito della sua partecipazione: il regolamento internazionale lo permette, Valentina rispetta i parametri indicati dell’IPC, il Comitato Olimpico Internazionale, e da World Para Atheltics. Qui si parla di odio, hate speech, vera e propria discriminazione attraverso le parole che in queste settimane e giorni sono rimbalzate del web, contro la sua persona, contro l’intera comunità LGBTQIA+.
Questa è la notizia di cui nessuno parla. Come se fosse ormai un fenomeno normale, la libertà di deliberatamente insultare sul web. Tra chi argomenta in maniera civile che la partecipazione di Valentina Petrillo non è opportuna, perché avrebbe dei vantaggi fisici sulle altre donne (quando al momento nessuno studio scientifico lo conferma e, semmai, dice il contrario per le persone che seguono la terapia ormomale MtF – da maschio a femmina), e chi invece si lascia ad andare a insulti gratuiti e violenti, anche attraverso volgare ironia utilizzando meme. Ad ogni notizia pubblicata sui social da testate giornalistiche o dalle tantissime pagine di informazione e divulgazione attive in particolar modo su Facebook, ha fatto seguito una valanga di hate speech, per lo più denigratori e insultanti, nei termini e nei modi. Catena di parole inaccettabili, pochissime volte censurate dai moderatori delle pagine stesse.
Sul caso si è espressa anche J.K Rowling, autrice di Harry Potter, che già aveva parlatosul caso di Imane Khelife, la pugile algerina avversaria nel primo turno olimpico dell’azzurra Angela Carini. Su X, dove ha enorme visibilità mondiale, Rowling ha attaccato come già più volte in passato la comunità trans e ha utilizzato per Valentina il termine “cheat”, ossia imbrogliona, paragonandola a Lance Armstrong, ciclista vincitore di sette Tour de France, prima di essere squalificato a vita per uso di doping. Questo ha contribuito ad alimentare il dibattito. Solo questo tweet ha raccolto in pochi giorni 4 milioni di visualizzazioni, oltre 60mila like, 10mila retweet e 3.500 commenti.
All”ondata di odio Valentina ha risposto in pista, prima correndo, poi con forza e parole semplici ai microfoni Rai. “In un suo libro J.K. Rowling parla di uno sport senza genere… Mi sarei aspettata qualcosa di più da lei”.
Il sogno di Valentina, realizzato su quella pista lilla di Parigi, ha valore soprattutto per tutte le persone trans che sono state invisibilizzate e marginalizzate, per chi si sente escluso da un contesto sportivo che dovrebbe essere per sua natura inclusivo. “Lotto contro tutto l’odio che accompagna la vita delle persone come me. Nel mondo ancora si muore per il solo fatto di essere trans. Io incarno due diversità, la disabilità e l’essere trans, e spero che attraverso il mio messaggio si possa finalmente normalizzare questi fenomeni e non avere più paura”.
Riportiamo qui soltanto un piccolo esempio degli innumerevoli commenti racconti sui social, per evitare di riprodurre ulteriore violenza. Che siano abbastanza per capire di cosa stiamo parlando.
Un livello di hate speech senza eguali, per una vicenda nata attorno al ring, condita di fake news e arrivata a diventare un caso politico internazionale. Il match olimpico di pugilato tra l’azzurra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif– categoria 66 kg – tenutosi ieri e concluso con la vittoria di quest’ultima dopo il ritiro dell’italiana, sta riempiendo da giorni le pagine dei giornali, ma ancor più i flussi social con commenti d’odio su diversi fronti.
di Ilaria Leccardi
Partiamo dai fatti. Alcuni giorni fa, quando viene diffuso il nome dell’avversaria dell’azzurra a seguito del sorteggio, i giornali iniziano a sollevare il caso: si tratta di Imane Khelif, testa di serie numero 5, attorno a cui da qualche tempo è in corso uno scontro internazionale ai massimi livelli dello sport. L’atleta lo scorso anno era infatti stata squalificata dall’IBA (International Boxing Association) agli ultimi Campionati del Mondo, assieme alla taiwanese Lin Yu-tin, a seguito di test che avrebbero definito il “mancato rispetto dei criteri di idoneità per la partecipazione alla competizione femminile” (come si può leggere dal comunicato ufficiale dell’ente internazionale). Una decisione definita “arbitraria” dal Comitato Olimpico Internazionale, soprattutto per le modalità in cui è stata effettuata, “senza una procedura adeguata, considerando che le due atlete gareggiano in competizioni internazionali di alto livello da molti anni”. Tant’è che alle Olimpiadi di Parigi Imane Khelif e Lin Yu-tin, che avevano già partecipato ai Giochi di Tokyo, sono state ammesse e la validità della loro partecipazione è stata ribadita con un’altra nota emessa dal CIO nella serata di ieri.
Un comunicato pubblicato a seguito dell’inasprirsi dei toni. Perché nel frattempo il caso mediatico in vista del match tra Khelif e Carini era già montato. Dapprima le testate italiane hanno parlato di “pugile trans”. Alcune addirittura, contravvenendo a qualsiasi regola deontologica nei confronti delle stesse persone trans, arrivano a parlare di “uomo che gareggia con le donne”. Politici e ministri si scomodano per gridare allo scandalo. Poco per volta si ricompongono i pezzi del puzzle ed emerge che – sono sempre ricostruzioni – il problema di Khelif, donna che ha sempre gareggiato con donne, sarebbero i livelli alti di testosterone. La sua situazione potrebbe essere quella di una persona con “variazioni delle caratteristiche del sesso” (DSD) che possono comportare iperandroginismo, cioè una produzione di ormoni superiore alla media generale. In patria Khelif è una stella dello sport, una stimatissima atleta, ambasciatrice Unicef. Si è allenata anche in Italia, presso il Centro Nazionale di Pugilato di Assisi.
