Video intervista al volto più noto del volley italiano
Un metro e 89 centimetri di tecnica e potenza. Un’elevazione che la porta a volare a quasi tre metri e mezzo. Le sue schiacciate sono bolidi che lasciano poche speranze a chi si trova dall’altra parte della rete. Paola Egonu ha 21 anni e ormai da qualche stagione è il volto più noto della Nazionale italiana di volley e icona della pallavolo mondiale. Schiacciatrice e opposto, più volte nei tornei e campionati internazionali disputati nelle ultime stagioni si è trovata insignita del riconoscimento di MVP (Most Valuable Player).
Paola è nata a Cittadella, in provincia di Padova, nel 1998, da genitori nigeriani che proprio in Veneto si sono conosciuti. Afroitaliana. È questo il termine con cui meglio si definisce. Nata e cresciuta in Italia ma consapevole della sua storia a cui è molto legata, così come alla sua famiglia di origine che di frequente va a trovare in Nigeria. È uno dei volti che rappresenta l’Italia di oggi, che sa raccontarsi, prendendo parola e scardinando i pregiudizi, come quando – al termine dei Mondiali 2018 – con tutta naturalezza disse di avere una fidanzata e la stampa utilizzò quelle poche parole e la foto di un bacio per ricamarci titoli e scrivere fiumi di articoli.
La pallavolo l’ha conosciuta quando aveva 12 anni. Prima come semplice hobby, poi ha iniziato a divertirsi davvero e ha capito che poteva essere lo sport adatto a lei. E presto lo notano anche gli allenatori. Tant’è che dal 2013 entra a far parte del Club Italia, la società che fa capo alla Federazione, fondata per volere di Julio Velasco nel 1998, con l’obiettivo di formare giovani atlete italiane provenienti dai vivai, facendo così fare loro esperienza ad alto livello anche in termini di campionati.
Ed è proprio tra le fila del Club Italia che Paola Egonu ottiene i suoi primi successi, partendo dalla serie B1 e arrivando fino all’A1. Celebre resterà una partita del campionato 2016-2017 in cui riuscì a realizzare ben 46 punti, il record di sempre in un match femminile nella serie maggiore. Una scalata inarrestabile che l’ha portata sul tetto del mondo.
Ingaggiata dall’AGIL Volley Novaranel 2017, vi gioca due stagioni, durante le quali vince di tutto: la SuperCoppa Italiana nel 2017, due Coppa Italia (nelle stagioni 2017-2018 e 2018-2019) e nel 2019 la CEV Champions League, dove risulta anche MVP. Nella scorsa stagione torna in Veneto, ingaggiata dall’Imoco di Conegliano, con cui si distingue subito vincendo la SuperCoppa Italiana e il Mondiale per Club in cui, neanche a dirlo, è MVP. E poi la Coppa Italia 2019-2020, poco prima della chiusura delle attività per lockdown a causa dell’emergenza coronavirus.
Straordinaria è anche la sua attività in Nazionale azzurra, fin dalle giovanili. Nel 2015 è campionessa mondiale sia con l’Under-18 che con l’Under-20. Nel 2017 è argento al World Grand Prix. Mentre nel 2018, ai Campionati del Mondo che si disputano in Giappone, conduce con le sue schiacciate l’Italia alla finale, dove però ha la meglio la Serbia. L’Italia si deve “accontentare” dell’argento. Nel 2019 è bronzo Europeo, in una Nazionale azzurra dove quasi la metà delle giocatrici ha origini straniere, per lo più seconde generazioni.
Con Paola Egonu abbiamo parlato degli aspetti che riguardano la nostra campagna. La diffusione dell’hate speech anche in ambito sportivo e come lei ha affrontato episodi spiacevoli che l’hanno riguardata. La ricchezza della nuova Italia che anche nello sport sta vivendo una sempre maggiore condivisione di culture e diversità. L’importanza per una campionessa come lei di portare avanti un messaggio di integrazione. E infine il suo legame con la Nigeria, cosa significhi essere afroitaliana oggi.
