Parole fuorigioco: #6 Uno sport accessibile a tutti e tutte

Quali sono gli ostacoli alla pratica sportiva per persone con disabilità? E com’è che lo sport può diventare uno strumento utile a sviluppare e costruire una propria autonomia?

Nella sesta puntata di Parole Fuorigioco parliamo dell’importanza di uno sport accessibile a tutti e tutte, grazie al dialogo con Chiara Maniero, allenatrice di volley della Polisportiva San Precariodi Padova, Andrea Ros, che ci racconta l’esperienza dell’ ASD Alta Resa, società sportiva di Pordenone che portava avanti una squadra di sitting volley dove giocano assieme persone con e senza disabilità, e Roberto Madinelli, atleta disabile che ha praticato negli anni il sitting volley con l’Alta Resa e oggi si dedica al basket in carrozzina nell’Olympic Basket Verona e nell’Albatros Trento. 

Odiare non è… un’arte

Odiare non è uno sport“, e nemmeno un’arte.

Lo chiarisce bene il cubo realizzato nella scuola media di Lavagno, in provincia di Verona, dove il docente di arte Luca Vinco, dopo la formazione di studenti e studentesse, tenuta dalle operatrici di Progettomondo sui temi della campagna “Odiare non è uno sport”, ha deciso di andare oltre.

“Ogni anno nel nostro plesso viene indetta la settimana delle arti e delle scienze su varie tematiche e laboratori”, spiega Vinco. “Ho seguito la presentazione della campagna e sono rimasto colpito da un’attività sui volti anonimi di varie nazionalità, invitando a scegliere con chi si sarebbe voluto trascorrere una serata. I miei studenti cercano sempre di risolvere il cubo di Rubik, e quindi è nata l’idea di un lavoro corale in cui, al posto dei colori, apparissero i volti di persone di sei diverse nazionalità, asiatiche, africane, europee, latinoamericane. Come si mescolano i colori di Rubik, così abbiamo mescolato i volti, per restituire il senso dell’inclusione di ogni etnia. Siamo tutti esseri umani dello stesso pianeta e lo abbiamo voluto esprimere con simpatia, creando un cubo solidale”.

Nel cubo ogni volto ha i propri tratti distintivi e colori diversi della pelle. Ma gli occhi non ci sono, restano, mancano dai disegni.

“Il messaggio – conclude il docente – è di andare oltre l’aspetto fisico che si coglie con lo sguardo, ma entrare nell’anima delle persone. Ragazze e ragazzi hanno lavorato con entusiasmo e passione, soddisfatti infine del risultato che non si aspettavano. Il cubo, composto di una serie di scatoloni di 80×80 centimetri, è stato esposto nell’atrio, di sbieco, per dare il senso che ruoti. L’installazione sarà vista e vissuta ogni giorno, rilanciando il messaggio di inclusività”.

Ed ecco come, a partire da un progetto specifico che nasce per occuparsi dell’ambito sportivo, lo sguardo si allarga e fa scaturire nuovi ragionamenti sull’inclusione e il contrasto a ogni discriminazione.

“Non finisce lì”. Dopo le partite, le sfide proseguono sui social

È arrivato dalla Costa d’Avorio quando aveva 19 anni, scappando dalla guerra. Ora Abdul Ouatara affianca la società di calcio Alba Borgo Roma, a Verona, nell’allenamento dei ragazzini adolescenti, insegnando loro non solo il rispetto delle regole tecniche dello sport, ma anche quello tra compagni di squadra e verso gli avversari.
“Sono arrivato in Italia sei anni fa e all’inizio vivevo a Padova, dove giocavo a calcio”, racconta. “Da tre anni sono con l’Alba come assistente allenatore. Il cellulare durante gli allenamenti si spegne, ma fuori è un’altra storia”.

di Progettomondo

Abdul allena insieme a Massimo Giarola, responsabile del settore giovanile. La percezione dei due, rispetto alle dinamiche tra avversari, è che spesso “non finisce lì”. Dopo le partite prendono talvolta il sopravvento messaggi pieni di disprezzo e intolleranza, ingiustificabili. Sempre. E ancor più quando la sfida è tra adolescenti di squadre rionali, di quartiere.

