Eva Ceccatelli: anche il Sitting Volley non è salvo dall’hate speech

di Ilaria Leccardi

“Noi atlete e atleti che pratichiamo sport in ambito paralimpico non siamo né supereroi né ‘sfigati’ che devono essere compatiti. Siamo persone come tutte, che lottano per fare ciò che amano. Eppure, nella comunicazione giornalistica e sui social questo messaggio fa ancora fatica a passare”.

Eva Ceccatelli è un monumento dello sport azzurro, opposta della Nazionale azzurra di Sitting Volley, recente protagonista alle Paralimpiadi di Parigi 2024. Classe 1974, pisana, attivista di Assist Associazione Nazionale Atlete fin dalla prima ora, al fianco di Luisa Rizzitelli, ha praticato la pallavolo fin da ragazza, dopo esperienze nel nuoto e nella scherma. Un amore scoppiato a scuola che, dal primo Trofeo Topolino giocato quando faceva quinta elementare, l’ha portata fino ai campi di Serie A, negli anni Novanta. Poi, nel 1999, l’insorgere violento di una malattia, la sclerosi sistemica, o sclerodermia, che l’ha costretta a interrompere l’attività agonistica. A risentirne sono state soprattutto le mani, principale strumento per una pallavolista, che lavora con la sensibilità delle dita e la potenza degli arti superiori.

Ma l’amore per questo sport era troppo grande per allontanarsene. “Prima della malattia, allenavo già i gruppi giovanili e dal 2000, non potendo più scendere in campo, ho continuato il mio percorso di tecnica alla società Dream Volley di Pisa”. Proprio nella sua società entra in contatto con il mondo del Sitting Volley, all’epoca uno sport giovane, poco praticato nel nostro Paese. “L’Italia ha conosciuto un percorso inverso a quanto avviene normalmente: prima si è costituito il gruppo della Nazionale e solo dopo, con l’aumentare del numero delle praticanti, si sono creati i gruppi dei club. Al Dream Volley c’erano già quattro o cinque ragazze che si allenavano, non una vera e propria squadra e all’epoca la Nazionale aveva già partecipato senza successo alle qualificazioni per i Giochi di Rio 2016”. Proprio alla fine di quell’anno, dopo aver perso l’allenatore che le seguiva, le ragazze furono affidate alla guida di Ceccatelli che questo sport neanche lo conosceva, ma portava con sé esperienza, professionalità e visione. “Ricordo che passai il primo mese a casa, seduta per terra, a capire come fosse possibile giocare e spostarsi in maniera così dinamica sotto rete in quella posizione”.

Il lavoro si fece subito intenso, con uno sguardo al futuro. “C’era la necessità di consolidare il gruppo, ma anche di impostare un percorso che avesse una prospettiva a livello sportivo. E poi le ragazze iniziarono a ‘stressarmi’ e incalzarmi, chiedendomi di partecipare agli allenamenti come giocatrice. Potete immaginare la mia reazione, vista la mia patologia che non permette di prendere botte, tagliarmi, rischiare contrasti duri”.

Fino a quando, un giorno, le pallavoliste le portarono delle fotografie di una giocatrice olandese che utilizzava delle protesi alle mani, e in Eva scattò la speranza di poter tornare in campo. “Ho trovato una fisioterapista della mano abbastanza ‘folle’ da seguirmi e così è ripresa la mia carriera sportiva. Negli anni ho lavorato a stretto contatto con l’INAIL di Budrio che ha creato per me delle fantastiche protezioni per le mani, con cui riesco a giocare. E con loro, prima che l’alluvione dell’Emilia-Romagna ci costringesse a fermare tutto, stavamo ragionando su dei materiali con cui realizzare dei piccoli tutori da indossare durante la notte e nuovi ausili per persone che hanno la mia patologia”.

Oggi in Italia il Sitting Volley è uno sport ancora troppo poco conosciuto e raccontato dai media, nonostante la sua spettacolarità. Una capacità attrattiva dimostrata dal fatto che alle ultime Paralimpiadi la partita tra Italia e Cina femminile è stata seguita da quasi 1 milione di spettatori. “Il movimento in Italia è cresciuto in pochi anni. Nel 2017 abbiamo partecipato ai primi Europei, dove siamo arrivate ottave, ma l’anno seguente ai Mondiali abbiamo chiuso al quarto posto. La crescita è stata importante, la difficoltà è mantenersi ad alti livelli. L’esperienza paralimpica di Tokyo nel 2021 è stata devastante, avevamo aspettative alte, ma l’isolamento sociale ci ha messe in difficoltà dal punto di vista psicologico, è stato molto faticoso. Abbiamo chiuso al sesto posto. A Parigi è stato molto più bello, abbiamo vissuto un vero clima di festa olimpica”.