Nello sport come nella vita, la squadra è l’elemento fondamentale
“Per affrontare il presente che stiamo vivendo, l’emergenza sanitaria, dobbiamo essere capaci di immaginare nuove forme di condivisione, nuove modi per stare insieme. Non bastano discorsi generici, il telefonino, i social. Servono proposte concrete, anche per i più giovani, quegli adolescenti che si trovano confinati in casa in un momento della loro vita in cui avrebbero bisogno di spazi propri”. Julio Velasco è un uomo di grande esperienza. Una vita passata sui campi della pallavolo, dall’Argentina all’Italia, passando per l’Iran, la Repubblica Ceca, la Spagna, e altri angoli di mondo. Una vita ad allenare e coordinare gruppi, facendo dell’attenzione alla dimensione psicologica, sul campo e fuori, una delle chiavi della propria conduzione. Ha guidato l’Italia della “generazione dei fenomeni”, portandola ai vertici del mondo, ma è soprattutto stato – e ancora continua a essere – una guida per i giocatori e i tecnici, non solo nel suo sport. Dallo scorso anno, chiusa la carriera di allenatore, è stato nominato direttore tecnico del settore giovanile della FIPAV, la Federazione Italiana Pallavolo. E ora, a causa dell’emergenza coronavirus, si trova – come tutto la staff della Nazionale, come il mondo intero – ad affrontare una situazione senza precedenti che ha portato addirittura al rinvio dei Giochi Olimpici di Tokyo.
Velasco, questa situazione ha portato uno shock al mondo sportivo?
Credo che lo shock vero fino ad ora sia stato un altro, quello legato ai morti, alla malattia che ha colpito tante persone con sintomi terribili, ai rischi con cui tutti abbiamo dovuto confrontarci. Un trauma talmente forte che ha tenuto lo shock sociale in secondo piano. Ma adesso stiamo entrando nella fase in cui rimane la paura e inizia a farsi sentire il peso per la chiusura e l’isolamento. Il rischio è che si molli e non dobbiamo farlo. È nel momento critico che si vede chi sa “giocare” davvero. Se dovessi paragonare questa situazione a una prova sportiva penserei più a una maratona o a una gara di triathlon che non a una partita di pallavolo…
Lo stare chiusi in casa come prova di resistenza.
Io personalmente mi considero un privilegiato, vivo in campagna, ho una casa con il giardino, non mi manca nulla. Ma non sopporto chi fa dei ragionamenti generali senza mettersi nei panni degli altri. È facile dire che questa può essere una situazione comunque positiva, perché abbiamo tempo di fare tante cose, leggere, coltivare le nostre passioni… Sappiamo benissimo che ci sono famiglie che vivono in appartamenti piccoli, non hanno il computer, con bambini che devono seguire le lezioni a distanza ma non hanno gli strumenti adeguati. Oppure famiglie dove il marito è operaio, abituato a lavorare tante ore fuori casa, e che ora la moglie si ritrova tutto il giorno tra i piedi, tra quattro mura e due stanze. La convivenza può diventare difficile e non abbiamo tutti le stesse condizioni. Dobbiamo esserne consapevoli quando parliamo di ciò che stiamo vivendo.
Secondo lei sono passati dei messaggi troppo ottimistici?
Io ho una nipotina di cinque anni e una di tre. Loro hanno disegnato l’arcobaleno con la frase “Andrà tutto bene” e lo hanno appeso ai balconi. Penso che sia un’ottima iniziativa per bambini di quell’età. Ma a quelli un po’ più grandi – e soprattutto a noi stessi – il messaggio dovrebbe essere diverso: “Andrà tutto bene, o forse no… Andrà tutto bene, solo se saremo noi a farla andare bene”. Pensiamo che il primo giugno potremo davvero uscire e che sarà tutto finito? No, dovremo preparare i giovani, e io parlo anche dei giovani sportivi, al fatto che vivremo ancora momenti molto difficili, in cui l’aggregazione sarà progressiva, non immediata. Non sapremo quando e come effettivamente si potrà tornare ad allenarsi secondo le modalità che conosciamo. Come in ogni situazione della vita, anche da questa usciremo, ma bisogna capire a che prezzo.