Ieri il giorno tanto atteso. Le pugili salgono sul ring, inizia il match. Khelif parte più aggressiva. Carini dopo alcuni secondi si ferma e va all’angolo, si fa aggiustare il caschetto. Si riprende, la pugile algerina manda a segno un destro. Dopo aver incassato, Carini si avvicina nuovamente al suo angolo e, dopo 46 secondi dall’inizio dell’incontro, decide di ritirarsi. “Mi ha fatto malissimo”. Il dolore al naso è troppo forte. La seconda Olimpiade di Angela Carini termina così.
Senza voler entrare negli aspetti tecnici e nei regolamenti, che in ogni caso consentivano all’atleta algerina di partecipare, la vicenda ha scatenato un’allarmante ondata di odio social, prima nel dibattito italiano poi anche a livello internazionale, con una fortissima polarizzazione. Fin da subito è stata presa di mira la pugile algerina, contro la quale si sono scatenati messaggi in forma di aggressività verbale, linguaggio volgare, ma anche vere e proprie forme di discriminazione, sottoforma di omofobia e transfobia, benché appunto lei non sia una persona trans. Molti dei commenti sono inquadrabili come attacchi alla comunità lgbtqia+ o al mondo del femminismo. La pugile viene definita nei peggiori modi, con epiteti scurrili, con totale disattenzione nei confronti della sua reale storia umana e sportiva.
Quindi, a seguito dell’andamento del match, dopo il ritiro dell’italiana, il dibatitto e il flusso social si sono ulteriormente polarizzati. Da una parte chi si è schierato con Carini e la decisione del ritiro, dall’altra chi ha invece parlato di “sceneggiata”, attacando la pugile italiana che alla fine del match non ha stretto la mano all’avversaria. In entrambi i casi, i commenti d’odio si sono moltiplicati in direzioni diverse, con rinnovati attacchi a Khelif, ancora definita “uomo”, “camionista” “trans”, con epiteti e linguaggio volgare, nonché espressioni razziste nei confronti del suo paese di appartenenza e addirittura ai migranti algerini. C’è chi parla di “violenza di genere sul ring”, chi in maniera volgare fa riferimento agli organi sessuali di Khelif, in un senso o nell’altro (“è donna, è nata con la f.”, o “Carini ha fatto bene, rischiava che la Khelif la prendesse a pisellate”, “si sistema il pacco, avete mai visto una donna sistemarsi il pacco?”). Dall’altra parte contro Angela Carini, pugile azzurra dall’importante storia alle spalle, accusata di aver abbandonato il match in maniera strumentale, irrisa per quello che è stato considerato uno scarso livello di combattività, tacciata di vittimismo e di andare alla ricerca di visibilità. I commenti in questo caso si sviluppano maggiormente in forma di linguaggio volgare o con una modalità irrisoria: “Pensava di fare danza classica?”, “Pensava di giocare con le barbie?”.
E anche quando, di fronte all’elevato livello di aggressività, i social media manager delle testate giornalistiche italiane sono intervenuti in maniera esplicita, il flusso non si è fermato, anzi. “Vi chiediamo di esprimere le vostre opinioni senza sfociare in discriminazioni di alcun genere”, scrive il profilo Instagram della Gazzetta dello Sport. Commento che a sua volta, nel giro di pochi minuti, ha scatenato un ulteriore marea di commenti di aggressività verbale da parte degli utenti. Così come sono stati presi di mira con hate speech e insulti i telecronisti Rai che in diretta hanno commentato la scelta di ritirarsi di Angela Carini, con le parole: “Non è una bella figura” .
Il caso è diventato presto anche internazionale, ma a far rumore è la dimensione di fake news globale che ha assunto la vicenda. Alcune ore dopo il match, Elon Musk, proprietario di X, tra le persone con maggiore visibilità web al mondo, ha rilanciato un post con la fotografia di Angela Carini e le parole: “Gli uomini non appartengono allo sport femminile #IStandWithAngelaCarini. Rendiamolo trend 🔥”. Viene lanciato il trend. X/Twitter si scatena. Interviene sul caso anche Jk Rowling, autrice della saga di Harry Potter che già in passato aveva espresso posizioni molto criticate, escludenti nei confronti della comunità trans. Si moltiplicano meme che accomunano Khelif e Mike Tyson con la parrucca.