Dopo la serie di medagli europee (argento nel 2019 e 2021, un fantastico oro nel 2023) a Parigi molti si aspettavano la medaglia. Ma le sconfitte nei gironi con la Cina e poi con le campionesse uscenti degli Stati Uniti, hanno spento i sogni delle azzurre guidate dal tecnico Amauri Ribeiro, che hanno comunque migliorato la classifica di Tokyo, chiudendo al quinto posto. 

Il campionato italiano maschile e femminile è stato inaugurato nella stagione 2016-2017 e da allora, tra le donne, gli scudetti sono stati tutti appannaggio del Dream Volley di Pisa, la squadra di Eva Ceccatelli, che è ancora giocatrice-allenatrice e dove militano le azzurre Giulia Aringhieri, Giulia Bellandi, Elisa Spediacci e Sara Cirelli.

“Come allenatrice – prosegue – sento che tante società sportive vogliono aprire al Sitting Volley, ma abbiamo bisogno di sostegno e investimenti. Io ho molti contatti con le scuole e gli studenti, cerco di promuovere più possibile questa disciplina ma, come capita ancora a molte atlete e molti atleti nel nostro Paese, parallelamente all’attività sportiva di alto livello, devo lavorare per mantenermi”.

Un aiuto alla visibilità del Sitting Volley è arrivato dalle Paralimpiadi di Parigi, ma capita che la narrazione, soprattutto quando attraversa i social media, abbia anche delle derive negative. “Personalmente ho un rapporto sano con i social, mi prendo la libertà di pubblicare quello che voglio e, se si tratta di contenuti un po’ ‘scomodi’, evito di leggere i commenti. Purtroppo, però, sul web qualche ‘cretino’ c’è sempre, sui social il livello è molto basso, si fa gara a dire la peggiore cattiveria, non ci si pone minimamente il problema delle conseguenze delle proprie azioni. Finché le notizie che ci riguardano vengono diffuse e condivise da testate e pagine vicine al nostro mondo sportivo non ci sono problemi, ma quando vengono pubblicate su pagine più generaliste, arrivano parole di ogni tipo, probabilmente a causa del maccanismo che porta a generare clic e commenti, a prescindere dal loro contenuto. Una volta, ad esempio, ci è successo di leggere frasi squalificanti rispetto al nostro sport e commenti terrificanti rispetto allo ‘stare sedute’, a seguito della notizia pubblicata sui propri canali da una seguitissima agenzia di stampa social che si occupa di tematiche femminili”.

Il lavoro da fare è ancora grande ma Eva Ceccatelli e il suo team guardano al futuro.

Per approfondire – dalla pagina Facebook del Dream Volley Pisa

Il Sitting Volley è uno sport inclusivo derivato dalla pallavolo, introdotto nei Paesi Bassi nel 1956/57 come disciplina adattata per la pratica sportiva delle persone con disabilità. Consiste in una pallavolo giocata stando seduti sul pavimento, con il campo più piccolo e con la rete più bassa. Il giocatore nel momento in cui tocca la palla deve trovarsi con le natiche a contatto con il pavimento.

Per le sue caratteristiche il Sitting Volley viene spesso promosso per favorire l’integrazione sociale delle persone con disabilità, dato che può essere praticato senza distinzione da individui con disabilità (atleti con amputazioni, paraplegie e altre limitazioni funzionali) e al tempo stesso anche da soggetti normodotati, non richiedendo l’utilizzo di attrezzature o ausili sportivi.

Un campo regolare da sitting volley misura 10 x 6 m, con la rete alta 1.15 m per gli uomini e 1.05 m per le donne; le aste laterali misurano 1.60 m e la linea di attacco è posta a 2 m di distanza dalla rete.