Quale potrebbe essere dunque la chiave per affrontare questa fase?
Soprattutto con i giovani, non bisogna lasciarsi andare a discorsi generali, bisogna avanzare delle proposte concrete.
Il tema chiave è: come faccio a stare con gli altri, ma a distanza? Bisogna organizzarsi per provare a portare avanti delle attività comuni, insieme.
Chi ama lo sport, ad esempio, può pensare di farlo con i propri amici a distanza, anche piccole attività, un programma fisico da condividere, a una stessa ora e in un giorno fisso. Oppure leggere lo stesso libro e poi commentarlo. O ancora, ci sono delle piattaforme su internet che permettono di vedere un film in contemporanea con gli amici e commentarlo insieme. Non è certo la stessa cosa che andare al cinema, ma in questo momento è ciò che possiamo fare. Di sicuro ora non serve esortare troppo i ragazzi a guardarsi dentro, all’introspezione, lo fanno già abbastanza…
Dare attenzione alla dimensione psicologica è fondamentale per gestire la situazione.
Ne ho parlato anche con il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Gli ho detto: non servono solo medici e virologi, ma servono degli psicologi. Se con i bambini più piccoli è giusto che i genitori organizzino delle attività per stare tanto tempo insieme, agli adolescenti è necessario garantire uno spazio proprio. Tanto più adesso che siamo chiusi in casa 24 ore al giorno.
I giovani non devono sentirsi invasi, bisogna cercare per quanto possibile di garantire a tutti loro uno spazio di libertà e autonomia.
Lo sport, anche a distanza, può essere un modo per conquistarsi o portare avanti questa autonomia?
Sicuramente. Noi come Federazione abbiamo cercato di muoverci in questa direzione. Io settimanalmente tengo diverse riunioni con i tecnici e con i preparatori fisici per aggiornamento, studio, condivisione. Inizialmente abbiamo pubblicato sul nostro canale YouTube dei tutorial per tutti i giocatori, invitandoli ad allenarsi da casa. Adesso siamo passati a dei veri e propri allenamenti seguiti in diretta dai tecnici.
In che modo?
Non avendo potuto fare la classica selezione dei migliori giocatori Under 17, Under 19 e Under 21 per il lavoro estivo, abbiamo deciso di tenere dentro a questo programma tutti i giocatori della preselezione. Gli allenamenti si svolgono in gruppi da venti ragazzi, per un totale di 130. Abbiamo deciso di non lasciare fuori nessuno. Ogni allenatore tiene mezz’ora di discorso tecnico e insegnamento teorico della pallavolo, come si fa già normalmente, e poi il preparatore allena per un’ora-un’ora e mezza guardando in diretta i ragazzi, per correggerli, dopo aver dato loro tutorial e filmati da studiare. I gruppi degli Under 17 e 19 si allenano in questo momento tre volte a settimana, i più grandi tutti i giorni. I ragazzi sono entusiasti di poter portare avanti l’attività.
Anche in questo caso emerge quanto sia importante mantenere vivi dei gruppi.
Certo e anche la mia storia con la pallavolo testimonia come alla base di una passione che arriva e rimane ci sia l’importanza del gruppo.
Ce la vuole raccontare?
Prima di conoscere la pallavolo avevo praticato vari sport, il calcio, il rugby, il nuoto. Poi un giorno al club dove passavo l’estate si è presentato un allenatore di pallavolo che ci ha fatto provare. Mi è piaciuto ma soprattutto si è formato un gruppo che poi ha continuato a vedersi e giocare anche finita la stagione estiva. È diventato il mio gruppo di riferimento.
Bisogna sapere che il motivo numero uno dell’abbandono degli sport è proprio la mancanza del gruppo, anche se si tratta di uno sport individuale.
