A Parigi Valentina Petrillo ha scritto la storia. Correndo nella categoria T12 i 400 metri e i 200 metri, dove ha raggiunto le semifinali senza poi riuscire ad accedere all’atto conclusivo per le medaglie, l’azzurra è diventata la prima atleta transgender a gareggiare in una Paralimpiade. L’avevamo intervistata nella prima edizione di Odiare non è uno sport, approfondendo la sua storia umana e sportiva, quando ancora in pochi parlavano di lei.
di Ilaria Leccardi
Gli anni di allenamento per arrivare a Parigi sono stati duri e impegnativi, per l’atleta napoletana che oggi vive e si allena a Bologna e che gareggia in ambito paralimpico in quanto fin da adolescente ha la malattia di Stargardt che comporta una grave ipovisione. Lo scorso anno era stata bronzo mondiale sui 200 e 400 metri e la partecipazione ai Giochi Paralimpici di Parigi è un grande risultato. La sua, che è senza dubbio una storia di inclusione importante, di ispirazione per tante e tanti giovani che vivono nell’ombra, ha però scatenato critiche e commenti d’odio. Non si parla del merito della sua partecipazione: il regolamento internazionale lo permette, Valentina rispetta i parametri indicati dell’IPC, il Comitato Olimpico Internazionale, e da World Para Atheltics. Qui si parla di odio, hate speech, vera e propria discriminazione attraverso le parole che in queste settimane e giorni sono rimbalzate del web, contro la sua persona, contro l’intera comunità LGBTQIA+.
Questa è la notizia di cui nessuno parla. Come se fosse ormai un fenomeno normale, la libertà di deliberatamente insultare sul web. Tra chi argomenta in maniera civile che la partecipazione di Valentina Petrillo non è opportuna, perché avrebbe dei vantaggi fisici sulle altre donne (quando al momento nessuno studio scientifico lo conferma e, semmai, dice il contrario per le persone che seguono la terapia ormomale MtF – da maschio a femmina), e chi invece si lascia ad andare a insulti gratuiti e violenti, anche attraverso volgare ironia utilizzando meme. Ad ogni notizia pubblicata sui social da testate giornalistiche o dalle tantissime pagine di informazione e divulgazione attive in particolar modo su Facebook, ha fatto seguito una valanga di hate speech, per lo più denigratori e insultanti, nei termini e nei modi. Catena di parole inaccettabili, pochissime volte censurate dai moderatori delle pagine stesse.
Sul caso si è espressa anche J.K Rowling, autrice di Harry Potter, che già aveva parlatosul caso di Imane Khelife, la pugile algerina avversaria nel primo turno olimpico dell’azzurra Angela Carini. Su X, dove ha enorme visibilità mondiale, Rowling ha attaccato come già più volte in passato la comunità trans e ha utilizzato per Valentina il termine “cheat”, ossia imbrogliona, paragonandola a Lance Armstrong, ciclista vincitore di sette Tour de France, prima di essere squalificato a vita per uso di doping. Questo ha contribuito ad alimentare il dibattito. Solo questo tweet ha raccolto in pochi giorni 4 milioni di visualizzazioni, oltre 60mila like, 10mila retweet e 3.500 commenti.
All”ondata di odio Valentina ha risposto in pista, prima correndo, poi con forza e parole semplici ai microfoni Rai. “In un suo libro J.K. Rowling parla di uno sport senza genere… Mi sarei aspettata qualcosa di più da lei”.
Il sogno di Valentina, realizzato su quella pista lilla di Parigi, ha valore soprattutto per tutte le persone trans che sono state invisibilizzate e marginalizzate, per chi si sente escluso da un contesto sportivo che dovrebbe essere per sua natura inclusivo. “Lotto contro tutto l’odio che accompagna la vita delle persone come me. Nel mondo ancora si muore per il solo fatto di essere trans. Io incarno due diversità, la disabilità e l’essere trans, e spero che attraverso il mio messaggio si possa finalmente normalizzare questi fenomeni e non avere più paura”.