Paola Egonu

Video intervista al volto più noto del volley italiano

Un metro e 89 centimetri di tecnica e potenza. Un’elevazione che la porta a volare a quasi tre metri e mezzo. Le sue schiacciate sono bolidi che lasciano poche speranze a chi si trova dall’altra parte della rete. Paola Egonu ha 21 anni e ormai da qualche stagione è il volto più noto della Nazionale italiana di volley e icona della pallavolo mondiale. Schiacciatrice e opposto, più volte nei tornei e campionati internazionali disputati nelle ultime stagioni si è trovata insignita del riconoscimento di MVP (Most Valuable Player).

Paola è nata a Cittadella, in provincia di Padova, nel 1998, da genitori nigeriani che proprio in Veneto si sono conosciuti. Afroitaliana. È questo il termine con cui meglio si definisce. Nata e cresciuta in Italia ma consapevole della sua storia a cui è molto legata, così come alla sua famiglia di origine che di frequente va a trovare in Nigeria. È uno dei volti che rappresenta l’Italia di oggi, che sa raccontarsi, prendendo parola e scardinando i pregiudizi, come quando – al termine dei Mondiali 2018 – con tutta naturalezza disse di avere una fidanzata e la stampa utilizzò quelle poche parole e la foto di un bacio per ricamarci titoli e scrivere fiumi di articoli.

La pallavolo l’ha conosciuta quando aveva 12 anni. Prima come semplice hobby, poi ha iniziato a divertirsi davvero e ha capito che poteva essere lo sport adatto a lei. E presto lo notano anche gli allenatori. Tant’è che dal 2013 entra a far parte del Club Italia, la società che fa capo alla Federazione, fondata per volere di Julio Velasco nel 1998, con l’obiettivo di formare giovani atlete italiane provenienti dai vivai, facendo così fare loro esperienza ad alto livello anche in termini di campionati.

FOTO Galbiati/Fipav – Paola Egonu agli Europei 2019, la Nazionale italiana è bronzo

Ed è proprio tra le fila del Club Italia che Paola Egonu ottiene i suoi primi successi, partendo dalla serie B1 e arrivando fino all’A1. Celebre resterà una partita del campionato 2016-2017 in cui riuscì a realizzare ben 46 punti, il record di sempre in un match femminile nella serie maggiore. Una scalata inarrestabile che l’ha portata sul tetto del mondo.

Ingaggiata dall’AGIL Volley Novara nel 2017, vi gioca due stagioni, durante le quali vince di tutto: la SuperCoppa Italiana nel 2017, due Coppa Italia (nelle stagioni 2017-2018 e 2018-2019) e nel 2019 la CEV Champions League, dove risulta anche MVP. Nella scorsa stagione torna in Veneto, ingaggiata dall’Imoco di Conegliano, con cui si distingue subito vincendo la SuperCoppa Italiana e il Mondiale per Club in cui, neanche a dirlo, è MVP. E poi la Coppa Italia 2019-2020, poco prima della chiusura delle attività per lockdown a causa dell’emergenza coronavirus.

Straordinaria è anche la sua attività in Nazionale azzurra, fin dalle giovanili. Nel 2015 è campionessa mondiale sia con l’Under-18 che con l’Under-20. Nel 2017 è argento al World Grand Prix. Mentre nel 2018, ai Campionati del Mondo che si disputano in Giappone, conduce con le sue schiacciate l’Italia alla finale, dove però ha la meglio la Serbia. L’Italia si deve “accontentare” dell’argento. Nel 2019 è bronzo Europeo, in una Nazionale azzurra dove quasi la metà delle giocatrici ha origini straniere, per lo più seconde generazioni.

Con Paola Egonu abbiamo parlato degli aspetti che riguardano la nostra campagna. La diffusione dell’hate speech anche in ambito sportivo e come lei ha affrontato episodi spiacevoli che l’hanno riguardata. La ricchezza della nuova Italia che anche nello sport sta vivendo una sempre maggiore condivisione di culture e diversità. L’importanza per una campionessa come lei di portare avanti un messaggio di integrazione. E infine il suo legame con la Nigeria, cosa significhi essere afroitaliana oggi.