Quando la situazione non risponde alle aspettative sociali, è facile che si arrivi a un abbandono. In una seconda fase, subentra un altro meccanismo, che è quello del miglioramento individuale, riuscire ad andare sempre un passo più in là. Ovviamente nei giochi sportivi c’è anche una grande dose di divertimento, ma la volontà di migliorarsi dà una motivazione enorme a continuare.
Lei è riconosciuto da tutti come un grande “conduttore” di gruppi che ben funzionano. Quali sono le regole chiave che trasmette quando gestisce un gruppo?
Io parto dall’assunto che lo sport tende a essere inclusivo, ma ci sono alcune dinamiche da combattere. In primis non permetto ai componenti del gruppo di parlare male di un altro di loro. Questo sia tra i ragazzi sia nel mio staff. È un meccanismo negativo e che, inoltre, ci toglie delle responsabilità. In secondo luogo, non permetto alcun tipo di vessazione, neanche in nome della goliardia. Cose come il “battesimo” dei nuovi arrivati. È un’abitudine che nasce tra i gruppi dell’esercito, nei gruppi di educazione fisica legati all’ambito militare con i cadetti del primo anno. Nelle mie squadre non ho mai permesso un “battesimo”. È solo un modo per dire: tu vali meno di noi perché sei appena entrato. Non si tratta soltanto di proteggere il singolo che subisce la vessazione, ma soprattutto di non sviluppare una cultura che non ci deve appartenere.
E da parte degli allenatori, quali sono le regole d’oro per essere buoni punti di riferimento?
Primo rispettare tutti allo stesso modo, sia la stella della squadra che il giocatore più scarso. Ovviamente chi è più forte giocherà di più e questo dipende anche dal livello della squadra, dagli obiettivi e dalla fascia di età. L’importante è che l’allenatore mantenga un comportamento uguale con tutti, non deve fare l’accondiscendente con i forti e il duro con i deboli. Le vulnerabilità non sono un ostacolo al funzionamento del gruppo, anzi. Se il gruppo funziona bene di solito sono gli stessi compagni ad aiutare un ragazzo più fragile, a volte anche contro l’autorità, ossia contro noi allenatori. Questo è ottimo, quando succede.
E poi?
L’altra cosa che insegno agli allenatori è che non possono pretendere di controllare tutto. I gruppi di giovani ci accettano nei nostri ruoli di guide, nell’ordine: prima gli allenatori, poi i professori, poi – per ultimi – i genitori. Noi non dobbiamo pretendere di controllare tutto, il gruppo deve essere libero di sviluppare delle proprie dinamiche.
Una brava guida deve sapere equilibrare tra questi aspetti: dare al gruppo alcune linee e regole molto precise, ma al tempo stesso far sì che esso sviluppi le proprie dinamiche.
Di generazioni ne ha viste passare tante. È cambiato qualcosa nella gestione dei gruppi e nell’approccio con i ragazzi in questi anni?
Il mondo cambia continuamente. Lo ha sempre fatto. Ma la caratteristica di oggi è che lo fa a velocità sempre maggiore. Io non sopporto che si dica che le generazioni di una volta erano migliori di quelle di adesso o che i giovani di oggi fanno le cose e si allenano senza entusiasmo. Sono confronti ridicoli. I giovani stanno sempre al telefono? Perché, noi adulti no? A volte credo che sia necessario guardare le cose da una prospettiva diversa. Spesso sono gli adulti ad avere dei problemi di adattamento. Io da questo punto di vista sono molto dalla parte dei giovani, non si può pensare di mantenere l’entusiasmo con metodi di insegnamento obsoleti e anacronistici. Penso ad esempio ai programmi scolastici, molti dei quali sono fermi a decenni fa… I docenti, i professori, gli allenatori che sanno adattarsi ed entrare in sintonia con i ragazzi sono molto amati. E di conseguenza i loro allievi saranno entusiasti.
La sfida costante sembra essere dunque più quella degli allenatori.