“Quando mi è capitato di essere insultato giocando ho sempre reagito cercando di dimostrare la mia bravura con il pallone”, fa presente Abdul. “Oggi però i giovani sono condizionati dai social, che li rendono ancora più consapevoli di quali siano i lati fragili da colpire in maniera voluta, tagliente, puntando direttamente a ferire la persona insultata. La connotazione razziale è il tasto più facile su cui ‘premere’, andando a cercare una differenza su cui si può fare leva per offendere e fare male, indugiando sul colore della pelle o su accento percepito come straniero”.

Abdul Ouatara e Massimo Giarola

L’invidia e la competizione Abdul e Massimo la vedono spesso, non solo tra i ragazzini, anzi, soprattutto tra gli adulti, i genitori e i parenti che li seguono.

“Percepiamo una sorta di codice occulto, per cui un ragazzo italiano, secondo la sua famiglia, dovrebbe avere più ‘diritti’ dei coetanei che hanno origini straniere”, dicono. “Ci sono elementi subdoli, battute, che fanno percepire un pensiero discriminante, non positivo, che talvolta viene poi replicato dai figli. A un bambino o ragazzino italiano ogni gesto sopra le righe viene giustificato come una ‘monellata’. Nei confronti di chi ha un background migratorio, invece, parte il processo alla cultura diversa, all’incapacità di adeguarsi al contesto, come se ogni atteggiamento infantile o adolescenziale dovesse fare i conti con il Paese di provenienza”.

Il contesto in cui si trova l’Alba è tra quelli a più alto tasso di migranti a Verona. La multiculturalità è viva, vivace. Ma nell’estremo sud della città, dove si trova appunto il quartiere Borgo Roma, l’integrazione non è ancora così scontata. “La mancanza di accettazione di chi è considerato ‘diverso’ la si vede già nei bambini, ma le problematiche sorgono solitamente verso i 13 o i 14 anni. Non sempre gli insulti e le provocazioni sono a sfondo razziale, a volte sono frutto di un approccio semplicemente scorretto verso la pratica sportiva”, fa notare Giarola.

“Abbiamo vissuto l’episodio di un nostro giocatore minacciato a seguito di un partita persa dalla squadra avversaria. Lo abbiamo visto cupo e preoccupato e ci hai poi confidato di avere ricevuto messaggi intimidatori e minacce su Instagram, per il solo fatto che aveva portato a casa la vittoria”.

“Capisco che nell’eccitazione di una partita possa scappare qualche parolaccia, qualche parola urlata con una certa enfasi”, aggiunge Abdul. “Ma i ragazzini emulano i comportamenti e il linguaggio dei grandi e talvolta il contesto dilettantistico porta a vivere situazioni persino peggiori di quelle che si vedono negli stadi, sia verso gli arbitri, che nei confronti degli avversari in campo. E i giocatori, per quanto minorenni, rispondono alle provocazioni se non sono allenati a non farlo”.

I Maratonabili

Tanti cuori e una spinta, per correre insieme verso il traguardo

Correre e sentire il vento sul viso. Consumare chilometri di asfalto, con il caldo del sole o l’odore della pioggia. E poi i colori, i sorrisi, la fatica allegra, le urla di gioia, gli abbracci. Il traguardo. E non importa se non lo si fa con le proprie gambe, perché la corsa, la maratona – lo sport solitario per eccellenza, dove il corpo deve vedersela prima di tutto con la testa – può trasformarsi in un’esperienza collettiva. Un’esperienza di solidarietà e di inclusione, che diventa accessibile anche a chi non ha la possibilità di correre in autonomia. Ed è possibile grazie ai Maratonabili, una realtà nata da un’idea semplice, ma al tempo stesso geniale. Chi corre con le proprie gambe può essere anche la spinta per chi non ha la possibilità di farlo in autonomia.

Di Ilaria Leccardi

I Maratonabili non si muovono mai in silenzio. Ma lo fanno accompagnandosi da cori, canti, parrucche colorate, con l’urlo di battaglia “Uacca uacca” e quell’allegra fatica che solo lo sport ti permette di vivere. La Onlus nasce nel 2009, grazie a Franco Zomer, osteopata e ultramaratoneta toscano, che assieme a un gruppo di amici si lasciò ispirare dalle imprese di Dick e Rick Hoyt, padre e figlio statunitensi che hanno completato in coppia oltre mille competizioni sportive tra maratone, gare di triathlon e duathlon. Rick era disabile a causa di una paralisi cerebrale infantile e Dick – che prima di iniziare quest’avventura non aveva mai corso in vita sua e ora ha più di 80 anni – lo ha spinto sulla sedia a rotelle durante le gare di corsa o trasportato su una bicicletta o un canotto speciali durante le altre prove. E insieme sono diventati un’icona dello sport statunitense.