Riportiamo qui soltanto un piccolo esempio degli innumerevoli commenti racconti sui social, per evitare di riprodurre ulteriore violenza. Che siano abbastanza per capire di cosa stiamo parlando.
“Sogno un futuro in cui nessuno debba più sentire storie come la mia. Sogno un futuro in cui non ci siano più bambini, bambine, adolescenti, costretti e costrette a nascondersi, ad avere paura, a non potersi esprimere per quello che sono: in famiglia, nella società, nelle attività di tutti i giorni. E nello sport, sì, anche nello sport”.
Valentina Petrillo è una campionessa paralimpica che gareggia sulle distanze dei 200 e 400 metri nella categoria T12, riservata alle persone ipovedenti. Dall’età di 14 anni soffre della sindrome di Stargardt, che preclude fortemente la vista. Ma Valentina è anche una persona che sta scrivendo la storia dello sport italiano e internazionale. È infatti la prima ad aver affrontato la transizione di genere a correre nella categoria a cui si sente di appartenere: le donne.
Il 2021 sarà un anno fondamentale per lo sport. Dopo il rinvio causa Covid dei Giochi di Tokyo, il mondo è in attesa di capire se sarà possibile disputare l’evento. E nel frattempo tutti i campioni che puntano a quel traguardo sono in lotta con se stessi o gli avversari per conquistare il pass. Valentina è in forma, finalmente. Il corpo risponde bene agli allenamenti e le gambe girano forte. Nel meeting di Ancona del 31 gennaio ha fatto siglare il record italiano paralimpico femminile sui 400 metri. “Dal punto di vista sportivo è un momento importante, questa era la seconda uscita stagionale. Una settimana prima, ai Campionati paralimpici, avevo vinto ma con un tempo più alto. Qui, oltre all’oro, sono riuscita a segnare il nuovo primato italiano assoluto sulla distanza, con il tempo di 1’02.88. Sono molto felice. Ho dato il via a una fase importante che potrebbe darmi molte soddisfazioni. E questo, a due anni dall’inizio della terapia ormonale”. La strada per Tokyo è ancora lunga: la prossima tappa fondamentale sarà il weekend del 15/17 aprile, quando a Jesolo si terrà il Meeting internazionale paralimpico, prima occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e quindi ritenuti validi per i pass a cinque cerchi.
“Per molti il 2020 è stato un anno terribile. A me, nonostante tutto, ha permesso di prepararmi al meglio e ha consentito al mio corpo di abituarsi alla terapia ormonale che è tutto fuorché una passeggiata”, prosegue.
Valentina corre perché è nata per farlo. E corre fin dal giorno in cui, ad appena sette anni, vede Pietro Mennea volare sui 200 metri ai Giochi di Mosca. Ma Valentina per troppi anni è costretta a vivere una vita che non è la sua.
Io sono il classico esempio di una persona che per timore dello stigma sociale si è tenuta tutto dentro. L’impatto della società, di cosa avrebbe potuto comportare essere veramente me stessa, ha inciso molto sul mio percorso di vita.
foto FISPES – Mantovani
“Ho provato a lottare per rimanere nel posto assegnatomi dalla società, che inscatola i bambini maschi con un fiocco azzurro. L’ho fatto fino a quando sono esplosa. Per 44 anni non ho avuto strumenti, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. Sono nata nella Napoli degli anni Settanta, dove i femminielli erano considerati la “feccia” della società. Con una cugina più grande di me che, dove aver dichiarato di essere trans, venne cacciata di casa dal padre e non fece una bella fine. Avevo paura e mi sono nascosta”.
Poi però arriva il momento in cui Valentina non può far altro che essere se stessa. Prima di iniziare il percorso di transizione, aveva già vinto 11 titoli italiani paralimpici maschili nella sua categoria di disabilità. Lo sport è sempre stato importante, ma a un certo punto la scelta di iniziare la transizione diventa prioritaria. “Sentivo che per essere me stessa dovevo arrivare a realizzarmi in quanto donna, a prescindere dallo sport. Se poi fossi riuscita a coronare il sogno anche in ambito sportivo, sarebbe stato fantastico”.