I giovani da una parte vogliono fare le stesse cose dei coetanei, quindi sentirsi parte di un gruppo, dall’altra però vogliono che venga riconosciuta la propria individualità. Ed ecco l’importanza di immaginare programmi individualizzati, anche a livello sportivo. È vero che ci si allena in gruppo, ma io allenatore devo essere in grado di comprendere i problemi individuali. Non dire: “Tu non sai fare questa cosa”, ma “Tu non sai ancora fare questa cosa”. La chiave della crescita sta in questa parola: “ancora”. È un messaggio fondamentale. Inoltre, soprattutto, all’allenatore devono piacere i propri giocatori. E quanto meno i giocatori sono “fenomeni” tanto più l’allenatore dovrebbe essere contento, perché davanti a sé ha una sfida, la possibilità di imparare di più. Negli sport di squadra, bisogna stimolare molto il fatto che il primo grande traguardo è superare se stessi. Un ragazzo può anche essere il più scarso del gruppo, ma se migliora bisogna farglielo notare. Magari non è migliorato in maniera sufficiente per giocare titolare, ma è migliorato ed è questa la cosa importante.
È nella vulnerabilità che si possono individuare una sfida e un motivo di crescita, per il singolo, per il suo allenatore, per il gruppo intero.
Ai ragazzini dico: la lotta può salvarti dalla strada
Un bambino di 7 anni cammina per le strade polverose di Matanzas, Cuba, un centinaio di chilometri a est dall’Avana. Quel bambino ha dentro di sé qualcosa, qualcosa che sente di dover esprimere, tirare fuori. In una vita cresciuto lontano dai genitori, a badare a lui è la nonna, a cui quando può sfugge dalla vista. È in un giorno di quelli, nelle sue camminate in solitudine, che si perde per le strade, si imbatte in una palestra, guarda dentro, e vede dei ragazzi che lottano. Per lui è come una folgorazione. “Posso provare anch’io?”, chiede. Lo fanno provare, è bravo, un talento innato, qualcosa che lo fa prevalere sugli avversari, anche se è la prima volta per lui. Da quel giorno decide: diventerà un lottatore. E la palestra, appena saputo il suo cognome lo accoglie con ancor più gioia, visto che il padre era stato a sua volta un campione di lotta. Anche se quel bambino non potrà immaginare che, proprio a causa della lotta, un giorno sarà costretto a cambiare Paese e che, grazie alla lotta, salirà sul tetto del mondo.
Frank Chamizo oggi ha 27 anni ed è tra le stelle mondiali di questa disciplina fatta di fisicità e tattica. Di strada ne ha fatta da quel giorno: bronzo Olimpico a Rio 2016, due ori, un argento e un bronzo Mondiale, tre ori e un bronzo europei, la televisione, gli eventi mondani in cui è richiesto e fotografato. Ma dentro lui lo spirito è rimasto lo stesso.
È curioso come a volte sia il caso a guidarci nella vita, da una piccola palestra di Matanzas fino alla medaglia olimpica. Ma quanto sacrificio c’è dietro al tuo sport?
Alla lotta sono arrivato quasi per caso, ma è come se questo sport lo avessi dentro da sempre. Il giorno in cui passai davanti a quella palestra non ci pensai due volte, entrai e mi buttai, era come se avessi capito che il mio futuro sarebbe stato quello. La vita del lottatore è una vita di competizione, un sport che ti mette uomo contro uomo. Nella lotta c’è molto sacrificio, soprattutto per quel che riguarda il controllo del peso, visto che noi ci sfidiamo per categorie. Devi trovare la tua categoria giusta, come è stato nel mio caso che sono passato dai 65 Kg, vincendo l’oro mondiale, ai 70 Kg, dove ho conquistato un altro oro e, infine, alla categoria attuale, 74 kg dove lo scorso anno ho vinto l’argento.
L’aspetto che preferisco della mia disciplina sportiva è affrontare le sfide e, nonostante sia uno sport di contatto ed estremamente fisico, la cosa che conta di più è la testa, avere la giusta mentalità.