LA VIDEO INTERVISTA DI “ODIARE NON È UNO SPORT” ALLA CAMPIONESSA DI VOLLEY PAOLA EGONU

Julio Velasco

Nello sport come nella vita, la squadra è l’elemento fondamentale

“Per affrontare il presente che stiamo vivendo, l’emergenza sanitaria, dobbiamo essere capaci di immaginare nuove forme di condivisione, nuove modi per stare insieme. Non bastano discorsi generici, il telefonino, i social. Servono proposte concrete, anche per i più giovani, quegli adolescenti che si trovano confinati in casa in un momento della loro vita in cui avrebbero bisogno di spazi propri”. Julio Velasco è un uomo di grande esperienza. Una vita passata sui campi della pallavolo, dall’Argentina all’Italia, passando per l’Iran, la Repubblica Ceca, la Spagna, e altri angoli di mondo. Una vita ad allenare e coordinare gruppi, facendo dell’attenzione alla dimensione psicologica, sul campo e fuori, una delle chiavi della propria conduzione. Ha guidato l’Italia della “generazione dei fenomeni”, portandola ai vertici del mondo, ma è soprattutto stato – e ancora continua a essere – una guida per i giocatori e i tecnici, non solo nel suo sport. Dallo scorso anno, chiusa la carriera di allenatore, è stato nominato direttore tecnico del settore giovanile della FIPAV, la Federazione Italiana Pallavolo. E ora, a causa dell’emergenza coronavirus, si trova – come tutto la staff della Nazionale, come il mondo intero – ad affrontare una situazione senza precedenti che ha portato addirittura al rinvio dei Giochi Olimpici di Tokyo.

Di Iaria Leccardi

Velasco, questa situazione ha portato uno shock al mondo sportivo?

Credo che lo shock vero fino ad ora sia stato un altro, quello legato ai morti, alla malattia che ha colpito tante persone con sintomi terribili, ai rischi con cui tutti abbiamo dovuto confrontarci. Un trauma talmente forte che ha tenuto lo shock sociale in secondo piano. Ma adesso stiamo entrando nella fase in cui rimane la paura e inizia a farsi sentire il peso per la chiusura e l’isolamento. Il rischio è che si molli e non dobbiamo farlo. È nel momento critico che si vede chi sa “giocare” davvero. Se dovessi paragonare questa situazione a una prova sportiva penserei più a una maratona o a una gara di triathlon che non a una partita di pallavolo…

Lo stare chiusi in casa come prova di resistenza.

Io personalmente mi considero un privilegiato, vivo in campagna, ho una casa con il giardino, non mi manca nulla. Ma non sopporto chi fa dei ragionamenti generali senza mettersi nei panni degli altri. È facile dire che questa può essere una situazione comunque positiva, perché abbiamo tempo di fare tante cose, leggere, coltivare le nostre passioni… Sappiamo benissimo che ci sono famiglie che vivono in appartamenti piccoli, non hanno il computer, con bambini che devono seguire le lezioni a distanza ma non hanno gli strumenti adeguati. Oppure famiglie dove il marito è operaio, abituato a lavorare tante ore fuori casa, e che ora la moglie si ritrova tutto il giorno tra i piedi, tra quattro mura e due stanze. La convivenza può diventare difficile e non abbiamo tutti le stesse condizioni. Dobbiamo esserne consapevoli quando parliamo di ciò che stiamo vivendo.

Secondo lei sono passati dei messaggi troppo ottimistici?

Io ho una nipotina di cinque anni e una di tre. Loro hanno disegnato l’arcobaleno con la frase “Andrà tutto bene” e lo hanno appeso ai balconi. Penso che sia un’ottima iniziativa per bambini di quell’età. Ma a quelli un po’ più grandi – e soprattutto a noi stessi – il messaggio dovrebbe essere diverso: “Andrà tutto bene, o forse no… Andrà tutto bene, solo se saremo noi a farla andare bene”. Pensiamo che il primo giugno potremo davvero uscire e che sarà tutto finito? No, dovremo preparare i giovani, e io parlo anche dei giovani sportivi, al fatto che vivremo ancora momenti molto difficili, in cui l’aggregazione sarà progressiva, non immediata. Non sapremo quando e come effettivamente si potrà tornare ad allenarsi secondo le modalità che conosciamo. Come in ogni situazione della vita, anche da questa usciremo, ma bisogna capire a che prezzo.

Quale potrebbe essere dunque la chiave per affrontare questa fase?

Soprattutto con i giovani, non bisogna lasciarsi andare a discorsi generali, bisogna avanzare delle proposte concrete.

Il tema chiave è: come faccio a stare con gli altri, ma a distanza? Bisogna organizzarsi per provare a portare avanti delle attività comuni, insieme.

