Elisa Molinarolo: Basta giudizi sui nostri corpi

Consapevolezza, il tempo opportuno per compiere i passi importanti, la fortuna di aver trovato l’allenatore giusto, quello che ti vede prima come persona e poi come atleta e potenziale campionessa da allenare e portare in alto. Sì, più in alto possibile. La storia di Elisa Molinarolo, nata ginnasta, oggi atleta delle Fiamme Oro tra le più forte astiste del mondo, racconta di fatiche, costanza e di un percorso che dovrebbe ideale per ogni sportiva: maturato negli anni senza la fretta di bruciare le tappe, per arrivare, a 30, a conquistare un sesto posto olimpico e la voglia di migliorarsi ancora. Ma la sua storia sportiva è fatta anche di autodeterminazione, quella che la vede combattere contro gli stereotipi legati al corpo delle atlete e il body shaming, e di cui, a seguito di un particolare episodio di hate speech subito, è diventata simbolo e protagonista.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dall’apice dei tuoi risultati sportivi: il sesto posto nella finale di Parigi con tanto di record personale (4.70). Un momento storico. Ma non erano le tue prime Olimpiadi. Come le hai vissute e quali sono state le differenze tra le due esperienze?

XXXIII Olympic Games Paris 2024 | 26 July – 11 August 2024, Paris (France) | Photo: Francesca Grana / FIDAL

“La mia prima partecipazione olimpica è stata a Tokyo, dove però non ero ancora un’atleta professionista, mi allenavo dopo 8 ore in ufficio, non avevo mai disputato Mondiali o Europei. Mi sono trovata a vivere la prima esperienza internazionale dall’altra parte del mondo, durante una pandemia e senza il mio allenatore. L’ho interpretata quasi come un regalo alla mia carriera. Mai avrei immaginato cosa avrei potuto fare ancora. Ma dal 2022 le cose sono cambiate: sono entrata nel gruppo sportivo della Polizia di Stato, le Fiamme Oro, ho iniziato a dedicarmi a tempo pieno allo sport e i risultati parlano da soli: finale mondiale nel 2023, finale olimpica con sesto posto 2024. Rispetto a Tokyo, dove sono arrivata diciottesima, ho vissuto Parigi con una consapevolezza diversa, ma anche con la paura di fare peggio di tre anni prima”.

Quella in Francia è stata una finale strana, con 20 astiste ammesse, rispetto alle classiche 12, per degli ex aequo in qualificazione. Una situazione che ha comportato tempi più lunghi e la necessità di non cedere mentalmente. Sapevi di poter arrivare così in alto?

“Il giorno della finale ero tesissima, in riscaldamento ho avuto una piccola défaillance mentale. Mancavano ancora due ore alla gara, ho iniziato ad avere caldo, mi sono messa del ghiaccio nella schiena, ho mangiato una caramella, continuavo a ripetere: voglio andare a casa. Ma quando siamo entrate in campo gara, fin dal primo salto ho capito che volevo essere lì. Sono stata sempre molto concentrata. Alla fine di ogni salto mi toglievo le scarpe, mi mettevo il cappuccio e mi isolavo. Rispetto agli Europei di Roma di giugno, in cui ero reduce da un infortunio, ero molto più preparata. E rispetto ai Mondiali di Budapest di agosto 2023, dove realizzare 4.65 in finale mi ha sorpresa ed emozionata molto, a Parigi sapevo di poter valere il mio primato: 4.70. Era arrivato il momento. Sono stata sostenuta dalla mia tenuta mentale, forse una delle mie migliori caratteristiche, come già quando ero ginnasta”.

Già, la ginnastica artistica. Il tuo primo grande amore. Sei stata una grande interprete di questa disciplina, campionessa italiana junior al volteggio nel 2009 e in diverse stagioni protagonista della Serie A con l’Ardor Padova. Cosa porti con te di quegli anni?