Il bronzo Olimpico per te è stato una medaglia importante, ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Tuttavia, dopo quel risultato non sembravi molto contento…
Dalle Olimpiadi del 2016 mi porto dietro tanta esperienza e se non posso dirmi del tutto soddisfatto è solo perché me mi aspetto sempre il massimo, sono un pazzo, sono fatto così. Non posso dire che quella medaglia non mi abbia reso felice, ma in questi quattro anni ho lavorato tantissimo e voglio riprendermi quello che mi spetta.
Tu sei arrivato in Italia dopo una squalifica di due anni nel tuo Paese proprio a causa del peso, un’inezia che però ha influito molto, nonostante ti fossi messo al collo già una medaglia mondiale nel 2010, a soli 18 anni. Una squalifica che incise anche sul tuo tenore di vita, togliendoti quelle garanzie economiche che avevi conquistato con fatica. Fino al giorno in cui, con la tua compagna Dalma Caneva, lottatrice azzurra, decisi di trasferirti in Italia e, dopo il matrimonio, prendere la cittadinanza. Com’è stato il passaggio in Italia?
Questo Paese mi ha accolto a braccia aperte e mi ha dato la possibilità di ricostruirmi un futuro, restituendomi la voglia di combattere. Il sostegno del Centro Sportivo dell’Esercito è stato fondamentale. Più di così…
Hai mai avvertito nei tuoi confronti episodi di razzismo o attacchi gratuiti?
Devo dire di no e, anche se fosse successo, non sono la persona che ci fa caso. Sui social, certo, qualche commento non proprio bello ogni tanto lo ricevo: “Non sei farina del nostro sacco”, “Vattene…”. Ma è tutto frutto dell’ignoranza.
Se nel 2020 esistono ancora persone razziste vuol dire che non stanno bene, che c’è qualcosa in loro che non va. Bisogna essere ignoranti per essere ancora razzisti.
E il rapporto con i fan com’è?
Io sono molto social, ma sono seguito più da persone russe, americane, cinesi, gli italiani sono la minoranza, forse anche perché la lotta qui non è un sport con grande visibilità.
Un po’ ti ha aiutato la televisione, con la tua partecipazione al programma di ballo Dance, Dance, Dance. Che esperienza è stata?
Molto positiva. Io ero in coppia con la ginnasta Carlotta Ferlito, tremenda, una vera bomba di esplosività! Mi è servito per capire come si lavora in televisione e la differenza tra un programma dal vivo e uno registrato. Diciamo che nel programma registrato, con i tagli, i montaggi e la costruzione della storia, non riesci a essere veramente te stesso. Ma comunque sono contento di aver partecipato, anche perché il ballo è una delle mie grandi passioni.
Com’è la giornata tipo di un lottatore?
È difficile dirlo, viviamo momenti completamente diversi se siamo in un periodo tranquillo oppure in un periodo di gare. Nel primo la nostra vita è molto rilassata, io personalmente sono spesso in viaggio, partecipo a numerosi eventi. Sotto gara invece mi alleno due volte al giorno, mattina e pomeriggio, ho una vita molto più controllata e morigerata, sempre con l’occhio alla bilancia.
Ripensando a te da ragazzino, in quella strada di Matanzas, perché consiglieresti a un bambino di scoprire e farsi affascinare dalla lotta?
Anche in Italia, che è un Paese assolutamente civilizzato, non sono pochi i bambini e i ragazzini che vivono nel mondo della strada. Non a tutti capita di nascere nella famiglia “giusta”, con le dinamiche “giuste”, dove puoi essere ascoltato, accolto e crescere senza particolari problemi. E capita allora che in un bambino possa emergere della rabbia, una furia che si trova a scatenare nella vita di tutti i giorni. Ecco, la lotta sarebbe il posto migliore per sfogare questi sentimenti, trasformandoli in qualcosa di positivo, in una sfida con te stesso e con gli altri, accompagnata dai valori dello sport. A tutti i ragazzini che sentono dentro di sé qualcosa di forte da tirare fuori dico: andate in una palestra di lotta, magari non sarà così semplice trovare quella giusta, come è successo per caso a me, ma vi darà grandi soddisfazioni!
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