Cronache di ordinario sessismo nel calcio femminile

articolo di  Polisportiva Socrates Treviso

Qualche settimana fa il parroco di Losson, frazione di Meolo in provincia di Venezia, ha negato l’utilizzo del campo parrocchiale alla squadra femminile under 15 della ASD calcio Meolo. In vista della prima stagione della categoria Under 15 la società, che da pochi anni ha avviato la squadra femminile, aveva chiesto ad inizio agosto la possibilità di utilizzare il campo di Losson, area attualmente inutilizzata ed abbandonata.

Dopo più di un mese di silenzio il parroco don Roberto Mistrorigo, su sollecitazione dell’allenatore Dario Dalla Francesca, ha convocato il presidente della società sportiva e l’allenatore stesso per comunicargli la decisione.

La motivazione addotta, come riportato dall’allenatore su un post su facebook, sta nella impreparazione della comunità. La decisione però sembra essere riferita solamente alla decisione del consiglio pastorale e della diocesi di Treviso (nulla di cui meravigliarsi vista la lunga storia di intercessioni nello sport femminile da parte della chiesa): non è dunque chiaro a cosa si sia riferito il parroco parlando di “comunità”, che ha scelto di non aggiungere altre spiegazioni.

La notizia è stata ripresa da molte testate giornalistiche nazionali e locali in modo critico: la squadra femminile giocherà nello stadio di Meolo, dovendo però utilizzare gli spogliatoi del palazzetto dello sport.

A fronte della possibilità di ridare vita ad un impianto sportivo attualmente abbandonato come quello di Losson, la scelta obbligata è stata quella di costringere le giocatrici ad una soluzione precaria, aggiungendo un ulteriore ostacolo ad un movimento sportivo che già vive di molte difficoltà.

La crescita del movimento calcistico femminile degli ultimi anni è evidente: dal 2008 al 2020 l’aumento delle calciatrici tesserate è stato del 66,5%, ed il passaggio all’interno della FIGC della serie A femminile dal 2018 e al professionismo nel 2022 ha determinato un importante cambio di passo.

Anche la diffusione nei canali di comunicazione è in crescita: a fronte di una storica invisibilizzazione nel 2019 la RAI ha trasmesso i mondiali di calcio femminili registrando 24 milioni di spettatori totali, e dal  2021 la massima serie del campionato femminile viene trasmessa in TV prima da SKY e poi da LA7.

Questa esposizione mediatica ha fatto si che sempre più sponsor si interessassero al movimento, aumentando quindi la disponibilità economica delle squadre della massima serie.

Eppure la notizia di quanto accaduto a Meolo non può sorprendere: se da un lato l’enorme lavoro dei movimenti per i diritti delle donne e contro le discriminazioni di genere hanno contribuito ad abbattere alcune barriere ideologiche, motivo per cui oggi una bambina o ragazza che decide di iniziare a giocare a calcio non rappresenta più una scelta straordinaria, dall’altra permangono ragioni culturali profonde che contribuiscono a creare l’humus in cui dichiarazioni come quelle del parroco di Losson non rappresentano un’eccezione.

Di certo il ruolo la narrazione del calcio femminile come sport “minore” rispetto al corrispettivo maschile riveste un ruolo importante: paragonare due movimenti con storie, investimenti e diffusione così diverse, è una scelta ideologica che non fa il bene del movimento calcistico femminile, generando aspettative poco rappresentative dello stato delle cose.

Gli investimenti sopra descritti riguardano unicamente le società di calcio professionistiche, mentre a livello locale e dilettantistico il calcio femminile vive una situazione a tutt’oggi precaria: le strutture di gioco e di allenamento sono poche e spesso vengono “cannibalizzate” dalle squadre maschili, costringendo le giocatrici ad una fatica ulteriore per incastrare gli orari o raggiungere campi da gioco distanti e poco confortevoli.

A riguardo di ciò è esemplare la vicenda del Centro Storico Lebowski, polisportiva popolare di Firenze, unica nel panorama italiano ad investire in misura superiore nella squadra femminile rispetto alla squadra maschile.