Photo: Francesca Grana / FIDAL

Ho iniziato a 3 anni e a 12 ho lasciato la mia città, Soave, per trasferirmi a vivere a Padova, lontana dalla famiglia. È stata una vita dura, vivevo nella foresteria della palestra, facevo doppi allenamenti tutti i giorni, con i professori che venivano a farci lezione private nel pomeriggio. Passando alle superiori ho ripreso a frequentare la scuola statale, ma con orari ridotti per poter continuare a seguire il programma di allenamenti. È stato un periodo importante per me, ma anche molto complesso. Vivevamo in un clima di costante controllo. Gli ultimi anni di allenamento sono stati pesantissimi, mi allenavo 7 ore al giorno, senza bere acqua perché – ci dicevano – altrimenti saremmo ingrassate. Mi pesavano due volte al giorno. Quello del peso con la mia crescita diventò un problema, un’ossessione”.

La tua potenza cresceva, così come la tua altezza, anomala nella media delle ginnaste che praticano ginnastica artistica, generalmente più piccoline. È stato anche questo a farti guardare attorno e immaginare di poter praticare uno sport diverso?

“Un giorno vidi in televisione una campagna di un noto marchio sportivo dal claim ‘Impossibile is nothing’. La testimonial era Yelena Isinbaeva, pluricampionessa di salto con l’asta, che si disegnava come una ginnasta che diventava troppo alta e sbatteva con i piedi contro gli staggi delle parallele. E allora decise di provare a il salto con l’asta. Mi rividi in quella dinamica, ma pensare di dire ai miei genitori che avrei voluto provare a cambiare sport mi terrorizzava. Avevano fatto grandi sacrifici, dalle trasferte, ai body, ai materiali utili alla ginnastica. Ogni cosa aveva un costo. Dopo due anni, però, fu mia mamma ad accompagnarmi a provare, in un campo proprio vicino alla palestra di ginnastica. Era l’estate del 2011 e fui accolta dal Gruppo Asta Padova. Lo scegliemmo a caso, per comodità, ma sono stata fortunata: ho trovato un ambiente splendido, molto specializzato e di grandi appassionati, con un centinaio di saltatori di tutte le età, dai bambini di 7 anni ai master di 70 anni. Tante aste a disposizione, il che non è scontato. E soprattutto, la fortuna più grande, un allenatore come Marco Chiarello, che veniva a sua volta dalla ginnastica e mi ha subito capita”.

Avevi 17 anni, eri giovanissima, ma per la ginnastica – dove si diventa senior a 16 – eri già un “adulta”, con una carriera definita. Com’è cambiato il tuo approccio allo sport?

XXXIII Olympic Games Paris 2024 | 26 July – 11 August 2024, Paris (France) | Photo: Francesca Grana / FIDAL

“Nell’atletica mi ritrovai nella categoria allieve, con la possibilità di costruirmi una carriera, mentre nella ginnastica si è allieve a 8 anni. Per diverso tempo ho portato avanti entrambe le attività. Nel 2015, ad Ancona nella stessa domenica ho disputato i campionati italiani di entrambe le discipline, uno al mattino e uno al pomeriggio. Amavo la ginnastica come sport, ma il suo ambiente mi stava diventando troppo stretto, soprattutto dopo aver capito che si poteva fare sport in maniera diversa, essere felici. Ho disputato l’ultima Serie A con l’Ardor Padova nel 2016. Poi ho lasciato la ginnastica e l’anno successivo sono diventata campionessa assoluta di salto con l’asta. Puntavamo in alto, perché le potenzialità le avevo, ma insieme a Marco ci rendemmo conto che mancava qualcosa. Nell’ottobre del 2020, a seguito dello spostamento dei Giochi Olimpici di Tokyo al 2021, abbiamo provato a fare il salto di qualità, introducendo nel team tre figure fondamentali: la nutrizionista con cui ho fatto un percorso incredibile, che mi ha fatto cambiare il difficile rapporto con il cibo, senza mai puntarmi contro il dito; il fisioterapista una volta a settimana, per prevenire prima che curare, e la psicologa, per un sostegno all’occorrenza. Da quel momento, anche se ancora lavoravo in ufficio otto ore, ho iniziato a comportarmi come una vera atleta professionista.”.