Il dato di fatto è che, ancora una volta, temi sportivi che toccano tematiche relative alla razzializzazione (si veda caso Egonu-Nazionale italiana, come spiegato nella seconda edizione del Barometro dell’Odio nello Sport), al protagonismo femminile o alle differenze di genere, sono capaci più di altri di scatenare l’odio online. E questo anche quando la specifica disciplina sportiva non trova certo i favori delle cronache. Quando mai infatti il pugilato è stato al centro della narrazione sportiva o ha suscitato un flusso di click e commenti così elevato? Qui si esula dallo sport e un ruolo importante lo ha senza dubbio la confusione generata da una scorretta informazione di base sull’argomento, per responsabilità delle testate giornalistiche che inizialmente hanno fornito informazioni imprecise e mal contestualizzate sulla figura dell’atleta algerina. Questo si è unito agli interventi di alcuni noti esponenti politici che, sempre attraverso i canali social, hanno dato visibilità alla controversia utilizzando alcune parole chiave ed espressioni, per altro in maniera scorretta, capaci di aumentare il livello di polarizzazione (una su tutte “pugile trans”). Una vicenda che, nel suo complesso, ha dimostrato uno scarso rispetto di fondo nei confronti di entrambe le protagoniste, anche per l’eccessivo carico di aspettativa che si è creato nei confronti del match.
E così, se nei giorni precedenti all’incontro che ha visto sul ring Angela Carini, la boxe aveva sollevato dibattito e discussione a causa di una serie di decisioni arbitrali e punteggi sfavorevoli alle azzurre e agli azzurri, il ring è tornato al centro del dibattito in una forma tutt’altro che conforme allo spirito olimpico. Tanto più che la stessa pugile italiana e i suoi allenatori non avevano espresso alcun giudizio negativo, alcuna protesta formale o alcun attacco contro l’atleta algerina e la sua possibilità di competere ai Giochi. Imane Khelif è una pugile battibile, come aveva dimostrato la sua eliminazione ai quarti di finale a Tokyo 2020.
I centri estivi come luogo e tempo speciale. Una salvezza per le famiglie, durante la lunga chiusura delle scuole. Un’opportunità per bambini e ragazzi per sperimentare attività nuove e significative, capaci di fondere dimensione ludica e approfondimento, senza la tensione delle dinamiche scolastiche o agonistiche. È in quest’ottica che si inserisce il percorso ideato all’interno di Odiare non è uno sport, grazie alla collaborazione tra CVCS e il Comune di San Pier d’Isonzo, paesino in provincia di Gorizia che ogni anno organizza centri estivi comunali, coinvolgendo le società sportive del territorio. Dagli allenatori ai genitori, dagli educatori dei centri estivi comunali al lavoro diretto con i ragazzi, il percorso è stato guidato da Clara Miani, psicologa dello sport, che abbiamo intervistato per conoscere meglio le attività e la risposta del territorio.
di Ilaria Leccardi
Il percorso è stato strutturato a “imbuto”, con vari incontri sul territorio. Il primo, il 6 maggio, per presentare i centri estivi comunali alle famiglie, in cui la psicologa ha potuto conoscere i genitori e presentare le attività programmate per i ragazzi, ma anche per raccogliere bisogni e necessità. “Abbiamo riscontrato grande entusiasmo nelle famiglie ed è emerso il bisogno di iniziare a parlare di sport e valori sportivi, ma anche di creare una base solida sul tema della comunicazione per prevenire il fenomeno dell’hate speech e strutturare un ambiente sportivo sicuro e positivo”. Quindi, il 20 maggio, si è tenuto un incontro esteso a tutti gli allenatori del territorio, volto a comprendere cosa sia l’hate speech e acquisire ottiche e strategie di comunicazione per contrastarlo online e in campo. “Abbiamo avuto una buona partecipazione volontaria, con età molto differenti, a prevalenza maschile”, racconta Miani, spiegando che si è trattato di un incontro informativo ma che ha previsto anche una piccola parte esperienziale sui commenti d’odio che i partecipanti potevano aver letto online o di cui erano stati vittima diretta. “L’idea – aggiunge – è stata quella di suscitare nei partecipanti una consapevolezza di quanto sia pervasivo il fenomeno nelle nostre vite nella cornice sportiva”.
Infine, il 10 giugno, un appuntamento con educatori e istruttori che avrebbero lavorato direttamente con i ragazzi ai centri estivi. “Gli allenatori – spiega Miani – hanno riconosciuto l’esistenza di fenomeni d’odio online, ma la necessità più forte era capire come gestire i fenomeni d’odio e di intolleranza che si manifestano in campo. Non è scontato, infatti, che lo sport sia educativo: è uno strumento potente, ma è necessario identificare delle aree di lavoro specifiche per garantire che sia effettivamente educativo e positivo”.
L’incontro con gli allenatori del territorioL’incontro con gli educatori dei centri estivi comunali
Dopo la fase di dialogo con il territorio, si è passati alle vere e proprie attività nei centri estivi. Un momento dell’anno “speciale”, spiega Miani, che pone i ragazzi in uno “stato psicofisico e relazionale ottimale, senza le tensioni tipiche della scuola e dell’attività sportiva agonistica, ma in cui il gruppo è spinto al dialogo, anche per riflessioni profonde”.
Il percorso a San Pier d’Isonzo, in cui centri estivi comunali coinvolgono principalmente società sportive locali che lavorano con sport di squadra, ha previsto l’intervento della dottoressa Miani una volta a settimana, ogni giovedì dal 20 giugno al 18 luglio. Cinque appuntamenti di due ore, a partecipazione volontaria, ciascuno focalizzato su un valore sportivo, ideati con format differenti, per non annoiare, per coinvolgere e per far fronte al fatto che non è scontato che i bambini e i ragazzi fossero presenti a tutti gli incontri.