Carlotta Agosta è torinese. Ama correre e ha un bimbo, Leo, conosciuto anche come “Sorriso contagioso”. Fa parte dei Maratonabili ormai da cinque anni e nelle sue parole c’è molto delle motivazioni che l’hanno spinta a unirsi a questa realtà.

“Amavo correre e li ho conosciuti durante una mezza maratona. Vedevo un gruppo di ragazzi, molto rumorosi e colorati e ho scoperto così di cosa si trattava. Ho iniziato a partecipare alle iniziative del gruppo invitata da un amico, prima spingendo altri ragazzi, in primis il mio amico Fabietto, ora con l’obiettivo – appena si potrà – di spingere anche il mio piccolo Leo. Avrebbe dovuto debuttare come Maratonabile nel 2020 in una gara a marzo, ma purtroppo a causa dell’emergenza sanitaria abbiamo dovuto rimandare. Speriamo che il 2021 sia più clemente da questo punto di vista”.

Ma cosa vuol dire correre spingendo un’altra persona sulla sedia a rotelle? E farlo per 42 km? Perché i Maratonibili nascono proprio per affrontare la maratona, anche se poi nel calendario annuale prendendo parte anche a competizioni più brevi. Prima di tutto bisogna avere gli strumenti giusti: delle sedie speciali che possono arrivare a costare fino a 4.000 euro, del cui acquisto di occupa l’Associazione. Sono ammortizzate e ottimizzate per la corsa, da una parte per essere il più possibile confortevoli per chi le utilizza, dall’altra per rendere più agevole il compito di chi invece deve spingere. Poi vuol dire correre in team, collaborando e stando sempre vicini. Un team composto dalla persona in sedia a rotelle, da una “maglia nera” – runner esperto, con tanti chilometri nelle gambe – a cui viene affidato il ragazzo e che deve iniziare la corsa ma soprattutto tagliare il traguardo spingendo la carrozzina, e almeno due “maglie bianche”, sempre runner dell’Associazione che proteggono la persona trasportata e danno il cambio alla maglia nera nella spinta durante la gara. 

“Non è semplice correre spingendo un’altra persona, anche perché – spiega Carlotta – la corsa è un movimento che coinvolge molto le braccia. E qui invece le mani e la braccia sono salde per la spinta. Ma la forza viene da dentro. E vi assicuro che non facciamo passeggiate, le nostre performance toccano circa i 6 minuti al km! Siamo persone che vivono in diverse zone d’Italia. Ovviamente in Toscana, dove l’esperienza è nata, il gruppo è molto forte, ma anche in Piemonte e in Nord Italia siamo già tanti e tante. Ognuno con la sua storia di corsa e di asfalto consumato sotto le suole. Io personalmente mi alleno alla NeXt di Torino, grazie a cui ho preparato la mia prima maratona, proprio nella mia città. Un’impresa affrontata quella volta in solitaria e dedicata a Leo.

Carlotta Agosta con il marito e il figlio Leo

La NeXt, realtà sportiva torinese di running, ha creato un vero e proprio connubio con i Maratonabili e per inizio marzo 2021 ha organizzato un evento benefico a loro favore, la 4X Virtual Marathon, una maratona virtuale a cui potranno partecipare squadre miste da 4 persone in cui ciascuno dovrà correre in autonomia, tra il 5 e il 7 marzo, una tappa da 10,5 km.

“Io sono una delle poche mamme che corre con il proprio figlio, anche se Leo deve ancora debuttare in una gara ufficiale”.

Generalmente le famiglie affidano i propri figli ai runner che li conducono per tanti chilometri di corsa. Questo significa grande fiducia, anche perché alcuni dei ragazzi hanno disabilità complesse, ma soprattutto significa consapevolezza che il proprio figlio o la propria figlia potranno vivere un’esperienza indimenticabile. 

“Una delle prime protagoniste in sedia a rotelle delle corse con i Maratonabili – continua Carlotta – è stata Margherita Mugnai, tra le fondatrici dell’Associazione. Proprio a Torino alla fine di una gara fu lei a darmi la forza di arrivare al traguardo; anche se le gambe che correvano sull’asfalto erano le mie, era Margherita a spingermi in realtà. Come scrive nel libro che racconta la sua storia, Io sono ancora qua: “Mi sento tremare le gambe come se la fatica l’avessi fatta io”.