Dopo Tokyo sei entrata a far parte delle Fiamme Oro, uno dei gruppi sportivi militari che in Italia sostiene gli atleti e le atlete che praticano sport dilettantistici e che, in questo modo, percepiscono uno stipendio statale e possono allenarsi a tempo pieno. Cos’è cambiato per te?

“Il 31 gennaio 2022 ho lasciato il mio vecchio lavoro. E il primo mese ho riposato tutte le ore che non avevo mai dormito. La mia vita è cambiata di colpo, mi sono trovata un po’ spiazzata. Il primo anno è stato di assestamento, ma per fortuna il mio allenatore, il Gruppo Sportivo e i tecnici federali non mi hanno messo fretta, sapevano che avevo bisogno di tempo per adattarmi. E così è stato. Ai Mondiali del 2023 indoor sono stata la prima esclusa dalla fine, poi ho conquistato la finale ai Mondiali estivi ed è stato un crescendo fino a Parigi. A dimostrazione del fatto che gli atleti vanno anche aspettati e compresi”. 

A Parigi tutta Italia ti ha ammirata e tifata, per un sesto posto storico. Ma purtroppo c’è stato chi – attraverso i social – ti ha attaccata con parole d’odio prendendo di mira il tuo corpo. Un orribile commento di hate speech poco dopo la tua finale. Ma tu hai deciso di non stare zitta e denunciare, farlo prima attraverso i social e poi per vie legali. Perché?  

Photo: Francesca Grana / FIDAL

“Tornata da Parigi ho iniziato a scorrere i messaggi sui social, tantissimi. Tra le ‘richieste di messaggi’ ne ho notata una, inviatami appena 7 minuti dopo il termine della finale. Mi insultava, additando al mio fisico la mancata medaglia, non ci ho più visto. Portavo su di me una storia di offese e privazioni. Fin da bambina, sono stata quella troppo grassa, troppo alta, tutti hanno sempre avuto da dire sul mio corpo. Addirittura, dopo Tokyo era uscito un articolo su un giornale locale, firmato da un mio vecchio professore, in cui si sosteneva che non fossi entrata in finale perché il mio fisico era troppo robusto. Questa volta ho deciso di non stare zitta. Prima ho denunciato il messaggio attraverso i social. La Gazzetta dello Sport è stata la prima testata a riprendere la mia story e a far diventare l’episodio un caso che è rimbalzato ovunque. L’autore del messaggio ha poi continuato a scrivermi, rincarando la dose, dicendo che – essendo stipendiata dallo Stato – devo prestare attenzione al mio fisico. Alla fine, ho deciso di presentare denuncia anche per via legale”.

E come si è conclusa la vicenda?

“Dopo un mese e mezzo è arrivata la richiesta di archiviazione. Forse è questo che mi lascia più amaro in bocca. Cosa significa? Che tutti sono liberi di insultarci senza problemi attraverso i social? Chi ci tutela? Io non lo dico per me, che ho la fortuna di avere un gruppo di supporto, un team e una famiglia forti alle mie spalle. Lo dico per tutte quelle persone, soprattutto giovani, che possono trovarsi sole, disarmate, fragili. Ricordo che durante un incontro pubblico sul tema dissi: ‘Comunque, questa persona non ha ammazzato nessuno’. Un pedagogista presente è intervenuto ribattendo: ‘Per il momento, perché la settimana scorsa si è ammazzato un ragazzo’ per cyberbullismo. Questo fa capire la delicatezza di certi meccanismi e il peso che possono avere le parole”.

Noi atleti, anche per il nostro ruolo pubblico, abbiamo il dovere di batterci affinché non avvenga più

A seguito di questo episodio, sei diventata un punto di riferimento per tante persone che hanno vissuto la stessa situazione.