I valori su cui si è deciso si lavorare sono stati: il divertimento e l’importanza di fare sport per divertirsi; lealtà e fair play; rispetto del gioco, delle regole e degli avversari; vincere e perdere; saper cooperare nello sport. Obiettivo finale: creare una sorta di manifesto sportivo dei centri estivi di San Pier d’Isonzo. Le attività, pensate per un target di età 10-13 anni ma con la possibilità di includere anche bambini più piccoli, hanno coinvolto ogni volta una ventina di partecipanti, per lo più ragazze.
“Ogni incontro – spiega Miani – ha previsto una mezz’ora introduttiva sul valore sportivo identificato e poi un’ora in cui i partecipanti hanno potuto sviluppare in forma creativa le proprie idee attorno ad esso. Abbiamo usato format ogni volta differenti, dal template per intervistare gli altri partecipanti ai centri estivi, per approfondire il tema del divertimento nello sport, al fumetto per sviluppare storie di fair play, dalla rappresentazione delle regole sportive attraverso disegni sulle magliette, valorizzando l’importanza di scrivere la regola, pronunciarla e poi ‘indossarla’ per trasmetterla agli altri, alla creazione di brevi cortometraggi sul tema del vincere e del perdere nello sport, fino a quella che abbiamo chiamato ‘guerrilla lettering’, ossia la creazione di slogan in forma grafica da affiggere nei vari punti della grande area dove si svolgevano i centri estivi. Ogni incontro si è chiuso poi con un momento di riflessione in cui abbiamo tirato le somme, tenendone traccia su un grande cartellone, per la creazione finale del manifesto dei centri estivi”.
Una sperimentazione sicuramente importante, che ha arricchito l’estate del paesino friulano per tanti giovani. E che ha avuto un ottimo esito grazie al coinvolgimento dell’intera comunità e di un tessuto urbano con forti legami tra gli attori sociali. “Lavorare in un contesto urbano di un paese è un punto di forza, abbiamo abbracciato una comunità estesa anche ai comuni vicini, ma dove c’era già molta connessione. Mi ha sorpresa il grande interesse nei confronti di queste tematiche ed è stato molto importante lavorare in un contesto così aperto, disteso e ludico, piacevole per i ragazzi e le ragazze che si sono sentiti sereni nella condivisione e hanno potuto esprimere la propria creatività su tematiche non scontate”. Un’estate ricca di insegnamenti che sicuramente porteranno con sé.
Perché la presenza delle donne nel calcio dà ancora così fastidio, scatena commenti sessisti e rende i social cassa di risonanza e ring di scontro a suono di insulti? E perché una donna nel calcio fa notizia, genera titoli e flusso di commenti sui social quasi mai per una sua prestazione sportiva?
di Ilaria Leccardi
Ce lo racconta – purtroppo bene – l’episodio che ha visto coinvolta Guadalupe Porras, guardalinee spagnola, componente della terna arbitrale impegnata nella partita di Liga spagnola maschile tra Betis Siviglia e Athletic Bilbao, giocata domenica 25 febbraio. Con la partita sull’1 o 0 per il Betis, muovendosi rapidamente sulla linea laterale è stata colpita in pieno al volto da un cameraman con steadycam che ha varcato in modo maldestro la soglia del campo, entrando nella sua zona di azione. Uno scontro violento, fortuito, che ha provocato una profonda ferita al volto di Porras, costretta a lasciare il campo in una maschera di sangue.
La notizia ha fatto il giro del web, con foto e articoli pubblicati da tutte le principali testate sportive e non. L’aspetto sconcertante è che ai post – in Italia su tante pagine social, in particolare su quella del più letto quotidiano sportivo, la Gazzetta dello Sport, ma anche in Spagna sui profili dello sportivo Marca – hanno fatto seguito una marea di commenti, molti dei quali di evidente stampo sessista. “Succede quando le donne, invece di occuparsi di moda o trucco, si inventano guardalinee”, oppure “mille motivi per stare in cucina”, o ancora “tornino a fare il loro mestiere”, con tanto di cuoricini a raccogliere consenso da altri utenti (si vedano i comenti riportati dall’account Instagram dell’avvocata e attivista Cathy La Torre). Ma il web non è stato a guardare. Prima che le rispettive testate cancellassero i peggiori commenti, un’altra miriade di utenti è intervenuta, principalmente in due modalità: chi chiedendo un intervento di moderazione da parte dei gestori dei profili social, indignandosi per la lentezza nella cancellazione, chi insultando a sua volta gli autori dei post sessisti, generando un flusso di commenti a catena ricchi di hate speech, in particolar modo in forma di linguaggio verbale e aggressività verbale.
Qui di seguito alcuni screenshot che riprendono i commenti sulla pagina Instagram della Gazzetta dello Sport, alla notizia dell’infortunio sul campo della guardalinee Porras:
uno screenshot ripreso dall’account Instagram di Cathy La Torre: @avvocathy
Dopo aver lavorato su Facebook e Twitter (X), il team di ricercatori dell’Università di Torino impegnati per Odiare non è uno sport, sta analizzando i flussi di post e commenti su Instagram e TikTok, per approfondire e comprendere le modalità di fruizione di questi social rispetto alle notizie sportive. Dalla seconda edizione del Barometro dell’Odio nello sport, presentata a ottobre scorso, è emerso come l’hate speech online in ambito sportivo sia purtroppo un fenomeno in crescita: si manifesta per lo più sotto forma di aggressività verbale e ha maggiore incidenza nei commenti social riguardanti il calcio, sport che domina quasi totalmente il flusso dell’informazione sportiva italiana.