Ma nel 2020, in cui tutto si è fermato, non è stato semplice. “Chi fa parte di questa Associazione, sia i runner che i ragazzi e le loro famiglie, è unito da un grande affetto. Siamo una vera squadra. Abbiamo cercato di condurre comunque attività a distanza, coinvolgendo i ragazzi. E quindi abbiamo inventato dei giochi, delle situazioni a cui potessero partecipare mantenendo il legame che la corsa ha creato e rafforzato. Anche perché – inutile nasconderlo – chi ha un figlio con una disabilità ha sentito molto la difficoltà della chiusura dovuta al lockdown”.

Dalla corsa sono nate tante altre opportunità, il confronto, il fatto di sentirsi meno soli con i propri problemi quotidiani.

Ci sono dei requisiti per unirsi ai Maratonabili? “Per chi vuole diventare un cosiddetto spingitore, bisogna ovviamente avere una passione per la corsa. Per diventare maglia nera – spiega ancora Carlotta – devi essere un runner esperto, nelle nostre fila ci sono diversi ultramaratoneti. Per la maglia bianca basta avere un po’ di voglia di faticare e di farsi coinvolgere in questo percorso”. La motivazione più grande? “Il sorriso dei ragazzi durante le gare, la loro felicità al traguardo. Sono impagabili”.   

Riforma dello Sport: i seminari CSEN

La Riforma dello Sport a partire dalla base e dalle persone


Un ciclo di sei incontri sulla Riforma dello Sport avanzata dal governo. È quanto propone lo CSEN (Centro Sportivo Educativo Nazionale) – all’interno del progetto Odiare non è uno sport – per approfondire il tema dal punto di vista delle persone che ogni giorno lavorano nei luoghi dello sport. Mentre il dibattito mainstream si è per lo più concentrato in questi mesi su temi di “vertice”, come il limite ai mandati dei presidenti federali, il contributo dello CSEN vuol andare nella direzione di tornare al valore sociale dello sport, a partire dalla base. 

Il ciclo di incontri, dal titolo “La riforma dello sport. Il punto di vista di chi vive lo sport centrato sulle persone, a favore dell’integrazione sociale, per conoscere e contrastare l’hate speech” (al fondo dell’articolo il calendario completo), parte lunedì 28 settembre a Perugia, toccando altre cinque città: Verona, Torino, Catania, Roma e Udine. Gli incontri saranno trasmessi sulla pagina Facebook di Odiare non è uno sport. A seguito dell’aggravarsi dell’emergenza sanitaria, a partire dal secondo incontro sono stati integralmente spostati su piattaforma online, a distanza.

Lo CSEN, spiega Andrea Bruni, Responsabile Ufficio Progetti Nazionale dell’Ente di promozione sportiva, “concepisce lo sport come attività volta a favorire il benessere delle persone e quindi vede in esso prima di tutto un intento e una finalità sociale. A differenza delle Federazioni, che curano maggiormente le eccellenze sportive. Nel contesto della Riforma dello Sport, la discussione per ora si è molto concentrata su cosa cambierà per i vertici e per i dirigenti, ma ha lasciato in sospeso le altre problematiche. Per esempio non si è parlato di chi fa dell’attività sportiva il suo lavoro, che non ha un contratto nazionale di riferimento. Oppure dell’approccio educativo che lo sport deve avere con i minori”.

Negli incontri però si affronteranno anche i temi dell’integrazione sociale, della lotta alle discriminazioni e dello sport integrato, ossia “dell’attività sportiva che mette insieme persone con disabilità e persone non disabili, con regolamenti nuovi. Un tema interessante – prosegue Bruni – perché aggancia le problematiche legate al ruolo che ogni sportivo può avere nel contesto di origine e il contributo che ciascuno può dare a livello individuale su obiettivi collettivi, se messo nella miglior condizione per esprimersi”. 