Photo Francesca Grana / FIDAL

“Ricevo messaggi bellissimi sia da parte di ragazze sia da parte di genitori, ma anche qualcuno che dice: un’atleta come te, non deve nemmeno considerarla una persona che scrive questi insulti. E questo non penso sia giusto. Quando si scrive sui social, non sai mai chi hai dall’altra parte, come la persona può reagire a un insulto, come può vivere un’offesa. Tutti spesso si limitano a vedere l’Elisa atleta in pedana, sorridente, in forma. Ma non sanno cosa c’è dietro, la guerra interiore che ciascuno di noi può vivere. Ed è proprio questo che cerco di trasmettere ai ragazzi quando li incontro nelle scuole. Pensare alle conseguenze delle nostre parole”.  

Olimpiadi, boxe e hate speech: i social in fiamme

Un livello di hate speech senza eguali, per una vicenda nata attorno al ring, condita di fake news e arrivata a diventare un caso politico internazionale. Il match olimpico di pugilato tra l’azzurra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif – categoria 66 kg – tenutosi ieri e concluso con la vittoria di quest’ultima dopo il ritiro dell’italiana, sta riempiendo da giorni le pagine dei giornali, ma ancor più i flussi social con commenti d’odio su diversi fronti.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dai fatti. Alcuni giorni fa, quando viene diffuso il nome dell’avversaria dell’azzurra a seguito del sorteggio, i giornali iniziano a sollevare il caso: si tratta di Imane Khelif, testa di serie numero 5, attorno a cui da qualche tempo è in corso uno scontro internazionale ai massimi livelli dello sport. L’atleta lo scorso anno era infatti stata squalificata dall’IBA (International Boxing Association) agli ultimi Campionati del Mondo, assieme alla taiwanese Lin Yu-tin, a seguito di test che avrebbero definito il “mancato rispetto dei criteri di idoneità per la partecipazione alla competizione femminile” (come si può leggere dal comunicato ufficiale dell’ente internazionale). Una decisione definita “arbitraria” dal Comitato Olimpico Internazionale, soprattutto per le modalità in cui è stata effettuata, “senza una procedura adeguata, considerando che le due atlete gareggiano in competizioni internazionali di alto livello da molti anni”. Tant’è che alle Olimpiadi di Parigi Imane Khelif e Lin Yu-tin, che avevano già partecipato ai Giochi di Tokyo, sono state ammesse e la validità della loro partecipazione è stata ribadita con un’altra nota emessa dal CIO nella serata di ieri.

Un comunicato pubblicato a seguito dell’inasprirsi dei toni. Perché nel frattempo il caso mediatico in vista del match tra Khelif e Carini era già montato. Dapprima le testate italiane hanno parlato di “pugile trans”. Alcune addirittura, contravvenendo a qualsiasi regola deontologica nei confronti delle stesse persone trans, arrivano a parlare di “uomo che gareggia con le donne”. Politici e ministri si scomodano per gridare allo scandalo. Poco per volta si ricompongono i pezzi del puzzle ed emerge che – sono sempre ricostruzioni – il problema di Khelif, donna che ha sempre gareggiato con donne, sarebbero i livelli alti di testosterone. La sua situazione potrebbe essere quella di una persona con “variazioni delle caratteristiche del sesso” (DSD) che possono comportare iperandroginismo, cioè una produzione di ormoni superiore alla media generale. In patria Khelif è una stella dello sport, una stimatissima atleta, ambasciatrice Unicef. Si è allenata anche in Italia, presso il Centro Nazionale di Pugilato di Assisi.

Ieri il giorno tanto atteso. Le pugili salgono sul ring, inizia il match. Khelif parte più aggressiva. Carini dopo alcuni secondi si ferma e va all’angolo, si fa aggiustare il caschetto. Si riprende, la pugile algerina manda a segno un destro. Dopo aver incassato, Carini si avvicina nuovamente al suo angolo e, dopo 46 secondi dall’inizio dell’incontro, decide di ritirarsi. “Mi ha fatto malissimo”. Il dolore al naso è troppo forte. La seconda Olimpiade di Angela Carini termina così.

