Uno degli obiettivi principali di Odiare non è uno sport è incontrare i giovani, dialogare con loro per approfondire e conoscere cosa sia l’hate speech e lavorare insieme per contrastarlo. Ecco perché, nelle sette regioni italiane coinvolte dal progetto, durante l’anno scolastico formatrici e formatori delle ong partner hanno attraversato gli istituti scolastici per svolgere attività a stretto contatto studenti e studentesse e giovani di età compresa tra 11 e 18 anni. Tra loro anche Vittoria Frigerio e Silvia Chiesa, formatrici di Progettomondo che opera nell’area veronese.
La formazione, che si è svolta tra novembre e aprile, è stata realizzata in 16 classi di Verona e provincia. Frigerio e Chiesa hanno incontrato 14 classi delle scuole secondarie di primo grado e 2 classi delle scuole secondarie di secondo grado, lavorando in totale con 411 studenti e studentesse. Sono inoltre stati raggiunti 94 giovani sportivi tra gli 11 e i 17 anni, suddivisi in 7 squadre: 4 squadre di calcio e 3 squadre di rugby.
articolo a cura di Progettomondo
“Le attività che abbiamo svolto hanno confermato ancora una volta che i ragazzi e le ragazze, quando coinvolti e stimolati, riescono sempre a dare spunti e riflessioni arricchenti”, dicono le due formatrici. “Sia nelle scuole medie che nelle superiori, la discriminazione percepita come più forte e diffusa è legata all’aspetto fisico, complice anche il cambiamento di altezza, peso e forme, tipico del periodo adolescenziale. Le differenze si amplificano con le discriminazioni rispetto al colore della pelle, elemento più facilmente esposto a possibili giudizi e discriminazioni.
Dai feedback ricevuti da ragazzi e ragazze, la formazione svolta durante il progetto sembra essere un buon punto di partenza: parlare dei fenomeni discriminatori rappresenta un modo di prendere atto che il problema esiste.
“La consapevolezza -proseguono le formatrici – emerge come la chiave reale, visto che la maggior parte della popolazione giovane coinvolta non conosceva o non sapeva descrivere il significato della parola stereotipo. Fornire esempi concreti che aiutino ad avvicinarsi al concetto di stereotipo, che trasportino l’immaginario dei ragazzi e delle ragazze verso situazioni più concrete per immedesimarsi nelle conseguenze quotidiane provocate dalla discriminazione può realmente fare la differenza. Questo passaggio, questa chiave di lettura che scatta, invita a conoscere e poi valutare con la propria testa in che modo sapere agire di fronte alle discriminazioni”.
Anche la parola empatia risulta poco conosciuta soprattutto nell’età più giovane. “Il termine, e la narrazione su come mettere in pratica il processo empatico, ha incuriosito le classi e andrebbe senza dubbio sviluppato con il supporto dei docenti e delle famiglie”.
“Le classi che abbiamo attraversato in molti casi sono a stretto contatto con quello viene percepito normalmente come bersaglio di pregiudizio. Abbiamo incontrato contesti eterogeni per provenienza di studenti e studentesse, e anche classi con la presenza di persone disabili. Non abbiamo notato pregiudizi razzisti verso compagni e compagne di classe, anzi. Gli studenti e le studentesse incontrati sono abituati a venirsi incontro nelle difficoltà legate alla lingua o nel cercare di comprendere un momento di difficoltà di coetanei e coetanee. Nonostante durante la formazione sia emerso qualche episodio di pregiudizio razzista vissuto in prima persona, gli studenti e le studentesse hanno raccontato con molta più libertà episodi di linguaggio d’odio vissuti dalle loro famiglie o da parenti e amici”.