Di seguito l’elenco dettagliato degli appuntamenti:

PERUGIA lunedì 28 settembre 2020 / ore 17.30
Sala Trinci – Centro Congressi Capitini – Via Centova 4 

PIEMONTE venerdì 6 novembre 2020 /ore 9.30 – diretta FB 
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Gianluca Carcangiu – Presidente Regionale CSEN Piemonte  
Ilaria Zomer – Formatrice presso il Centro Studi Sereno Regis
Ivana Nikolic – Ballerina professionista, attivista – artista ed educatrice 
Barbara Costamagna –  Psicologa e Psicoterapeuta 

ROMA venerdì 13 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti 
Henrika Zecchetti – Presidente Comitato Provinciale CSEN Roma 
Elisa Nucci – Responsabile Progetti COMI – Cooperazione per il mondo in via di sviluppo
Antonella Passani – sociologa e membro di IntegrArte
Leonina Benigni – educatrice Professionale 

FRIULI VENEZIA GIULIA sabato 14 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB 
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Giuliano Clinori – Presidente Regionale CSEN Friuli e Vice Presidente Nazionale CSEN 
Sara Fornasir – Responsabile del Progetto Odiare non è uno Sport –  Referente CVCS 
Eva Campi – Referente Parole Ostili 

VENETO sabato 21 novembre 2020 / ore 10.00 – diretta FB 
con Giacinto Corvaglia – Comitato Provinciale CSEN Verona
Marina Lovato – Formatrice Ufficio Educazione e Cittadinanza Attiva – ProgettoMondo Mlal
Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Stefano Pratesi – Formatore esperto in gestione dei conflitti e diritti umani 
Paola Caruso – Referente Regionale Calabria CSEN Sport Integrato

SICILIA – data da definire

Tommaso Stella e l’impegno con Mediterranea

In barca a vela si abbatte ogni privilegio

“La barca a vela è un laboratorio straordinario, in cui tutti sono chiamati a cooperare e a fare la propria parte. Dove le risorse sono limitate e bisogna utilizzarle con consapevolezza, dove il comportamento di ciascuno ricade sul benessere di tutti. Dove non ci sono privilegi e nessuno è lasciato indietro. E se si trova una persona in mare, l’obbligo è salvarla”. Tommaso Stella conosce il mare e le sue leggi. Velista di lungo corso, tante avventure al fianco di Giovanni Soldini, lo scorso anno si è unito a Mediterranea, diventando il comandante della nave Alex. Era lui il responsabile del veliero quando questo venne sequestrato nel luglio 2019 dopo il salvataggio di 59 persone dalle acque del Mare Nostrum. La sua storia racconta come una competenza sportiva, quella così particolare del velista, possa mettersi al servizio di una causa più grande. Una competenza accompagnata dalla consapevolezza di non potersi girare dall’altra parte quando si parla di vita e diritti umani.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dal tuo rapporto con il mare. Nasci in città, come e quando prende vita l’amore per la vela?

Sono di Milano e qui il mare non c’è. Quando ero piccolo mio padre aveva fatto alcuni esperimenti. Modellini a parte, aveva armato un canotto con attrezzatura di legno e vele ricavate da vecchie lenzuola, da provare all’Idroscalo. Quei modellini e quella specie di zattera sono stati i miei primi contatti con qualcosa di simile a una barca. Qualche anno dopo, alle scuole medie, mia madre veniva spesso convocata dal preside perché – dicevano – ero un ragazzino turbolento. E proprio il preside era istruttore in una scuola di vela che proponeva attività nelle case di vacanza estive del comune di Milano. Suggerì a mia madre di spedirmi da loro in estate perché “mi avrebbe fatto bene…”. È iniziata così, all’età di 11 anni, e non ho ancora smesso.

Che mondo è quello della vela?

Purtroppo in Italia è una passione costosa, la barca è uno status symbol. In altri posti, come in Francia, no. Lì i ragazzi fin dalle scuole primarie hanno molte occasioni per praticare questo sport senza che i genitori siano benestanti o ipotechino la casa. Per continuare la mia passione, durante le vacanze ho iniziato a fare l’aiuto istruttore e poi l’istruttore nella mia prima scuola, Utopia.

E poi cosa è successo?

Dopo quasi nove anni di attività il rischio sarebbe stato “sentirsi bravo”, ma anche sedersi. Quindi, dopo dieci mesi di servizio civile, ho indossato nuovamente le vesti dell’allievo e mi sono imbarcato per la prima traversata oceanica, alla scoperta di altre barche, altri mari, altri luoghi e altre genti. Sono partito nell’ottobre 1997 dal Mediterraneo diretto alle Antille via Canarie, per sbarcare nell’aprile 1998 a Barcellona. Avevo capito che quella vita mi piaceva, che avevo tanto da imparare e tantissimo da scoprire.

E presto è arrivato un incontro importante.