Senza voler entrare negli aspetti tecnici e nei regolamenti, che in ogni caso consentivano all’atleta algerina di partecipare, la vicenda ha scatenato un’allarmante ondata di odio social, prima nel dibattito italiano poi anche a livello internazionale, con una fortissima polarizzazione. Fin da subito è stata presa di mira la pugile algerina, contro la quale si sono scatenati messaggi in forma di aggressività verbale, linguaggio volgare, ma anche vere e proprie forme di discriminazione, sottoforma di omofobia e transfobia, benché appunto lei non sia una persona trans. Molti dei commenti sono inquadrabili come attacchi alla comunità lgbtqia+ o al mondo del femminismo. La pugile viene definita nei peggiori modi, con epiteti scurrili, con totale disattenzione nei confronti della sua reale storia umana e sportiva.

Quindi, a seguito dell’andamento del match, dopo il ritiro dell’italiana, il dibatitto e il flusso social si sono ulteriormente polarizzati. Da una parte chi si è schierato con Carini e la decisione del ritiro, dall’altra chi ha invece parlato di “sceneggiata”, attacando la pugile italiana che alla fine del match non ha stretto la mano all’avversaria. In entrambi i casi, i commenti d’odio si sono moltiplicati in direzioni diverse, con rinnovati attacchi a Khelif, ancora definita “uomo”, “camionista” “trans”, con epiteti e linguaggio volgare, nonché espressioni razziste nei confronti del suo paese di appartenenza e addirittura ai migranti algerini. C’è chi parla di “violenza di genere sul ring”, chi in maniera volgare fa riferimento agli organi sessuali di Khelif, in un senso o nell’altro (“è donna, è nata con la f.”, o “Carini ha fatto bene, rischiava che la Khelif la prendesse a pisellate”, “si sistema il pacco, avete mai visto una donna sistemarsi il pacco?”). Dall’altra parte contro Angela Carini, pugile azzurra dall’importante storia alle spalle, accusata di aver abbandonato il match in maniera strumentale, irrisa per quello che è stato considerato uno scarso livello di combattività, tacciata di vittimismo e di andare alla ricerca di visibilità. I commenti in questo caso si sviluppano maggiormente in forma di linguaggio volgare o con una modalità irrisoria: “Pensava di fare danza classica?”, “Pensava di giocare con le barbie?”.

E anche quando, di fronte all’elevato livello di aggressività, i social media manager delle testate giornalistiche italiane sono intervenuti in maniera esplicita, il flusso non si è fermato, anzi. “Vi chiediamo di esprimere le vostre opinioni senza sfociare in discriminazioni di alcun genere”, scrive il profilo Instagram della Gazzetta dello Sport. Commento che a sua volta, nel giro di pochi minuti, ha scatenato un ulteriore marea di commenti di aggressività verbale da parte degli utenti. Così come sono stati presi di mira con hate speech e insulti i telecronisti Rai che in diretta hanno commentato la scelta di ritirarsi di Angela Carini, con le parole: “Non è una bella figura” .

Il caso è diventato presto anche internazionale, ma a far rumore è la dimensione di fake news globale che ha assunto la vicenda. Alcune ore dopo il match, Elon Musk, proprietario di X, tra le persone con maggiore visibilità web al mondo, ha rilanciato un post con la fotografia di Angela Carini e le parole: “Gli uomini non appartengono allo sport femminile #IStandWithAngelaCarini. Rendiamolo trend 🔥”. Viene lanciato il trend. X/Twitter si scatena. Interviene sul caso anche Jk Rowling, autrice della saga di Harry Potter che già in passato aveva espresso posizioni molto criticate, escludenti nei confronti della comunità trans. Si moltiplicano meme che accomunano Khelif e Mike Tyson con la parrucca.