Il calcio raccontato, evidenzia il Barometro, è soprattutto maschile, così come l’informazione sportiva in generale. Le atlete compaiono poco nei flussi di notizie sui social, se non per episodi clamorosi o che poco riguardano la prestazione sportiva. Un caso su tutti: il grande volume di hate speech registrato nei confronti della stella della pallavolo azzurra Paola Egonu, non dopo una vittoria o una sconfitta in partita, ma a seguito dell’annuncio di volersi allontanare dalla Nazionale a causa dei commenti razzisti ricevuti nel “mondo reale”. Notizia che la rese target di commenti d’odio online soprattutto sotto forma di discriminazione. Interessante notare come altre donne che scatenano importanti flussi di commenti e di odio sui social siano le compagne dei calciatori, in particolare – si legge nel Barometro – la cantante Shakira, ex compagna di Gerard Piqué, e Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi. Questo a testimonianza che a fare a più notizia nel mondo sportivo italiano sono ancora le “mogli di” che non le sportive stesse.
L’hate speech purtroppo si manifesta spesso nei confronti delle donne quando il loro ruolo e la loro visibilità è legata al mondo del calcio o di uno sport connotato nell’immaginario comune come “prettamente maschile”. Ce lo aveva raccontato anche la motociclista Francesca D’Alonzo, alias The Velvet Snake, ex ballerina che compie imprese in modo fuoristrada in tutto il mondo: seguitissima sui social, ancora viene presa di mira da haters che la bombardano di commenti sessisti.
L’episodio che ha riguardato la guardalinee spagnola rende chiaro come sia ancora necessario fare un lavoro di educazione e sensibilizzazione sull’utilizzo dei social, in particolar modo sui giovani. Insegna che il web è ormai molto attento a rispondere al linguaggio d’odio, soprattutto su certe tematiche, anche se purtroppo spesso i commenti di risposta si manifestano a loro volta in forma di aggressività verbale. E al tempo stesso evidenzia quanto è importante che chi detiene il potere di informare e di immettere sui social notizie, tanto più se si tratta di un organo di stampa autorevole, abbia anche la prontezza di intervenire sui commenti che contengono forme di hate speech in grado di autoalimentarsi uno con l’altro, diventare vere e proprie catene di discriminazione online.
Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.
Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.
Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?
In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.
I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?
Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.
Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatoreprofessionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?
Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzocontro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.
Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?
Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.
Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?
Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.
Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.
Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?
Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.
Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.
Offrire strumenti di approfondimento per riconoscere e contrastare l’hate speech online. Ma anche proporre nuove modalità di condivisione, con un approccio non frontale, ricco di esempi che permetta alle nuove generazioni di “allenarsi” alla gentilezza nella comunicazione online. Odiare non è uno sport ha tra i suoi principali obiettivi quello di entrare in contatto diretto con i ragazzi, anche nei contesti scolastici. Ecco perché nell’ambito del progetto nasce l’Unità didattica di apprendimento (UDA), un percorso didattico per le scuole secondarie dedicato al riconoscimento e al contrasto dell’hate speech, accessibile a formatori e docenti gratuitamente dalla piattaforma di ImpactSkills. Ma come nasce l’UDA? Quali sono i principali obiettivi e come è stata fino ad ora applicata nei contesti scolastici? Ne abbiamo parlato con Maria Lipone, formatrice che da anni lavora con CVCS e che ha coordinato i lavori di realizzazione e stesura dell’UDA, conducendo già numerosi incontri nelle scuole.
di Ilaria Leccardi
Maria Lipone
Dottoressa Lipone, come prende vita questo percorso didattico e chi vi ha contribuito?
È stato un lavoro corale che ha visto coinvolte le ong e diversi dei soggetti partner del progetto, nelle sette regioni italiane dove si svolge Odiare non è uno sport. Un lavoro stimolante e complesso, concentrato tra i mesi di marzo e giugno, in cui ogni realtà ha portato proprie specificità e competenze. Nella versione definitiva dell’UDA abbiamo cercato di prevedere un’alternanza di momenti formativi, sperimentazione pratica, lavoro individuale o di gruppo, stimoli visivi e video per i ragazzi.
Come si compone il percorso?
Comprende tre incontri da due ore ciascuno, con una parte pratica e una parte teorica, declinati in una versione per le scuole secondarie di primo grado e una per le scuole secondarie di secondo grado. Il primo incontro è dedicato alla conoscenza reciproca e all’introduzione del fenomeno hate speech, con l’approfondimento di concetti quali la piramide dell’odio, gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni; il secondo incontro è dedicato al riconoscimento del linguaggio d’odio, anche a partire dall’analisi di casi ripresi dai social e dalle app di chat utilizzate dai giovani; il terzo si concentra sulla sperimentazione di modalità comunicative diverse, per contrastare concretamente l’hate speech.
Gli insegnanti possono condurre le attività in maniera autonoma oppure è necessaria la presenza di un formatore o una formatrice esterna?