Pochi mesi dopo ho conosciuto Giovanni Soldini, reduce dal suo vittorioso giro del mondo, nonché dal salvataggio nei mari del sud di una concorrente, Isabelle Autissier. Giovanni stava per lanciare la costruzione di una nuova barca, un trimarano, una “astronave” di 18 metri in grado di navigare più veloce del vento. Serviva gente. A livello umano ci siamo trovati subito e, anche se non avevo esperienza di cantiere, mi ha tirato in mezzo: “Quando c’è feeling, tutto il resto si impara… il contrario è più difficile!”. Gli anni tra il 2000 e il 2005 sono stati intensi, non li scorderò mai. Eravamo un gruppo di cinque persone che si occupavano di tutto: manutenzioni e modifiche alla barca, trasferimenti e regate in equipaggio.

Cosa ti ha trasmesso Soldini?

È stato un punto di riferimento, lo considero il più forte navigatore solitario italiano di sempre. Da lui non ho imparato solo dal punto di vista tecnico, ma mi è rimasta la straordinaria abilità di superare ostacoli e imprevisti, a terra come in mare, senza perdersi d’animo. E poi la capacità di sdrammatizzare con una risata le situazioni più difficili, spiazzando anche la paura. In mare con lui si sta davvero bene.

E lui di situazioni drammatiche ne ha vissute…

Sì, soprattutto nel 2005, durante la Rotta del Caffè, una regata in doppio da Le Havre (Francia) a Salvador de Bahia, che correva con l’amico di sempre Vittorio Malingri. Il trimarano si ribaltò al largo del Senegal, i due furono salvati da una petroliera diretta a Houston che non poteva entrare in porto per le sue dimensioni e, a decine di miglia dalla costa, venne svuotata da tanker più piccoli. Ma i due naufraghi, pur avendo in tasca carte di credito, passaporti e visti per gli Usa, ci misero giorni per convincere uno dei comandanti dei tanker a portarli sulla terraferma: nessuno voleva assumersi la responsabilità di farli sbarcare. Già allora, nonostante il passaporto “giusto” (quello dei ricchi occidentali), il diritto del mare, per cui chi è in pericolo va aiutato, veniva messo in discussione.

Anche tu hai vissuto situazioni difficili?

L’unica volta in cui ho davvero rischiato la pelle è stato paradossalmente a pochi metri da una spiaggia dell’Elba, quando mi sono rovesciato con un amico mentre navigavamo su una deriva e sono rimasto incastrato sotto lo scafo.

Torniamo al mare aperto. Può fare paura, soprattutto se non lo conosci. Cosa vuol dire passarci una notte?

È un ambiente ostile per gli umani. Per sopravvivere in mare abbiamo bisogno di un mezzo che ci ospiti e protegga. Se ci troviamo su una barca affidabile, sappiamo utilizzarla, la situazione meteorologica è buona e conosciamo la nostra posizione, siamo più al sicuro di quando siamo al volante di un auto. Con questi presupposti una notte in navigazione può essere magica: lontani da terra, sconnessi, senza le luci e rumori della cosiddetta civiltà, respiriamo aria pulita, ci muoviamo spinti dal vento sotto un cielo stellato. Ma non siamo nemmeno animali notturni. Risolvere un problema al buio è più difficile, per questo la notte, in mare, se viene a mancare uno dei punti elencati sopra, può fare paura. La paura è negativa? No, ci fa alzare le antenne e ci permette di reagire di fronte a una situazione di potenziale o reale pericolo.

La paura può diventare anche un elemento che, invece di paralizzare, spinge a muoversi…

Faccio l’esempio delle persone che scappano dalla Libia. Si trovano in una situazione che terrorizzerebbe chiunque: non sanno fino all’ultimo quando potranno partire, non sanno che tempo farà, la maggior parte di loro non ha mai visto il mare, quasi nessuno sa nuotare, non hanno la minima esperienza di navigazione, non conoscono il gommone o la barca su cui saliranno (spesso in pessimo stato e sovraccarichi), non sanno dove andranno, non sanno quanto durerà il viaggio. Solo i primi coraggiosi navigatori della storia si sono trovati in condizioni simili… Ma loro vengono anche da situazioni terribili che lasciano pesanti segni psicologici e fisici. Eppure su quei gommoni ci salgono, perché il terrore che si portano alle spalle è ancora peggiore.