Nel 2022 la squadra raggiunge l’ambito risultato di qualificarsi per la serie C del campionato femminile, serie che nel movimento femminile è considerata della lega dilettantistica (nel calcio maschile la serie C è la prima serie ad essere considerata professionistica, ndr).

Al termine della stagione, conclusa con la salvezza, arriva la comunicazione della società: “Nella stagione 2023/2024 il C.S.Lebowski non iscriverà la propria squadra femminile alla Serie C, nonostante la straordinaria salvezza ottenuta sul campo ai Playout.È una decisione estremamente sofferta ma, nonostante gli sforzi e i tentativi, non possiamo che prendere atto del fatto che una nuova stagione di Serie C sarebbe stata per noi insostenibile dal punto di vista economico e non solo. Affrontare un campionato nazionale e farlo garantendo standard accettabili ad atlete e staff comporta un aumento dei costi clamoroso rispetto a un campionato regionale. L’attuale organizzazione dei campionati femminili costringe le società a un vero e proprio salto mortale, per poi trovarsi a macinare km e km e ad affrontare squadre che, nella maggior parte dei casi, rappresentano club professionistici.”

La differenza è evidente: per i tornei dilettantistici maschili si parla al massimo di tornei regionali, che quindi consentono con relativa facilità le trasferte alle squadre, mentre costruire un campionato nazionale per una lega non professionistica equivale a marcare una distanza incolmabile tra società già professionistiche e quelle che non lo sono.

Resta quindi il dubbio che gli investimenti e l’avanzamento del movimento “dall’alto” non siano dovute ad un tentativo di avanzamento nelle politiche contro le discriminazioni, ma piuttosto un raffazzonato tentativo di rendere prodotto di speculazione anche il movimento calcistico femminile.

Ad evitare altri casi come quelli di Losson non saranno di certo gli investimenti di Ebay nel torneo di serie A femminile, quanto un lavoro territoriale di diffusione di politiche attive di accessibilità allo sport a prescindere dal genere o dall’estrazione sociale, per garantire le stesse possibilità a tutte e a tutti.

Commenti sessisti in Rai. Mimma Caligaris: “Quanta strada da fare”

Hanno fatto discutere e indignare tutta Italia le frasi sessiste pronunciate dal giornalista Rai Lorenzo Leonarduzzi, incaricato della telecronaca dei tuffi durante i Mondiali di nuoto, assieme al commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi. Frasi offensive nei confronti delle tuffatrici nella disciplina del sincronizzato, vero e proprio body shaming, commenti scurrili, andati in onda su RaiPlay2, e contro cui è stato presentato un esposto da parte di Usigrai, Ordine dei Giornalisti, CPO dell’FNSI e Associazione GiULiA Giornaliste. Ma il caso che ha fatto scalpore non è purtroppo isolato ed è da contestualizzare in quella che spesso è una narrazione sportiva ancora scorretta e degradante nei confronti delle atlete.

Ne abbiamo parlato con Mimma Caligaris, giornalista sportiva di lungo corso, oggi vicepresidente vicaria Ussi (Unione Stampa Sportiva Italiana), nella giunta esecutiva della FNSI (già presidente della Commissione Pari Opportunità dello stesso sindacato nazionale dei giornalisti), nonché componente del Gender Council della International Federation of Journalists e del Gender and Diversity Expert Group – GENDEG della European Federation of Journalists. Una delle voci più competenti in tema di linguaggio e narrazione sportiva nell’ottica della parità di genere.

di Ilaria Leccardi

“Le olandesi sono grosse. Come la nostra Vittorioso […]. Ma tanto a letto sono tutte uguali”. “Questa (la tuffatrice Harper, NdR) è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. Sono alcune delle espressioni pronunciate durante la diretta. Qual è la gravità di quanto successo ai Mondiali di nuoto? Com’è possibile nel 2023 alla TV pubblica sentire parole e commenti di quel genere nei confronti delle sportive?