Il percorso e i materiali sono pensati per essere replicabili in maniera autonoma dagli insegnanti. Tuttavia, l’esperienza fatta finora ci dice che spesso viene richiesta la nostra presenza come formatori poiché non tutti i docenti sono abituati a condurre attività con una modalità che non sia quella classica frontale e che preveda ad esempio una destrutturazione dell’impostazione classica dell’aula e la partecipazione in forma laboratoriale degli studenti. E poi, anche perché le tematiche sono molto delicate e promuovono la condivisione di esperienze a volte dolorose che non è sempre facile raccogliere, accogliere e contenere. La presenza di una figura di mediazione può essere utile in queste situazioni.
attività in classeattività in classeattività in classe
Come sono state le esperienze con i ragazzi finora?
In questi primi mesi di anno scolastico ho condotto incontri in quattro classi del biennio superiore e in quattro terze medie nella regione del CVCS, ossia il Friuli-Venezia Giulia. Mentre le altre ong hanno lavorato nelle rispettive regioni. Sono state tutte esperienze molto positive, che hanno evidenziato la necessità di percorsi di questo tipo. I ragazzi ne hanno davvero bisogno. Da una parte perché il digitale è una sfera che li coinvolge molto, nella quale si sviluppano dinamiche che spesso definiscono le loro relazioni personali, ma su cui non hanno possibilità di condivisione. A volte gli adulti danno per scontato che i giovani abbiano delle competenze rispetto ai social solo perché sono capaci di usare un dispositivo digitale. Ma non è così. E questo porta a compiere errori, anche ingenui, ma potenzialmente pericolosi.
Il digitale può essere da una parte lo specchio dall’altra il moltiplicatore di dinamiche che avvengono nella vita reale.
Spesso i ragazzi hanno un accesso precoce a contenuti che non hanno ancora la capacità di elaborare. E accedendovi hanno a che fare con stili comunicativi o estetici che possono condizionare il loro agire nella vita reale. Certi social comportano un bombardamento di stimoli che finiscono con il far perdere all’utente il contatto con la realtà, con la quale si fa fatica a fare i conti. Penso che l’iper connessione sia più una conseguenza che non una causa del malessere e del disagio vissuto dai giovani. Quello dei social è un luogo dove i ragazzi – che hanno bisogno di relazioni ed esperienze che spesso non riescono a vivere nella vita reale – possono soddisfare molti dei loro bisogni. Ma non per questo è un luogo sicuro e soprattutto all’interno di questo universo i ragazzi non sperimentano passaggi di crescita fondamentali.
In che modo l’Unità Didattica è declinata sul tema sport?
Si fa riferimento all’ambito sportivo nel momento in cui diversi esempi di discorsi d’odio sono ripresi da quel mondo, raccontando come ci sono campioni anche molto noti che hanno subito hate speech e discriminazioni. Inoltre, tra le attività di “rottura del ghiaccio” io chiedo spesso chi nella classe pratica uno sport. Con dispiacere ho notato che non sono tanti, anche perché il covid negli ultimi anni ha portato molti giovani ad abbandonare l’attività sportiva. Più frequente è trovare ragazzi che tifano, per lo più una squadra di calcio, e quindi il discorso sport – e di conseguenza l’attenzione all’hate speech – si riesce ad allargare a questo ambito. Ho notato inoltre che nelle scuole secondarie di secondo grado hanno sempre più appeal l’allenamento in palestra e il body building, anche questo in conseguenza di quanto i giovani vedono sui social. Un’attività però spesso vissuta in maniera solitaria e non condivisa.
Come raccogliete il feedback dei ragazzi? Sono previsti questionari o valutazioni sul percorso?
L’Unità Didattica prevede dei questionari sia in ingresso che in uscita, sia sulle nozioni acquisite durante il percorso, sia sull’esperienza personale vissuta. Viene chiesto ai ragazzi se abbiano mai subito direttamente hate speech o discriminazioni online. Tra le attività del secondo incontro, inoltre, viene chiesto ai partecipanti di scrivere su dei post-it in forma anonima il messaggio più brutto da cui sono stati feriti nelle comunicazioni online, in chat o sui social. E purtroppo spesso emergono parole ed espressioni terribili. Ecco perché lavoriamo anche per “allenare” a una comunicazione gentile, proponendo esercizi per trasformare le comunicazioni, ad esempio da uno stile giudicante a uno stile più assertivo. Il percorso prevede infine un quiz online tramite cui gli studenti possono sperimentarsi in prima persona per contrastare l’odio online.
La Riforma dello Sport a partire dalla base e dalle persone
Un ciclo di sei incontri sulla Riforma dello Sport avanzata dal governo. È quanto propone lo CSEN (Centro Sportivo Educativo Nazionale) – all’interno del progetto Odiare non è uno sport – per approfondire il tema dal punto di vista delle persone che ogni giorno lavorano nei luoghi dello sport. Mentre il dibattito mainstream si è per lo più concentrato in questi mesi su temi di “vertice”, come il limite ai mandati dei presidenti federali, il contributo dello CSEN vuol andare nella direzione di tornare al valore sociale dello sport, a partire dalla base.
Il ciclo di incontri, dal titolo “La riforma dello sport. Il punto di vista di chi vive lo sport centrato sulle persone, a favore dell’integrazione sociale, per conoscere e contrastare l’hate speech” (al fondo dell’articolo il calendario completo), parte lunedì 28 settembre a Perugia, toccando altre cinque città: Verona, Torino, Catania, Roma e Udine. Gli incontri saranno trasmessi sulla pagina Facebook di Odiare non è uno sport. A seguito dell’aggravarsi dell’emergenza sanitaria, a partire dal secondo incontro sono stati integralmente spostati su piattaforma online, a distanza.