Il dato di fatto è che, ancora una volta, temi sportivi che toccano tematiche relative alla razzializzazione (si veda caso Egonu-Nazionale italiana, come spiegato nella seconda edizione del Barometro dell’Odio nello Sport), al protagonismo femminile o alle differenze di genere, sono capaci più di altri di scatenare l’odio online. E questo anche quando la specifica disciplina sportiva non trova certo i favori delle cronache. Quando mai infatti il pugilato è stato al centro della narrazione sportiva o ha suscitato un flusso di click e commenti così elevato? Qui si esula dallo sport e un ruolo importante lo ha senza dubbio la confusione generata da una scorretta informazione di base sull’argomento, per responsabilità delle testate giornalistiche che inizialmente hanno fornito informazioni imprecise e mal contestualizzate sulla figura dell’atleta algerina. Questo si è unito agli interventi di alcuni noti esponenti politici che, sempre attraverso i canali social, hanno dato visibilità alla controversia utilizzando alcune parole chiave ed espressioni, per altro in maniera scorretta, capaci di aumentare il livello di polarizzazione (una su tutte “pugile trans”). Una vicenda che, nel suo complesso, ha dimostrato uno scarso rispetto di fondo nei confronti di entrambe le protagoniste, anche per l’eccessivo carico di aspettativa che si è creato nei confronti del match.

E così, se nei giorni precedenti all’incontro che ha visto sul ring Angela Carini, la boxe aveva sollevato dibattito e discussione a causa di una serie di decisioni arbitrali e punteggi sfavorevoli alle azzurre e agli azzurri, il ring è tornato al centro del dibattito in una forma tutt’altro che conforme allo spirito olimpico. Tanto più che la stessa pugile italiana e i suoi allenatori non avevano espresso alcun giudizio negativo, alcuna protesta formale o alcun attacco contro l’atleta algerina e la sua possibilità di competere ai Giochi. Imane Khelif è una pugile battibile, come aveva dimostrato la sua eliminazione ai quarti di finale a Tokyo 2020.

FOTO di copertina rawpixel.com

Emanuele Lambertini. Il ragazzo nato due volte

Nascere due volte. Ripartire da un’amputazione per tornare a sorridere alla vita, dopo un dolore continuo, capace di rovinare l’infanzia. A 24 anni Emanuele Lambertini è una delle punte della squadra azzurra di scherma paralimpica, impegnato in due delle armi previste dalla disciplina, fioretto e spada, oro Mondiale nel fioretto a squadre, campione mondiale Under23 e plurimedagliato in coppa del Mondo, nonché testimonial della Onlus Art4Sport, fondata dai genitori della campionessa Bebe Vio. Ma le sue vite sono mille, schermidore, futuro ingegnere, musicista e compositore per passione. Ora guarda a Parigi 2024 con la speranza di grandi risultati e noi lo abbiamo intervistato per scoprire la sua storia e il valore dello sport nella sua vita.

di Ilaria Leccardi

Emanuele, fai parte della squadra paralimpica di scherma azzurra, in quanto amputato alla gamba destra. La tua non è la storia di un incidente, ma di una malattia che ti ha fin da subito insegnato a confrontarti con il dolore. Ci racconti la tua esperienza?

Sono nato con rarissima malformazione vascolare alla gamba destra. Inizialmente i medici pensavano che le macchie rosse sulla pelle fossero delle semplici “voglie”. Ma quando ho compiuto un anno, quelle macchie iniziarono a ingrandirsi, ne spuntarono altre, e con loro anche ulcere e abrasioni molto dolorose. Iniziai un’odissea per cercare una cura, tra Italia, Stati Uniti e Francia. Nessuno riusciva a trovare la terapia giusta e, anzi, tante delle strade percorse erano sbagliate. Fui addirittura sottoposto a quattro cicli di chemioterapia. In Francia trovai l’ospedale specializzato in cui meglio riuscivano a seguirmi. Per tre lunghi anni ho vissuto tra la mia casa e Parigi. Fu molto difficile per me, per i miei genitori, le mie sorelle. Quella gamba, sempre gonfia, a rischio emorragie, mi stava divorando il futuro, non potevo giocare, correre, non potevo farmi la doccia in serenità. Fino a quando, nel 2007, i medici francesi mi presero da parte e mi spiegarono che la soluzione migliore era l’amputazione dell’arto e che quello era il momento migliore per procedere, visto che il mio fisico si era stabilizzato. La mia reazione fu positiva, dissi: “So com’è la vita con questa gamba, ed è terribile, voglio provare a vedere com’è senza”. Avevo otto anni.  