Un ruolo centrale nel suo percorso lo ha il Gruppo Trans di Bologna che da anni segue e affianca le persone nei percorsi di transizione. “Fino al giorno in cui non ho varcato la soglia dell’Associazione, grazie al consiglio di un’amica, e ho visto quella che poi sarebbe diventata una delle persone di riferimento per me, Milena, non potevo immaginare la normalità della situazione. Nel mio immaginario le persone trans erano sempre e solo associate a contesti degradati, di strada. Invece davanti a me vidi una ragazza in scarpe da ginnastica e jeans. Le chiesi se potevo toccarle la mano e capire se fosse reale. La guardai e dissi: ‘Sei la persona che ho sempre saputo di essere, ma che non avevo mai incontrato’. A quel punto avevo capito chi fossi”.
Il percorso di transizione per Valentina inizia quasi subito dopo quell’incontro. Cosa non scontata, visto che prima di avere l’ok da parte dei medici è necessario una lunga valutazione, anche psicologica. “Per me è stata abbastanza rapida, perché era chiara la mia determinazione. Io ero dell’idea che, a prescindere dalla terapia, avrei comunque iniziato a vivere da donna, nei contesti privati e in quelli pubblici”.
L’impatto sul corpo delle persone che affrontano il percorso di transizione non è semplice. Valentina in un mese ingrassa di 10 chili e dopo tre mesi non riesce a correre. È fisicamente spossata, la sua temperatura corporea si abbassa di 2 gradi. La muscolatura fa molta più fatica a recuperare. Le prime gare le affronta dopo sei mesi, ancora nella categoria maschile, e il calo delle prestazioni in pista è evidente. Ma non si arrende, soprattutto con l’obiettivo di gareggiare finalmente nel genere che le appartiene.
I momenti più difficili, ricorda, sono due. I primi mesi del 2018, “quando iniziavo a uscire di casa vestita da donna, ma negli ambiti sociali come il lavoro vivevo ancora da uomo. E per me era terribile, una sorta di sdoppiamento di personalità, in cui sentivo che Valentina chiamava, ma non potevo sempre rispondere”. L’altro è stato nel 2019, poco dopo l’inizio del percorso di transizione, quando le Federazioni sportive le dicono che il suo sogno di gareggiare con le donne è irrealizzabile.
foto FISPES – Mantovani
Poi qualcosa cambia. Da una parte l’Uisp e il Gruppo Trans intervengono per sollecitare un passo in avanti, poi – nel giugno 2019 – l’incontro con Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. “Gli mandai una mail e lui mi convocò. Fu un incontro bellissimo, in cui parlammo di tutto tranne che di sport. ‘Valentina- mi disse – io ti vedo come vedevo me stesso dopo l’incidente che provocò la mia disabilità. Ti capisco’. Non so bene cosa sia successo, ma so che a un certo punto la FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, mi aprì le porte”.
L’11 settembre 2019 Valentina Petrillo diventa la prima persona trans a correre nella categoria del genere di appartenenza. E poi, a ottobre, si aprono le porte anche della Fidal, nei campionati Master ad Arezzo.
Fin dall’inizio Valentina si pone il dubbio se sia giusto o meno gareggiare con le altre donne. Ma la risposta, la più semplice possibile, arriva dalla dottoressa Joanna Harper, medico statunitense che da anni approfondisce il tema dalle persone sportive che affrontano la transizione. Lei ricorda a Valentina che esistono regole internazionali da questo punto di vista e che rispetto al passato i diritti delle persone trans sono stati finalmente affermati. Fino al 2003, infatti, non era nemmeno pensabile che una persona trans potesse gareggiare con il genere a cui si sentiva di appartenere. Poi un passo avanti è stato fatto con le prime linee guida, in vigore dal 2003 al 2015, secondo cui i requisiti erano: l’operazione per il cambio di sesso, il riconoscimento legale del proprio cambio di genere e almeno due anni di terapia ormonale. Dal 2015, invece (anche per andare incontro a quelle persone che vivono in Paesi dove il cambio di sesso non è consentito), l’unico requisito è dettato dal livello di testosterone nel sangue: 5 nanomoli. Un livello basso, rispetto al quale – tra l’altro – Valentina è ben sotto.