Lo CSEN, spiega Andrea Bruni, Responsabile Ufficio Progetti Nazionale dell’Ente di promozione sportiva, “concepisce lo sport come attività volta a favorire il benessere delle persone e quindi vede in esso prima di tutto un intento e una finalità sociale. A differenza delle Federazioni, che curano maggiormente le eccellenze sportive. Nel contesto della Riforma dello Sport, la discussione per ora si è molto concentrata su cosa cambierà per i vertici e per i dirigenti, ma ha lasciato in sospeso le altre problematiche. Per esempio non si è parlato di chi fa dell’attività sportiva il suo lavoro, che non ha un contratto nazionale di riferimento. Oppure dell’approccio educativo che lo sport deve avere con i minori”.
Negli incontri però si affronteranno anche i temi dell’integrazione sociale, della lotta alle discriminazioni e dello sport integrato, ossia “dell’attività sportiva che mette insieme persone con disabilità e persone non disabili, con regolamenti nuovi. Un tema interessante – prosegue Bruni – perché aggancia le problematiche legate al ruolo che ogni sportivo può avere nel contesto di origine e il contributo che ciascuno può dare a livello individuale su obiettivi collettivi, se messo nella miglior condizione per esprimersi”.
Di seguito l’elenco dettagliato degli appuntamenti:
PERUGIA lunedì 28 settembre 2020 / ore 17.30 Sala Trinci – Centro Congressi Capitini – Via Centova 4
PIEMONTE venerdì 6 novembre 2020 /ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Gianluca Carcangiu – Presidente Regionale CSEN Piemonte Ilaria Zomer – Formatrice presso il Centro Studi Sereno Regis Ivana Nikolic – Ballerina professionista, attivista – artista ed educatrice Barbara Costamagna – Psicologa e Psicoterapeuta
ROMA venerdì 13 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Henrika Zecchetti – Presidente Comitato Provinciale CSEN Roma Elisa Nucci – Responsabile Progetti COMI – Cooperazione per il mondo in via di sviluppo Antonella Passani – sociologa e membro di IntegrArte Leonina Benigni – educatrice Professionale
FRIULI VENEZIA GIULIA sabato 14 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Giuliano Clinori – Presidente Regionale CSEN Friuli e Vice Presidente Nazionale CSEN Sara Fornasir – Responsabile del Progetto Odiare non è uno Sport – Referente CVCS Eva Campi – Referente Parole Ostili
VENETO sabato 21 novembre 2020 / ore 10.00 – diretta FB con Giacinto Corvaglia – Comitato Provinciale CSEN Verona Marina Lovato – Formatrice Ufficio Educazione e Cittadinanza Attiva – ProgettoMondo Mlal Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti Stefano Pratesi – Formatore esperto in gestione dei conflitti e diritti umani Paola Caruso – Referente Regionale Calabria CSEN Sport Integrato
Ginocchio a terra e pugno alzato al cielo. Il gesto simbolo dell’ondata di proteste partita dagli Stati Uniti, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, è arrivato anche sui campi di calcio. Il gesto compiuto dal bomber neroazzurro Romelu Lukaku, al decimo minuto di Inter-Sampdoria, al rientro al calcio giocato dopo oltre tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus, ha riempito le prime pagine dei giornali e le bacheche dei social. Scatenando una marea di commenti. Prima di lui allo stesso modo aveva esultato anche Nicolas Nkoulou, difensore del Torino, andato in rete sabato contro il Parma.
di Ilaria Leccardi
Molti sono stati i commenti di sostegno e apprezzamento del gesto, ma anche tanti, ancora troppi, quelli che sono andati ben oltre la critica, conditi da insulti e veri e propri attacchi alla persona, alla squadra e in generale al movimento Black Lives Matter.
La fotografia del gigante neroazzurro è stata ripostata dai profili social dell’Inter con la scritta Black Lives Matter e gli hastag #BrothersUniversallyUnited#NoToDiscrimination , e da quelli del giocatore che ha scritto: “Questo è per tutte le persone che lottano contro l’ingiustizia. Io sono con voi”.
This one is for all the people who’s fighting for injustice. I am with you ✊? pic.twitter.com/I2FlUGCb8t
— R.Lukaku Bolingoli9 (@RomeluLukaku9) June 21, 2020
Se sulle pagine ufficiali i commenti sono stati per lo più di approvazione, è sulle pagine social delle testate sportive che si sono scatenati gli haters da tastiera. C’è chi ricorre all’insulto generico, “coglione”, “pagliaccio”, “vaffanculo”, “che cazzata”, “ipocrita”, “deficiente”. Chi invece prova ad argomentare, non contestualizzando minimamente il gesto, ma sostenendo che Lukaku avrebbe fatto meglio a protestare per altri fatti di cronaca, per omicidi avvenuti in altre situazioni (commessi da persone nere), per i morti da Covid19. E poi ci sono coloro secondo cui comunque alla fine George Floyd era un “criminale” (così viene definito in diversi commenti, quasi a giustificare la morte per soffocamento di una persona). Altri invece – molti – che attaccano il calciatore e la società, anche con insulti pesanti, perché “non bisogna mettere la politica nello sport”.
Ma perché non dovrebbe succedere? E perché un gesto a sostegno di una battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza sociale deve scatenare ancora così tanto odio?