Chi ama lo sport, ad esempio, può pensare di farlo con i propri amici a distanza, anche piccole attività, un programma fisico da condividere, a una stessa ora e in un giorno fisso. Oppure leggere lo stesso libro e poi commentarlo. O ancora, ci sono delle piattaforme su internet che permettono di vedere un film in contemporanea con gli amici e commentarlo insieme. Non è certo la stessa cosa che andare al cinema, ma in questo momento è ciò che possiamo fare. Di sicuro ora non serve esortare troppo i ragazzi a guardarsi dentro, all’introspezione, lo fanno già abbastanza…

Giornata di formazione a Monterotondo, Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV

Dare attenzione alla dimensione psicologica è fondamentale per gestire la situazione.

Ne ho parlato anche con il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Gli ho detto: non servono solo medici e virologi, ma servono degli psicologi. Se con i bambini più piccoli è giusto che i genitori organizzino delle attività per stare tanto tempo insieme, agli adolescenti è necessario garantire uno spazio proprio. Tanto più adesso che siamo chiusi in casa 24 ore al giorno.

I giovani non devono sentirsi invasi, bisogna cercare per quanto possibile di garantire a tutti loro uno spazio di libertà e autonomia.

Lo sport, anche a distanza, può essere un modo per conquistarsi o portare avanti questa autonomia?

Sicuramente. Noi come Federazione abbiamo cercato di muoverci in questa direzione. Io settimanalmente tengo diverse riunioni con i tecnici e con i preparatori fisici per aggiornamento, studio, condivisione. Inizialmente abbiamo pubblicato sul nostro canale YouTube dei tutorial per tutti i giocatori, invitandoli ad allenarsi da casa. Adesso siamo passati a dei veri e propri allenamenti seguiti in diretta dai tecnici.

In che modo?

Non avendo potuto fare la classica selezione dei migliori giocatori Under 17, Under 19 e Under 21 per il lavoro estivo, abbiamo deciso di tenere dentro a questo programma tutti i giocatori della preselezione. Gli allenamenti si svolgono in gruppi da venti ragazzi, per un totale di 130. Abbiamo deciso di non lasciare fuori nessuno. Ogni allenatore tiene mezz’ora di discorso tecnico e insegnamento teorico della pallavolo, come si fa già normalmente, e poi il preparatore allena per un’ora-un’ora e mezza guardando in diretta i ragazzi, per correggerli, dopo aver dato loro tutorial e filmati da studiare. I gruppi degli Under 17 e 19 si allenano in questo momento tre volte a settimana, i più grandi tutti i giorni. I ragazzi sono entusiasti di poter portare avanti l’attività.

Anche in questo caso emerge quanto sia importante mantenere vivi dei gruppi.

Certo e anche la mia storia con la pallavolo testimonia come alla base di una passione che arriva e rimane ci sia l’importanza del gruppo.

Ce la vuole raccontare?

Prima di conoscere la pallavolo avevo praticato vari sport, il calcio, il rugby, il nuoto. Poi un giorno al club dove passavo l’estate si è presentato un allenatore di pallavolo che ci ha fatto provare. Mi è piaciuto ma soprattutto si è formato un gruppo che poi ha continuato a vedersi e giocare anche finita la stagione estiva. È diventato il mio gruppo di riferimento.

Bisogna sapere che il motivo numero uno dell’abbandono degli sport è proprio la mancanza del gruppo, anche se si tratta di uno sport individuale.

Quando la situazione non risponde alle aspettative sociali, è facile che si arrivi a un abbandono. In una seconda fase, subentra un altro meccanismo, che è quello del miglioramento individuale, riuscire ad andare sempre un passo più in là. Ovviamente nei giochi sportivi c’è anche una grande dose di divertimento, ma la volontà di migliorarsi dà una motivazione enorme a continuare.

Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV

Lei è riconosciuto da tutti come un grande “conduttore” di gruppi che ben funzionano. Quali sono le regole chiave che trasmette quando gestisce un gruppo?

Io parto dall’assunto che lo sport tende a essere inclusivo, ma ci sono alcune dinamiche da combattere. In primis non permetto ai componenti del gruppo di parlare male di un altro di loro. Questo sia tra i ragazzi sia nel mio staff. È un meccanismo negativo e che, inoltre, ci toglie delle responsabilità. In secondo luogo, non permetto alcun tipo di vessazione, neanche in nome della goliardia. Cose come il “battesimo” dei nuovi arrivati. È un’abitudine che nasce tra i gruppi dell’esercito, nei gruppi di educazione fisica legati all’ambito militare con i cadetti del primo anno. Nelle mie squadre non ho mai permesso un “battesimo”. È solo un modo per dire: tu vali meno di noi perché sei appena entrato. Non si tratta soltanto di proteggere il singolo che subisce la vessazione, ma soprattutto di non sviluppare una cultura che non ci deve appartenere.