Com’è ricominciata la vita “senza”?

Venni amputato a Parigi e la mia vita prese una svolta colossale. Certo, il mio fisico si doveva abituare, ho affrontato alcuni mesi di riabilitazione non semplici, ma poi iniziai una vita completamente nuova, con una naturalezza che non potevo neanche immaginare. Mi sono avvicinato allo sport proprio grazie alla riabilitazione, iniziai a praticare il nuoto.

E alla scherma come sei arrivato?

Dopo un anno e mezzo di nuoto, il mio istruttore ha dovuto lasciare la piscina e io non avevo più nessuno che potesse rispondere alle mie esigenze. A Bologna mi rivolsi allo sportello del Comitato Italiano Paralimpico che indirizza giovani con disabilità ai vari centri sportivi. Qui i miei genitori vennero messi in contatto con Gianni Scotti, allora presidente regionale del Comitato Paralimpico Italiano, che propose loro di indirizzarmi alla scherma. Non sapevo nulla di questo sport, ma volevo provare. Entrai alla Zinella Scherma di San Lazzaro di Savena dove iniziai a lavorare con Magda Melandri, maestra che mi segue ancora oggi.

Negli ultimi anni la scherma paralimpica ha fatto grandi passi in termini di seguito e visibilità, anche grazie a una campionessa come Bebe Vio. Percepisci anche tu questa maggiore attenzione?

Sì, la scherma paralimpica è entrata a far parte della Federazione Scherma e questo le ha dato ulteriore visibilità. Stiamo raggiungendo importanti risultati a livello internazionale e poche settimane fa sono stato uno dei 13 componenti della squadra paralimpica (tra cui 4 schermidori, NdR) a prestare giuramento nella Polizia di Stato, un passo molto importante per tutto il movimento.

Tu hai partecipato a due Paralimpiadi, Rio 2016 e Tokyo 2020 (svolta in realtà nel 2021 a causa della pandemia da Covid). Che esperienze sono state?

Un’emozione indescrivibile, soprattutto Rio. Ho scoperto di essere qualificato nel mese di giugno, poco prima dell’inizio dei Giochi, mentre gli altri componenti della spedizione lo sapevano già da alcuni mesi. Poco prima avevamo disputato gli europei individuali e squadre, dove arrivammo secondi per poco. Ma una verifica fece emergere che il punteggio non era corretto e fummo ripescati. Cancellai gli impegni dell’estate e partii con la squadra, ero il più giovane di tutta la spedizione azzurra, con i miei 17 anni. Questo mi ha permesso di vivere l’esperienza sia con gli occhi di un adolescente, sia con occhi più adulti, per la responsabilità di vestire la maglia azzurra. Mio padre, dopo aver visto la cerimonia di apertura in televisione, non è riuscito a rimanere a casa come previsto ed è partito per Rio per venire a seguirmi dal vivo. A Tokyo è stato altrettanto bello, anche se la vita al villaggio olimpico è stata un po’ smorzata a causa del Covid. Se a Rio non avevo pretese di medaglie, a Tokyo invece ci speravo, mi ero allenato tantissimo, ma nell’individuale ho perso di un pelo, sia nella spada che nel fioretto. Ci penso ogni singolo giorno… Ora guardo con grande attesa a Parigi 2024.

La tua vita però non si ferma allo sport…

Porto avanti altre due grandi passioni. La musica, suono il pianoforte ormai da tempo, dopo aver iniziato seguendo l’esempio delle mie sorelle maggiori, e compongo brani originali che spesso diffondo e condivido sui social. E poi lo studio: sto frequentando Ingegneria dell’automazione a Bologna e il mio sogno per il futuro è aiutare altre persone che come me hanno necessità di utilizzare una protesi, uno degli sbocchi possibili del mio percorso universitario. Mi rendo conto che ogni materia che studio e ogni esame che do mi permettono di aggiungere un tassello alla mia strada in questa direzione.  