Non è la prima volta che Lukaku viene preso di mira, sia sui social che dal vivo. Il caso più clamoroso fu durante la partita Cagliari-Inter, a inizio campionato, quando i tifosi cagliaritani intonarono un coro di buu, come purtroppo ancora troppo spesso negli stadi avviene nei confronti i calciatori neri. All’epoca lui commentò: “Molti giocatori nell’ultimo mese sono stati vittime di abusi razzisti. A me è successo ieri.
Il calcio è uno gioco che deve far felici tutti e non possiamo accettare nessuna forma di discriminazione che lo possa far vergognare. Spero che tutte le Federazioni del mondo reagiscano duramente contro tutti i casi di discriminazione.
Ma come dimostra il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca condotta nell’ambito del progetto Odiare non è uno Sport, il calciatore dell’Inter – assieme a Mario Balotelli – è la figura sportiva che scatena il maggior numero di commenti contenenti hate speech sui social, in particolare insulti e forme di discriminazione razziale per il colore della pelle.
Il gesto di Lukaku non è certo una novità in ambito sportivo. Il più celebre pugno alzato al cielo resta quello di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dopo la finale dei 200 metri piani. Sul podio, davanti agli occhi di tutto il mondo, le medaglie d’oro e di bronzo olimpiche al momento dell’inno statunitense abbassarono il capo, alzarono il pugno, indossando un guanto nero. Era il 1968 e le battaglie per i diritti civili della popolazione nera negli States erano all’apice della loro intensità. Le conseguenze per i due velocisti non furono tanto le proteste del pubblico, quanto provvedimenti che li esclusero dai circuiti sportivi, così come fu per l’argento, il bianco australiano Peter Norman, che silenziosamente appoggiò il gesto dei colleghi neri, indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), e da allora ebbe la carriera rovinata.
I gesti che hanno coinvolto gli sportivi nei decenni da allora non sono stati pochi. Tra le proteste recenti più clamorose spicca quella di Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, che a partire dal 2016 più volte si è inginocchiato durante l’inno nazionale, in protesta contro le discriminazioni razziali, scatenando l’emulazione da parte di diversi colleghi, ma anche molte critiche dell’America bianca. Una protesta che gli è costata molto: terminato il suo contratto con i San Francisco 49ers, il quarterback è rimasto senza squadra e ha poi lanciato una battaglia legale contro l’intero sistema della NFL che lo avrebbe ostacolato in ogni modo a rientrare nel circuito, vincendola in tribunale e ottenendo un ingente risarcimento.
Ma prese di posizione molti forti ci sono state anche nelle ultime settimane, in seguito alla morte di Floyd. Alta si è levata la voce di tanti sportivi: da Lewis Hamilton, stella della Formula 1, unico pilota nero del circuito, a Lebron James, campione della NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers, da sempre sensibile al tema. Fino a Marcos Thuram, figlio di Lilian e giocatore in Germania del Borussia Moenchengladbach, che a sua volta si è inginocchiato dopo un gol.
Tornando a Lukaku viene da chiedersi il perché un gesto dimostrativo e di solidarietà a una battaglia che ha assunto una portata mondiale possa scatenare ancora così tanti commenti negativi e insulti deliberati. Come è noto, l’ambiente calcistico non brilla certo per tifoserie che hanno nella lotta per l’uguaglianza e i diritti civili una delle proprie chiavi. Anzi, in Italia nel 2020 sono ancora molti i gruppi di ultras – Inter compresa – che si definiscono apertamente fascisti. In questa coda di campionato così particolare a causa dell’emergenza sanitaria, gli stadi sono vuoti. Si gioca in un silenzio irreale. Un gesto come quello esibito davanti alle telecamere di tutto il mondo non poteva che avere una risonanza mediatica importante. E di certo non può unire le coscienze, perché ancora troppi sono coloro che non credono nell’uguaglianza sociale o che nemmeno si interrogano sui motivi che stanno scatenando le proteste di tutto il mondo e che affondano la propria ragion d’essere in secoli di colonialismo, discriminazioni e ferite profonde.
Ciò che è inaccettabile è che il commento non sia una critica sull’opportunità o meno del gesto simbolico, ma si trasformi in veicolo di invettiva, alimentando parole d’odio in una serie di botta e risposta (soprattutto su social come Facebook e Instagram dove è possibile rispondere e commentare i commenti altrui), che in tanti casi si trasformano in una spirale di insulti. Caratteristica purtroppo ormai strutturale del confronto sui social media.
In una società che è evidentemente ancora frammentata, un gesto come quello di Lukaku però può contribuire ad alimentare il dibattito. E non solo in protesta per la morte atroce di George Floyd a cui è stata tolta con violenza la possibilità di respirare. Ma assume un valore politico necessario. Forse perché è giunto il momento di non restare indifferenti. Forse perché abbiamo bisogno di una società consapevole. Il gesto non può bastare, ma il suo valore è forte, tanto più se viene da un uomo che – pur dall’alto del suo privilegio economico e mediatico – ha subito a sua volta episodi di razzismo in pubblico e che viene seguito dalle telecamere del mondo.
Anche per questo rilanciamo l‘appello a un Campionato senza odio e chiediamo a chi ci segue di monitorare quanto avviene sui social, individuando commenti contenenti hate speech e segnalandoli al nostro progetto.
Se vuoi contribuire puoi segnalare i commenti taggando la pagina Fb o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it. Se te la senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.
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