La gravità è doppia. Da una parte per il fatto in sé, per il linguaggio utilizzato dal giornalista in diretta, dall’altra perché di fronte alla segnalazione – arrivata da alcuni spettatori tramite una Pec circostanziata inviata alla Rai – il telecronista ha risposto sostenendo che si trattasse solo di battute da bar, pensando di essere fuori onda. Prima di tutto, pensare di essere fuori onda è un’aggravante, e poi il commento dimostra una volta di più quanto siamo ancora indietro, perché c’è chi sostiene che le donne siano oggetti su cui raccontare barzellette, su cui parlare non per raccontare i risultati sportivi, ma per irridere e commentare le loro caratteristiche fisiche, ironizzando pesantemente sull’aspetto fisico, la corporatura, il tipo di abbigliamento.

Ci preoccupa l’approccio sessista e sminuente del ruolo delle donne, purtroppo ancora effettivo su diversi canali, emittenti, testate cartacee e online (non solo nel servizio pubblico, dove esiste comunque una policy di genere da seguire). Per fortuna – visto che il caso è stato sollevato grazie a persone che seguivano la diretta – notiamo anche una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, capace di guardare con sensibilità ai commenti, al racconto, alle parole e all’approccio narrativo dello sport.

Quanta discriminazione ancora c’è nella rappresentazione sportiva tra uomo e donna? E quali sono gli aspetti più critici di questa narrazione che spesso si sofferma su elementi che nulla hanno a che fare con la prestazione sportiva?  

Siamo a un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, i primi in cui ci sarà una effettiva parità di numeri tra uomo-donna, vicina al 50 e 50 come numero di atleti e atlete in gara. Ma c’è ancora una strada lunghissima da fare nel racconto dello sport.

Gli uomini sono citati tre volte più spesso nelle donne nell’ambito sportivo e sociale, che le atlete sono spesso associate a parole e temi come gravidanza, età, matrimonio, aspetto fisico, che per gli uomini la descrizione della corporeità è legata principalmente al concetto di resistenza. Le atlete sono indicate come “ragazze” il doppio delle volte rispetto ai colleghi maschi, spesso delle sportive nei titoli dei giornali si riporta solo il nome, senza il cognome, mentre il gossip e il modo di vestire mettono in secondo piano il risultato sportivo.

Per creare condizioni vere di parità pur nelle differenze, il linguaggio è fondamentale. Facciamo l’esempio del calcio, visto che sono iniziati da poco i Mondiali femminili. Io sono fortemente convinta che sia importante la declinazione al femminile dei ruoli in campo. Ad esempio, chi sta in porta in una squadra femminile dovrebbe essere chiamata “portiera”, che è un vocabolo esistente della lingua italiana. E chi si para dietro alla giustificazione che sia la diretta interessata a voler essere chiamata “portiere”, vuole semplicemente pulirsi la coscienza. Bisognerebbe provare a fare lo sforzo di spiegare che la definizione “portiera” è un’affermazione di identità conquistata con un lungo percorso. Usare il termine maschile significa interiorizzare che il proprio valore è inferiore a quello dell’uomo e che l’unico modo per sentirsi alla pari è utilizzare il termine maschile. A risentirne è l’autostima, con una percezione diffusa di disvalore che condiziona le scelte.

Ma il problema non riguarda solo le parole.

Anche la rappresentazione per immagini è critica. Pensate alle partite di beach volley. Nei tornei maschili le immagini si concentrano principalmente il gesto tecnico, mentre nelle partite femminili, l’inquadratura il più delle volte parte dal fondoschiena delle giocatrici. Una volta mi confrontai con un operatore il quale mi spiegò che era una richiesta esplicita, perché serve a fare più audience, come un titolo sensazionale serve a fare più clic.

Purtroppo, però il giornalismo italiano ricorda anche episodi veri e propri di body shaming, come il caso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando Il Resto del Carlino titolò “Il trio delle cicciottelle”, per raccontare la squadra di tiro con l’arco femminile.