Coloro che intraprendono questi viaggi assurdi, durissimi e pericolosi che a volte durano anni, credo siano tra le più coraggiose e forti che abbia mai conosciuto.

Veniamo appunto al tuo impegno con Mediterranea. Avevi già avuto modo di dedicarti al sociale, com’è nato il contatto?

Sono sempre stato sensibile a certi temi. In passato avevo già unito l’interesse per il sociale alla vela, partecipando alla campagna di Goletta verde, oppure portando persone non vedenti o ragazzi di case famiglie in barca. Negli ultimi anni ho guardato con orrore a quello che succedeva nel Mediterraneo centrale. Quando nell’agosto 2018 l’Italia e i governi europei hanno bloccato le navi umanitarie, rendendo il mare davanti alla Libia un deserto senza testimoni oltre che a un cimitero, un gruppo eterogeneo di persone ha deciso che non poteva più stare a guardare. Un amico mi ha chiesto se ero interessato al progetto e ho subito detto sì. Inizialmente, la risposta dei fondatori è stato il classico: “Le faremo sapere”. La nave operativa è un rimorchiatore e io non ho i titoli per comandarla. Poi però si è capito che serviva anche una barca appoggio in grado di ospitare una parte dell’equipaggio operativo, una barca a vela, e quindi mi hanno ricontattato.

Quella barca era la Alex, su cui hai condotto alcune missioni, fino a quella che, a luglio 2019, ti ha permesso di salvare tante persone, ma ti è anche costata un’indagine della magistratura.

Era la mia terza missione come comandante della Alex, con un equipaggio fantastico. La Mare Jonio era sequestrata da mesi e abbiamo deciso di uscire con la Alex per una missione di monitoraggio e denuncia, consci che con una barca a vela non saremmo stati in grado di fare salvataggi. L’idea era che, se ci fossimo imbattuti in un’imbarcazione in difficoltà, avremmo stabilizzato la situazione con salvagenti e zattere e chiamato soccorso, per far intervenire la guardia costiera italiana. Ma quando è davvero successo, le autorità italiane ci hanno risposto che avevano già avvertito la cosiddetta guardia costiera libica, che sappiamo essere collusa con i trafficanti di esseri umani.

Oltre al pericolo concreto di un naufragio da un momento all’altro, ci trovavamo di fronte alla possibilità che quelle persone venissero riportate in Libia. Non potevamo abbandonare quei 59 esseri umani, né al rischio di annegare né che finissero in mano ai miliziani e così li abbiamo imbarcate tutti.

Dopo essere stati inseguiti e raggiunti dai libici, che fortunatamente ci hanno lasciato andare, e con le autorità italiane che hanno cercato di metterci in difficoltà, abbiamo fatto l’unica cosa possibile: ci siamo diretti verso il porto sicuro più vicino, Lampedusa.

E lì siete stati bloccati…

Arrivati a 12 miglia dall’isola, le motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza ci hanno notificato il decreto sicurezza impedendoci l’ingresso nelle acque territoriali. Siamo stati in vista di Lampedusa per due giorni caldissimi, faticosi e inutili, facendo di tutto per sbloccare diplomaticamente la situazione fino a che, dopo aver finito l’acqua, abbiamo deciso di forzare il blocco e siamo entrati in porto. Una volta ormeggiati non è finita: per tutto il pomeriggio e fino a tarda notte siamo stati sequestrati in barca, nessuno poteva scendere né salire. La situazione si è sbloccata quando la procura di Agrigento ha sequestrato la Alex: i naufraghi sono potuti scendere, cambiarsi i vestiti bagnati e sporchi di benzina, e ricevere le prime cure. Io sono stato indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza a nave da guerra, con pene previste fino a 15 anni. Dopodiché mi hanno sospeso la patente nautica per sei mesi. Tutto questo per aver salvato 59 esseri umani dal probabile annegamento e per non aver permesso che tornassero nei lager libici.

Quali sono stati i tuoi timori in quella situazione?

Primo di non riuscire a salvare tutte quelle persone. Se fossero arrivati i libici durante il trasbordo dei naufraghi poteva verificarsi un disastro: chi scappa dalla Libia è così terrorizzato dall’idea di essere riportato in quell’inferno che preferisce buttarsi in acqua. E poi a Lampedusa, quando ho capito che eravamo tutti in salvo, mi sono preoccupato per ciò che mi aspettava personalmente. Il governo continuava nella linea di criminalizzazione del soccorso in mare e io, in quanto comandante, ero il bersaglio più esposto. Ma mai, nemmeno per un momento, ho dubitato delle mie decisioni né della convinzione di essere dalla parte giusta, moralmente e legalmente.