“Capii che era stato lo stesso CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, ha indicare cosa potevo fare. Non ero un’eretica, chiedevo solo che le regole venissero applicate, anche se fossi stata la prima. E così, dopo qualche chiusura iniziale, il sogno si è avverato. La cosa più straordinaria, forse, è che sia successo proprio in Italia, un Paese dove su certe aperture non siamo certo all’avanguardia. Ma ben venga!”.
foto FISPES – Mantovani
Tuttavia, al di là di quello che le Federazioni hanno permesso, non tutti o tutte hanno accolto bene l’arrivo di Valentina nelle gare femminili. “Sui social – ci spiega – ho imparato a non leggere più i commenti. Solo il primo giorno in cui mi sono esposta come donna ho risposto a una persona che mi attaccava, ma poi, anche su consiglio dei miei collaboratori, ho deciso di lasciar perdere. Nel mondo reale, ho avuto un’ottima accoglienza nell’ambiente paralimpico, dove le persone sono più abituate ad avere a che fare con la diversità, e dove mi conoscevano già bene perché avevo vinto molto prima di iniziare la transizione. Nel mondo sportivo dei cosiddetti normodotati, invece, l’accoglienza non è stata calorosa. So che c’è chi si è lamentata della mia presenza e addirittura c’è chi ha detto che boicotterà eventuali gare a cui mi presenterò”.
Purtroppo lo sport è un ambiente molto sessista, dove – anche necessariamente – vige la divisione agonistica tra maschi e femmine. Ecco perché farsi accettare può essere ancora più dura che nella vita di tutti i giorni. Io stessa penso che delle perplessità siano legittime. Ma noi abbiamo il dovere di fare informazione. Ci sono stati studi di anni per arrivare a stilare le linee guida del CIO e io le sto semplicemente rispettando”.
Sulla storia di Valentina sta venendo prodotto anche un documentario 5 Nanomoli, prodotto da Ethnos e Gruppo Trans, in collaborazione con Uisp e Arcigay. “La visibilità che ho acquisito in seguito alla decisione che ho preso per la mia vita mi fa piacere, anche se ho sofferto molto negli ultimi mesi per l’invadenza e l’intromissione nella vita privata. Molte domande fuori luogo, molte morbosità che mi hanno infastidita. Io penso sempre alla mia amica, la campionessa paralimpica Martina Caironi: qualche giornalista farebbe mai a lei le stesse domande che pongono a me? Credo proprio di no… Eppure sono consapevole che tutto questo servirà. A me da giovane sono mancati gli esempi positivi. Se a 14 anni avessi visto in televisione una Valentina Petrillo che faceva sport, avrei pensato: caspita, ma allora è possibile!E non mi sarei stata nascosta per così tanto tempo. Non posso dire di avere avuto una brutta vita, anzi. Ma sicuramente non era la mia. Cresciamo in una società in cui non è possibile vedere altre strade che quelle imposte dai ruoli che ci pongono alla nascita. E se quei ruoli non li rispettiamo siamo fuori dai canoni, siamo persone sbagliate”.
Nel futuro c’è Tokyo, ma soprattutto un grande sogno: “Io vorrei che Valentina non fosse più il caso a cui guardare con curiosità, ma che dalla mia storia venisse fuori la normalità. Perché ogni persona che viene al mondo deve potersi esprimere e deve poter vivere per quella che è. E non dobbiamo rimanere in silenzio. Lo dico anche pensando a quanto sia stato simile il percorso che ho affrontato per accettare la mia disabilità, l’ipovedenza. Per anni ho parlato ai ragazzi dell’importanza di accettare e rispondere alla malattia, ora lo voglio fare per contribuire a rendere il nostro mondo più vero, sincero e libero. Solo così potrà essere un mondo più felice”.
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