In quel caso il direttore fu sollevato dall’incarico. E quando Lucilla Boari, una delle arciere azzurre, vinse il bronzo olimpico a Tokyo 2021, si ricordò ancora di quell’appellativo. Il body shaming purtroppo nella narrazione sportiva è fortemente presente. Altro caso eclatante, fu quello del telecronista di una tv privata campana che definì il calcio femminile come “un covo di lesbiche”. Dopo i nostri esposti, questo collega venne radiato dall’Ordine dei Giornalisti, ma comunque a questa persona si è continuato a dare spazio in altri modi.

Lucilla Boari, bronzo olimpico a Tokyo nel tiro con l’arco

A livello internazionale qual è la situazione?

Lo sport è un contesto delicato, ma si stanno facendo passi avanti anche a livello istituzionale. Come dimostra il progetto Combating Hate Speech in Sport che mira a fornire assistenza alle autorità pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea, per sviluppare strategie globali di contrasto ai discorsi d’odio nel quadro dei diritti umani.

E i social che ruolo hanno in tutto questo?

Tante volte hanno un ruolo devastante. Tornando all’episodio dei Mondiali di nuoto, ho letto commenti pubblicati da utenti sui social che fanno rabbrividire. Molte persone hanno dato ragione ai commentatori o comunque li hanno giustificati. Ho letto commenti sessisti e sminuenti delle persone ma anche della disciplina in sé, i tuffi sincronizzati. Purtroppo, è difficile ottenere una policy sui social anche a livello internazionale. Sui social media, spesso c’è la sensazione di poter dire tutto ciò che si vuole, di sentirsi giornalisti e giornaliste senza averne gli strumenti. Questo provoca un proliferare di fake news, una produzione di contenuti che non hanno basi deontologiche, che non rispettano i principi della corretta informazione. Ed è molto pericoloso.

Quanto è difficile per una sportiva in quest’ottica far sentire la propria voce, e fare valere il diritto di essere degnamente rappresentata?

Se per lo sport maschile è sistematico occupare spazio, le sportive conquistano le prime pagine solo perché hanno ottenuto un grande risultato. C’è una gerarchizzazione delle notizie che porta lo sport praticato dalle donne relegato alle varie, ai trafiletti, alle ultime pagine dei giornali. Lo scatto culturale deve venire dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, bisogna aumentare lo spazio dedicato allo sport femminile e far sì che questo spazio sia riempito di parole e di immagini giuste.

E nel caso in cui si verifichino episodi gravi di narrazione scorretta è fondamentale il rafforzamento delle reti di monitoraggio e sostegno. In Italia ormai, grazie alla stretta collaborazione tra CPO dell’FNSI, CPO dell’Ordine dei Giornalisti, Usigrai e Associazione GiULiA Giornaliste, ci sono frequenti segnalazioni, è difficile che casi di discriminazione o narrazioni tossiche passino inosservati. Perché nessuna persona deve sentirsi sola di fronte a parole d’odio.

Lo sport deve unire le persone, deve costruire fiducia, spirito di comunità, deve abbattere le barriere. Il racconto scorretto finisce per esacerbare tensioni e rivalità e favorire discriminazioni dei confronti di determinate categorie di persone, generalmente le più fragili.

E le sportive possono avere un ruolo diretto nell’affermare il proprio ruolo, anche a livello sociale? 

Su questo mi piace sempre citare il caso di Lella Lombardi, unica donna a riuscire a conquistare punti in Formula 1, ma anche capace di denunciare in conferenza stampa l’avversione dei colleghi maschi alla sua presenza nel circuito. Una posizione che Lombardi pagò, visto che poi la sua casa automobilistica assegnò la monoposto a un uomo. Eppure, lei non ha mai smesso di battersi, aiutando anche altre giovani e seguire la sua strada nell’ambito dei motori. Oggi di lei si legge qualcosa in più, anche se spesso viene descritta sottolineando il suo taglio di capelli “maschile”. Io prendo sempre ad esempio la sua storia, le sue battaglie, per dire che bisogna continuare a combattere e anche le stesse sportive devono provare a farlo. Nella storia dello sport penso che esista un prima e un dopo Lella Lombardi.

Le atlete vanno raccontate per quello che fanno in campo, in pista, per come hanno costruito la propria storia sportiva. Il mio appello è: scriviamo più storie di sport e scriviamole con le parole giuste.