La convivenza di tante persone su una nave come la Alex non dev’essere stata semplice.

Considerando il sovraffollamento, è comunque andata bene: equipaggio e naufraghi hanno collaborato nonostante le difficoltà di condividere uno spazio insufficiente. Ognuno ha fatto la sua parte con incredibile armonia.

C’è molto di surreale in tutta questa situazione.

Sì, ricordo soprattutto i marinai sulle motovedette preposte a impedire il nostro ingresso nelle acque territoriali che erano evidentemente imbarazzati nell’eseguire quegli ordini assurdi: “Anche noi salviamo” ci ripetevano, “Non siamo noi i cattivi”, qualcuno si è commosso quando ha guardato negli occhi i nostri “passeggeri”. È surreale che in pochi mesi si sia passati da Mare Nostrum che ha salvato 150.000 persone in un anno tra il 2013 e il 2014, dagli anni in cui Guardia Costiera e navi umanitarie cooperavano per un obiettivo comune, a un situazione in cui gli esseri umani sono considerati rifiuti tossici indesiderati in nome di una propaganda e di una politica tanto disumana quanto miope. È assurdo che ci siano ormai solo volontari e navi umanitarie a provare ad arginare una situazione così grave.

E la situazione non sembra migliorare negli ultimi mesi.

Da Grecia e Turchia arrivano notizie che ricordano tempi che non avremmo mai voluto rivivere: la Turchia usa i profughi come bomba umana in un infame ricatto con l’Europa. Forze armate greche ed europee che, invece di aiutare i profughi in fuga dalla Turchia, cercano di affondare i gommoni, sparano, bastonano, respingono… Migliaia di persone, bambini donne e uomini, che non vuole più nessuno e che non hanno più un posto dove andare: respinti dall’Europa, buttati fuori dalla Turchia… Non possono nemmeno tornare sotto le bombe in Siria.

Cosa può insegnare uno sport come la vela, che ti ha dato competenze che poi hai rimesso in gioco per il motivo più nobile, salvare vite umane?

La barca a vela è un laboratorio unico. I componenti dell’equipaggio devono convivere in pochi metri quadrati rispettando lo spazio altrui. Tutti sono chiamati a cooperare nei diversi compiti che vanno dalla conduzione della barca, alla cucina, fino alle manutenzioni quotidiane. Molte manovre richiedono l’intervento di tutti: se qualcuno non facesse la sua parte non si andrebbe lontano.

A bordo bisogna prestare attenzione all’uso delle risorse. Tutto dev’essere razionale e sostenibile. Se qualcuno pretendesse di non partecipare ai turni, di farsi dieci docce al giorno e di mangiare più degli altri, sarebbe ripreso dalla “comunità” per il suo comportamento che avrebbe immediate conseguenze per il benessere e la sicurezza di tutti: in mare non c’è spazio per i privilegi. E poi, è la natura ad avere l’ultima parola: è con lei, indifferente, che dobbiamo confrontarci per cercare di prendere le decisioni giuste e, quando sbagli, il conto te lo presenta subito.

Riflessioni che ben si sposano al periodo storico che stiamo affrontando.

È un po’ quel che diceva Luca Parmitano, il comandante della Stazione Spaziale Internazionale. Perché cos’altro è la Terra se non una grande nave dalle risorse limitate, in viaggio per la nostra galassia alla straordinaria velocità di 792.000km/h, che ospita un equipaggio umano di 7.000.000.000 di persone? Una grande nave in cui qualcuno non sta facendo la sua parte, in cui una minoranza rivendica il “diritto” di mangiare più degli altri e dove troppi consumano e sprecano a livelli non sostenibili le risorse disponibili. Una nave che sta lanciando segnali chiari a un equipaggio che ancora non li prende seriamente.

Parmitano aggiunge che vista da lassù, questa sfera azzurra che non ha traccia di confini, la nostra casa comune, è uno spettacolo straordinario.

Proprio in queste settimane siamo nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Una situazione che ci dimostra che i confini non esistono. Per il virus siamo tutti uguali e dovremmo approfittare di questa situazione per inventarci un nuovo modo di stare insieme. Dobbiamo tutti capire che, come in una barca nella burrasca, su questa Terra ci si salva o si affonda tutti insieme.