Sui tuoi profili, Instagram in particolare, racconti molto di te. Che rapporto hai con i social?

Li ritengo un importante mezzo di comunicazione, tramite cui sto cercando di divulgare la mia storia, il mio rapporto con la gamba amputata e la protesi, con le sofferenze dell’Emanuele bambino che comunque riusciva a sorridere, per cercare di raccontare come vivo la mia vita: alla leggera, ma non con leggerezza. E quindi metto nella narrazione anche un po’ di ironia.

Non ho problemi a porre me stesso, per come sono, davanti al mondo che mi circonda. E questo cerco di metterlo in pratica anche quando incontro i ragazzi delle scuole o con le aziende durante gli incontri a cui partecipo.

Hai mai vissuto episodi negative a causa dei social?

La maggior parte sono situazioni molto belle: tante persone mi scrivono per dirmi che le ho aiutate, come esempio e stimolo, spesso sono famiglie e ragazzi che stanno vivendo percorsi simili al mio. Solo in un caso anni fa sono incappato in un episodio molto spiacevole, a causa di un mio errore di ingenuità. Dopo una medaglia in Coppa del mondo a Tokyo pubblicai una fotografia in cui sorridevo e mimavo gli occhi a mandorla, non sapendo che il gesto era mal visto e ritenuto offensivo dalle persone asiatiche. Errore mio. Nel giro di poche ore sono stato sommerso da insulti e minacce molto pesanti provenienti un po’ da tutto il mondo. È stato un momento difficile e mi ha fatto capire prima di tutto che bisogna essere sempre consapevoli di quello che si fa, e io in quel caso ero stato davvero ingenuo e me ne scuso, lo feci anche pubblicamente, ma anche che i social possono essere un motore di odio molto forte, di messaggi che rimbalzano e si amplificano, spesso senza lasciare spazio al confronto o alla spiegazione.

Però sei anche quello che celebra il 25 aprile davanti ai memoriali dei partigiani e che non si risparmia quando si tratta di portare aiuti in prima persona, come nel caso delle recenti alluvioni in Emilia Romagna…

Diciamo che sono una persona molto eclettica e tutto quello che faccio lo inserisco nel mio percorso di vita come una crescita individuale e collettiva. Per questo, anche forte della mia esperienza da scout vissuta da ragazzino, appena finita una serie di gare a giugno ho deciso che sarei partito per fare la mia parte e aiutare famiglie e persone le cui case erano state sommerse dal fango. Mi sono organizzato, informandomi nei centri di dislocamento volontari, e sono partito più volte, o con persone del mio paese o da solo. È stata un’esperienza indescrivibile. Sono convinto che davanti alle difficoltà ciascuno debba dare il proprio contributo.  

Emanuele Lambertini, foto Marco Mantovani

Quello che ti aspetta è un autunno impegnativo. A breve sarai protagonista di nuovi appuntamenti di avvicinamento a Parigi 2024, ma cosa rappresenta per te lo sport nella quotidianità?

Per me lo sport è importante perché sa insegnare che cos’è la sofferenza. Detta così può sembrare strana come affermazione, ma la dice un ragazzo che fin da bambino ha dovuto confrontarsi con il dolore. Ora, da atleta, so che l’unico modo per crescere davvero è allenarmi fino a quando i muscoli mi fanno male per la fatica, spostare i miei limiti di volta in volta un po’ più in là. Gli obiettivi li raggiungi solo se sei disposto ad accettare e sopportare quel dolore e quella fatica. Se devo poi dire qualcosa in particolare della scherma… è una disciplina sportiva che ti dà delle scariche di adrenalina uniche: duelli con un avversario che spesso non conosci, devi avere un grande controllo su di te, è tecnica e strategia. In pedana ci vai da solo, ma per fortuna sai che dietro ha un grande team che ti sostiene e questo per me è fondamentale.