E da parte degli allenatori, quali sono le regole d’oro per essere buoni punti di riferimento?

Primo rispettare tutti allo stesso modo, sia la stella della squadra che il giocatore più scarso. Ovviamente chi è più forte giocherà di più e questo dipende anche dal livello della squadra, dagli obiettivi e dalla fascia di età. L’importante è che l’allenatore mantenga un comportamento uguale con tutti, non deve fare l’accondiscendente con i forti e il duro con i deboli. Le vulnerabilità non sono un ostacolo al funzionamento del gruppo, anzi. Se il gruppo funziona bene di solito sono gli stessi compagni ad aiutare un ragazzo più fragile, a volte anche contro l’autorità, ossia contro noi allenatori. Questo è ottimo, quando succede.

E poi?

L’altra cosa che insegno agli allenatori è che non possono pretendere di controllare tutto. I gruppi di giovani ci accettano nei nostri ruoli di guide, nell’ordine: prima gli allenatori, poi i professori, poi – per ultimi – i genitori. Noi non dobbiamo pretendere di controllare tutto, il gruppo deve essere libero di sviluppare delle proprie dinamiche.

Una brava guida deve sapere equilibrare tra questi aspetti: dare al gruppo alcune linee e regole molto precise, ma al tempo stesso far sì che esso sviluppi le proprie dinamiche.

Di generazioni ne ha viste passare tante. È cambiato qualcosa nella gestione dei gruppi e nell’approccio con i ragazzi in questi anni?

Il mondo cambia continuamente. Lo ha sempre fatto. Ma la caratteristica di oggi è che lo fa a velocità sempre maggiore. Io non sopporto che si dica che le generazioni di una volta erano migliori di quelle di adesso o che i giovani di oggi fanno le cose e si allenano senza entusiasmo. Sono confronti ridicoli. I giovani stanno sempre al telefono? Perché, noi adulti no? A volte credo che sia necessario guardare le cose da una prospettiva diversa. Spesso sono gli adulti ad avere dei problemi di adattamento. Io da questo punto di vista sono molto dalla parte dei giovani, non si può pensare di mantenere l’entusiasmo con metodi di insegnamento obsoleti e anacronistici. Penso ad esempio ai programmi scolastici, molti dei quali sono fermi a decenni fa… I docenti, i professori, gli allenatori che sanno adattarsi ed entrare in sintonia con i ragazzi sono molto amati. E di conseguenza i loro allievi saranno entusiasti.

La sfida costante sembra essere dunque più quella degli allenatori.

I giovani da una parte vogliono fare le stesse cose dei coetanei, quindi sentirsi parte di un gruppo, dall’altra però vogliono che venga riconosciuta la propria individualità. Ed ecco l’importanza di immaginare programmi individualizzati, anche a livello sportivo. È vero che ci si allena in gruppo, ma io allenatore devo essere in grado di comprendere i problemi individuali. Non dire: “Tu non sai fare questa cosa”, ma “Tu non sai ancora fare questa cosa”. La chiave della crescita sta in questa parola: “ancora”. È un messaggio fondamentale. Inoltre, soprattutto, all’allenatore devono piacere i propri giocatori. E quanto meno i giocatori sono “fenomeni” tanto più l’allenatore dovrebbe essere contento, perché davanti a sé ha una sfida, la possibilità di imparare di più. Negli sport di squadra, bisogna stimolare molto il fatto che il primo grande traguardo è superare se stessi. Un ragazzo può anche essere il più scarso del gruppo, ma se migliora bisogna farglielo notare. Magari non è migliorato in maniera sufficiente per giocare titolare, ma è migliorato ed è questa la cosa importante.

È nella vulnerabilità che si possono individuare una sfida e un motivo di crescita, per il singolo, per il suo allenatore, per il gruppo intero.

Giornata di formazione a Milano: Velasco incontra giocatori, tecnici e dirigenti – Foto: Pinelli/FIPAV